In ricordo di Giorgio Pisano [di Maria Antonietta Mongiu]
La Collina 8 ottobre 2016. Nella cerimonia degli addii e nelle molteplici elaborazioni del lutto c’è una pratica di recente introduzione. Ancorchè sia il portato di un’innovazione tecnologica non è meno dolorosa di altre che per strutturarsi e diventare consuetudine, hanno richiesto millenni. Si tratta del gesto con cui cancelliamo dal nostro iphone il numero di telefono di chi non c’è più e dal nostro computer la sua mail.E’ un gesto che oggettivizza l’assenza definitiva e sancisce l’impossibilità sine die della relazione e della comunicazione. Se possa definirsi l’incipit della rielaborazione del lutto lo dice la tempistica dell’atto. Più velocemente si compie, prima si evitano quei tentennamenti che rendono il percorso della rielaborazione ancora più grave specie se riguarda una persona a cui ci legava un rapporto “specializzato”.Giorgio Pisano mi è sempre parso uno che praticava quella tipologia di rapporti più o meno con tutti. Differenti le specializzazioni e le intensità della relazione. D’altra parte capita spesso a quelli che trovano un esaustivo appagamento nella famiglia. Per lui un perno d’acciaio senza cui sarebbe stato spaesato e che gli ha consentito autonomia di giudizio, affatto rara, ed indipendenza dai capibastone della politica o d’altro.Nel nostro caso la “specializzazione” del rapporto era capitata dopo decenni di incontri saltuari, legati al lavoro. Negli ultimi anni ha finito per avere a che fare con il corpo o meglio con la salute fallace dello stesso e dunque con la condivisione del senso del limite che interroga ed abita chi ha patologie consolidate e soprattutto, mai dissimulate. Rara avis in una società che esalta il salutismo ed esclude malattia, sofferenza, e persino la morte.Giorgio Pisano non solo non le escludeva ma le ha assunte a protagoniste della sua scrittura senza retorica o pelosità. Scrittura già esercitata a descrivere la realtà senza mitocentrismi. Aveva infatti chiara la necessità di non dimenticare quelli che avevano difficoltà di qualsiasi natura e che la sorte aveva situato in quella marginalità ignorata dai più e, soprattutto, dai decisori politici. Chissà se la patologia rivela di una persona la sua più intima natura. La sua riguardava il cuore, organo e metafora fondativi nel suo caso.Essere “compagni di cuore” non poteva rappresentare solo una carineria, rassicurante ed ironica, ma un agire militante a cui Giorgio teneva moltissimo perché ad esempio la casa comune per migliaia di Sardi che è il Brotzu non venisse declassata ad “ospedaletto”.E’ stato lui l’ispiratore oltreché firmatario di quella “Lettera aperta al Presidente Pigliaru sulle condizioni dell’Azienda Ospedaliera Brotzu di Cagliari”, pubblicata il 19 maggio da SardegnaSoprattutto e dal suo amatissimo giornale L’Unione Sarda – mai tradito neanche in momenti dolorosi – e sottoscritta da alcuni intellettuali. Che, naturalmente, non ha avuto alcuna risposta. Cosa di cui Giorgio non si è affatto stupito.La sua militanza passionale quanto definitiva ed insofferente si è mostrata una sorta di vademecum in un’occasione speciale che vorrei chiamare alla memoria e che, a tutta prima, poteva apparire culturale e persino mondana. A posteriori una sorta di testamento di Giorgio. Mi riferisco all’iniziativa che il FAI Sardegna organizzò lunedì 18 gennaio 2016, a Cagliari, alla Fondazione di Sardegna. Si trattava del sesto appuntamento di “Alla ricerca della storia perduta”, il ciclo di appuntamenti del FAI che tematizza la storia della Sardegna attraverso i romanzi e la saggistica ed i suoi esiti educativi e sociali. Focus della serata il libro Il mio filo rosso: Il «Corriere» e altre storie della mia vita (Einaudi. Passaggi) di Giulia Maria Crespi, fondatrice del Fondo Ambiente Italiano, industriale e proprietaria fino al ’74 del Corriere della Sera. Nella Tavola Rotonda: Una Donna nell’editoria della Prima Repubblica Giorgio Pisano, Giacomo Mameli, Romano Cannas, Franco Siddi, coordinati da Maria Francesca Chiappe si sono confrontati con l’intelligenza che li caratterizza. Ma anche con asprezza perché – diversi per orientamento, carattere, generazione – chiamati, forse per la prima volta, a discutere di quella fase oscura dell’editoria italiana e sarda, in particolare, che corrisponde agli anni ’70. E’ quel pezzo di storia, tutta da scrivere, della Sardegna che corrisponde al momento in cui il Corriere passa nelle mani dei padroni della finanza e della chimica che, contemporaneamente, sbarcarono nella nostra isola occupando le coste ma anche i giornali quotidiani. In quegli anni in Sardegna si misurò con l’editoria persino Flavio Carboni e moltissimi giovani giornalisti ed intellettuali con l’illusione di contenere l’immanenza e la pervasività di Nino Rovelli diventato il vero padrone dell’isola con la complicità di quella che abbiamo finito per chiamare la borghesia compradora che pare non essere ancora a riposo. Quel 18 di gennaio abbiamo tutti capito che è iniziato un percorso di revisione della storia della Sardegna contemporanea e della sua narrazione. Giorgio la sera ha dato un prezioso contributo su paradigmi, personaggi, contenuti del tempo visti da un allora giovanissimo cronista. Ha tratteggiato luci ed ombre della tipologia di giornalisti che ha fondato non solo il nuovo giornalismo della Sardegna ma che ha iniziato a porre le basi di un racconto affatto diverso. Quel giornalismo di inchieste e di interviste che aveva il suo riferimento nel Corriere di Giulia Maria Crespi. E’ quello che Giorgio Pisano ha cercato di praticare per tutta la vita e che richiedeva preparazione, approfondimento ed un alto tasso di cultura e di indipendenza. Così, disse quel 18 gennaio, dovrebbe essere il giornale ideale fatto da singoli che costituiscono un collettivo. Questa possibilità Giorgio ha perseguito con l’ottimismo della volontà e quel briciolo di sarcasmo e di disincanto che possedeva in grande quantità e che muoveva spesso al riso.
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