L’Università pubblica ha bisogno di fondi e non di attacchi strumentali [d Lorenzo Zamponi e Marta Fana]
Internazionale.it 22 Ottobre 2016. Periodicamente le pagine dei giornali sono riempite da notizie riguardanti l’ultimo o il penultimo episodio di deprecabile corruzione in qualche ateneo: favoritismi, nepotismi, sprechi, inefficienze. Di recente sono state addirittura le parlo del presidente dell’autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, a far riemergere la questione. Secondo Cantone, l’Anac è “subissata da segnalazioni dalle università. [Esiste un] nesso enorme [tra corruzione e] cervelli in fuga”. Affermazioni lapidarie, che sono l’ennesima puntata di una letteratura sul tema ormai sconfinata e sempre più strumentale alla delegittimazione del sistema dell’università pubblica. Che si tratti di notizie reali o di semplici illazioni, poco cambia. Il risultato è lo stesso: descrivere l’università pubblica come un luogo intrinsecamente corrotto. A volte, si tratta di notizie false o gonfiate, come nel celebre pamphlet L’università truccata, con cui Roberto Perotti nel 2008 si impegnò a dare sostegno e copertura ai tagli della ministra Gelmini, diffondendo distorsioni e inesattezze per rappresentare l’università come il regno degli sprechi e della corruzione. Altre volte, invece, le denunce hanno basi reali. È inutile negare che esistano problemi di cattiva gestione nell’università italiana (anche se sono molto meno diffusi di quanto si creda): chiunque l’abbia attraversata nella sua vita ha visto almeno un concorso sospetto, una procedura irregolare, uno scambio di favori. Una questione di potere. Ma è strumentale pensare che siano queste irregolarità a mettere in difficoltà chi vuole fare ricerca, ed è grottesco aspettarsi che “affamare la bestia”, continuando a togliere risorse al sistema universitario, possa migliorare la situazione. Anzi, più il sistema è chiuso e bloccato, più casi di questo tipo si ripeteranno. Più si insisterà con il blocco del turnover, mantenendo nel precariato una generazione di ricercatori, più il potere sarà concentrato nelle mani di pochi. Meno risorse saranno fornite agli atenei, più il loro utilizzo sarà sorvegliato, controllato e gestito da cordate baronali. In un’università che lavora bene, in un sistema in salute, sostenuto e finanziato in maniera sufficiente dallo stato, è molto più semplice far funzionare procedure e controlli, e c’è molto meno interesse, da parte di tutti, a cercare scorciatoie. Se la carriera di migliaia di ricercatori non dipendesse da una manciata di concorsi, se l’assenza di risorse non concentrasse centinaia di progetti a contendersi un solo finanziamento, sarebbe molto più facile – è ovvio – controllare la regolarità delle procedure e garantire la trasparenza delle assunzioni. Se a una generazione di ricercatori fosse data la possibilità di condurre le proprie ricerche in maniera autonoma e indipendente, senza dover passare la maggior parte del proprio tempo a cercare opportunità per il contratto successivo, si spezzerebbero i legami di dipendenza che sono alla base di ogni meccanismo clientelare. Il problema vero. Particolarmente bislacca è l’idea che sia la corruzione a provocare la “fuga dei cervelli”. Anche questo, ormai, è un topos letterario. Ma se il luogo comune del giovane ricercatore che scappa all’estero perché qualche raccomandato gli è passato davanti in un concorso può funzionare dal punto di vista narrativo, perché rientra in tutti gli stereotipi sul nostro paese e sul lavoro pubblico in generale, questa tesi regge poco al confronto con la dura realtà. Se guardiamo i numeri, infatti, la storia che emerge è ben diversa, e sembra molto più probabile che a far scappare migliaia di “cervelli” dall’Italia siano stati dieci anni di taglio sistematico del finanziamento agli atenei, di precarizzazione della ricerca, di smantellamento dell’università pubblica. Le statistiche, da questo punto di vista, sono univoche: secondo il rapporto Ocse Education at a glance 2016, l’Italia ha la percentuale più bassa di laureati tra la popolazione dell’intera Unione europea (18 per cento, la media Ocse è il 35 per cento), spende meno di tutti nell’università (0,8 per cento del pil) e