Lo spopolamento non dipende dal Fato ma è l’effetto perverso delle politiche messe in campo [di Antonietta Mazzette]
Il problema dello spopolamento in Sardegna è oggetto di studi sociologici da diversi decenni e ha a che fare con due processi paralleli. Il primo riguarda le dinamiche strutturali globali che interessano popolazioni intere, le quali per poter sopravvivere, sono obbligate a spostarsi dalle aree rurali verso i grandi insediamenti urbani. In questo contesto si colloca il proliferare di megalopoli, che ha in sé quello che Mike Davis aveva definito il “pianeta degli slums“. Il secondo processo riguarda le dinamiche più circoscritte localmente, che hanno a che fare sia con l’invecchiamento della popolazione e la denatalità, sia con l’affermarsi di un modello di sviluppo che ha influito pesantemente sulla perdita di attività tradizionali, di funzioni e di servizi diffusi nel territorio. L’invecchiamento della popolazione e l’assenza di ricambio generazionale sono fenomeni che attraversano gran parte dell’Europa occidentale e che in alcune regioni italiane (quali la Liguria e la Sardegna) si presentano in modo patologico. Com’è evidente, si tratta di processi complessi e non riducibili a facili slogan. Riportando la riflessione sulla Sardegna e sul dibattito che, come un fiume carsico, appare e scompare, a seconda dell’affermazione più o meno gradita del politico di turno, mi permetto di avanzare alcune riflessioni. La prima riguarda gli assetti istituzionali. La recente riforma regionale sugli enti locali che, comunque, si colloca dentro una cornice normativa nazionale, non aiuta ad invertire il processo di spopolamento, perché ha come perni un’idea accentratrice del potere e la densità abitativa come mantra di sostenibilità. Una volta licenziata la città metropolitana del Capo di Sotto e la presunta rete metropolitana di quello di Sopra, tutto il resto (ossia le Unioni e Fusioni dei Comuni che riguardano i due terzi dell’Isola) è ancora da costituire. In tutti i casi, un’idea accentratrice del governo rende difficile da attuare qualunque processo di una vera multilevel governance. Questa logica accentratrice è andata rafforzandosi negli ultimi vent’anni in nome di un presunto rigore efficientistico e della necessità di risparmiare risorse pubbliche. Logica che ha colpito tutti i settori della società, senza però aggredire il grave problema della crescita esponenziale della burocratizzazione degli interventi. Logica che ha avuto un’accelerazione in questi ultimi anni e che presumibilmente accentuerà lo svuotamento di molti territori a favore degli insediamenti urbani (metropolitani o no che siano), dove si concentreranno maggiori investimenti e attività, per cui le popolazioni, soprattutto quelle più giovani, tenderanno a spostarsi là dove ci saranno più opportunità. La restante parte (che comunque è territorialmente la più estesa) sembrerebbe così destinata ad essere sempre più povera e vecchia. Una seconda riflessione riguarda la difficoltà di costruire un’idea futura di Sardegna, che abbia come principale ingrediente l’esperienza del place (luogo). L’esperienza del luogo oggi è al centro anche di tutto ciò che attiene il marketing e il management territoriale. Place contrapposto a placessness, ossia a quei luoghi che subiscono un processo di omologazione proprio in ragione della perdita dei loro tratti distintivi e unici. La prospettiva esperienziale, perciò, non è più solo materia teorica di studio, ma in molti territori (anche italiani) è diventata il presupposto dello sviluppo locale. Ciò significa sviluppare la capacità di individuare il patrimonio tangibile e intangibile dei singoli territori, perché ogni luogo ha delle caratteristiche di unicità e sono proprio queste ad assegnare loro valore strategico. D’altra parte, anche le logiche di marketing territoriale (quindi di mercato) si pongono in questa prospettiva. Ma per conoscere e individuare i fattori distintivi di un luogo, è necessario seguire un chiaro percorso metodologico, individuando le possibili forme di collaborazione tra attori pubblici, privati e no-profit. Infatti, è necessario che i diversi attori condividano una visione strategica del luogo, cioè del futuro. Ciò presuppone studi e metodi partecipativi che abbiano un carattere interdisciplinare (in quest’ottica il ruolo della sociologia è centrale), ma presuppone anche che si abbandoni un’idea accentratrice del governo e che l’attore pubblico abbia una visione prospettica non limitata al suo mandato elettorale. Una terza riflessione riguarda le effettive condizioni delle popolazioni in termini di mobilità e di accesso alle funzioni e ai servizi, compresi quelli dello svago e del consumo. In Sardegna si dedica molta attenzione alla continuità territoriale, mentre se ne presta assai poca alla mobilità interna, tranne quando riguarda le difficoltà di accesso dei turisti. Ebbene, anche in questa materia, se si applicano i principi del risparmio e della densità abitativa, è evidente che non è conveniente investire risorse in tutti quei territori dove c’è poca popolazione, per lo più vecchia, quindi meno propensa a muoversi. Ma se si ragiona in prospettiva, l’investimento che oggi appare diseconomico, potrà rendere molti benefici in termini di rinnovamento generazionale, di rilancio delle economie locali e quant’altro. In definitiva, lo spopolamento non dipende dal Fato, ma è l’effetto perverso delle politiche finora messe in campo. |
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