investe per l’istruzione di ogni studente universitario 7.815 dollari all’anno (la media Ocse è di oltre dodicimila). Dal 2008 al periodo 2014-2015, “il corpo docente nelle università passa da 63mila a poco meno di 52mila, mentre il personale amministrativo passa da 72mila a 59 mila”, come riporta il professor Gianfranco Viesti nel libro Università in declino (Donzelli 2016). I precari coprono già metà della ricerca universitaria italiana, e questa fetta è destinata ad aumentare. Inoltre, nel 2014, scrive su eticaecomia Francesco Sinopoli, della Flc Cgil, “il corpo accademico era composto per il 48,3 per cento da docenti e ricercatori strutturati e per la restante parte da assegnisti di ricerca (17,4 per cento), dottorandi (28,1 per cento) e ricercatori a tempo determinato (6,2 per cento). Nel solo 2014 ci sono stati 2.324 pensionamenti mentre sono stati attivati solo 141 contratto a tempo determinato in tenure track”. I precari, insomma, coprono già metà della ricerca universitaria italiana, e questa fetta è destinata ad aumentare. Il fondo di finanziamento ordinario delle università è diminuito, negli stessi anni, di circa il 22 per cento: oltre un miliardo di euro in termini assoluti. Sempre più spesso i dipartimenti provano a far leva sui progetti privati o europei, i quali occupano – contrariamente a quanto dovrebbe avvenire – uno spazio non più residuale nel finanziamento della ricerca. Retorica ciclica. Tuttavia, come ha recentemente dichiarato la European university association (Eua) progetti come Horizon 2020 generano più costi che guadagni. Infatti, la dotazione del programma non è in grado di coprire le numerose domande di finanziamento presentate: per i primi cento bandi della Commissione europea sono state ricevute 31115 domande hanno ricevuto un finanziamento. L’elevato tasso di rifiuto non dipende – continua l’Eua – dalla scarsa qualità dei progetti, ma dai fondi a disposizione, a cui tuttavia ci si aggrappa dato il continuo disinvestimento nell’università di molti paesi europei. Nel frattempo però, ricercatori di ogni livello, professori e personale tecnico spendono tempo e risorse per non far morire la speranza di un finanziamento, sopportando costi non indifferenti. Secondo la Eua questi sono sintetizzabili in circa un miliardo e trecento milioni di euro. A ben vedere, dietro la retorica ciclica degli scandali sul nepotismo, c’è la realtà di un’università italiana in dismissione da ormai un decennio, in cui il numero di professori è in drastico calo, il reclutamento di nuovi ricercatori è bloccato e i giovani sono prigionieri di contratti annuali senza alcuna prospettiva reale. L’indagine Ricercarsi, condotta nel 2014, ha disegnato un quadro a tinte piuttosto fosche della situazione dei ricercatori precari: il 43 per cento degli intervistati non riesce a dare continuità al proprio lavoro di ricerca a causa delle interruzioni contrattuali, il 53 per cento non riesce a immaginare il proprio futuro professionale su un orizzonte di dieci anni, il 60 per cento dei dottorandi ritiene molto probabile andare via dall’Italia per costruirsi un futuro professionale in ambito accademico. Più che misure spot, serve un piano di reclutamento strutturale. Secondo il rapporto diffuso nello stesso anno dall’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), a risorse invariate, solo il 3,4 per cento di chi ha un assegno di ricerca avrebbe la possibilità di essere assunto nel giro di quattro anni, mentre il restante 96,6 per cento sarebbe espulso dal sistema. Non si tratta di un’emergenza sociale solo per i ricercatori che rischiano di perdere il lavoro, ma anche e soprattutto per la ricerca italiana: perdere ogni anno migliaia di ricercatori significa perdere ogni anno una quota importante di competenze, significa migliaia di progetti di ricerca abbandonati, significa dover ripartire da capo ogni volta, perché i ricercatori non sono numeri intercambiabili, ma specialisti formati nel proprio settore. In questo contesto, sostenere che a far scappare all’estero i giovani ricercatori siano i concorsi truccati, ci vuole una certa dose di fantasia. Andare in un’università straniera, oggi, per un giovane ricercatore italiano, è nella stragrande maggioranza dei casi l’unica alternativa, di fronte a un sistema universitario pubblico che è stato ridotto alla canna del gas. Per invertire la tendenza, e cominciare ad attrarre più “cervelli” di quelli che si fanno partire, servono interventi strutturali sul piano delle risorse e del reclutamento. Lanciare piani di reclutamento straordinario ad hoc di volta in volta (qualche centinaio di posti per il ritorno dall’estero, qualche centinaio di tenure track, ossia prolungamenti, eccetera) significa affidarsi a misure una tantum dai tempi lunghi e incerti, che rischiano di risultare incompatibili con la corretta programmazione del reclutamento da parte degli atenei. Più che misure spot, serve un piano di reclutamento strutturale, che metta risorse consistenti al servizio di una programmazione seria del normale ricambio generazionale. L’università italiana diventerebbe un’opportunità in grado di attrarre ricercatori sia dal nostro paese sia dall’estero, piuttosto che alimentarsi di sacche sempre più vaste di precariato. Lavoro non sempre riconosciuto. Il continuo disinvestimento nell’università pubblica e il blocco del turnover si accompagnano a un altro tema cruciale: il riconoscimento della ricerca come vero e proprio lavoro per i molti ricercatori non strutturati. Per far fronte ai tagli, le università e i centri di ricerca si trovano oggi affollate di ricercatori – coloro che fanno ricerca – con contratti di ogni sorta: assegni annuali, collaborazioni a progetto o continuative, cessioni di diritti d’autore, prestazioni occasionali che si rinnovano. Sebbene le retribuzioni tra le diverse tipologie contrattuali varino, esse sono caratterizzate da tratti comuni: l’instabilità lavorativa, lo scarso riconoscimento dei diritti assistenziali, come gli assegni di disoccupazione (fatto salvo per i collaboratori almeno per il 2016), e lo scarso regime contributivo. Sono 40mila i collaboratori in scadenza nella pubblica amministrazione tra il 2016 e il 2018, per lo più concentrati soprattutto nell’università e nella ricerca. L’incertezza lavorativa non solo dura nel tempo, ma rimane legata alla disponibilità di fondi estemporanei. Come tenne a sottolineare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, le figure dei dottorandi e degli assegnisti di ricerca non sono assimilabili a quelle di un collaboratore e vanno quindi escluse dall’assegno di disoccupazione previsto per i collaboratori (Dis-coll). Per giustificare tale esclusione, il ministro fece leva sul regime fiscale agevolato per le borse di studio e gli assegni, come a ribadire che due diritti in una volta rappresentano una vera e propria esagerazione! Il risultato è che i ricercatori sono nella maggior parte dei casi poco pagati oltre che precari. Il cortocircuito creato, tra blocco del turnover e sottofinanziamento, fa sì che l’incertezza lavorativa non solo duri nel tempo, ma rimanga legata alla disponibilità di fondi estemporanei di un dipartimento, di un singolo professore o di progetti e consulenze private. Ecco che il tema del diritto a un contratto (e a un degno compenso) si intreccia nuovamente con quello del potere: chi ha i fondi decide. Allo stesso tempo però, la necessità di reperire fondi al di fuori del finanziamento pubblico alla ricerca, crea un circolo vizioso ai danni degli atenei e dipartimenti con minori risorse. Ricorrere a finanziamenti privati relativi a progetti non strettamente legati con la ricerca accademica per poter retribuire e contrattualizzare i ricercatori rischia di danneggiare gli stessi precari. Svalutare la qualità della ricerca per ottenere qualche spicciolo comporta avere ancora meno possibilità di ottenere fondi. Inoltre: in un sistema in cui la valutazione è strettamente legata alle pubblicazioni di carattere accademico (con parametri discutibili), il tempo speso in attività che, seppure siano di ricerca, non soddisfano i parametri della valutazione, si ritorcerà contro questi lavoratori e i dipartimenti a cui sono affiliati. Un ragionamento simile vale per l’investimento nella didattica a cui non viene attribuito nessun valore in sede di valutazione. La retorica del merito. Finora la linea scelta dal governo Renzi desta non poche perplessità. Il presidente del consiglio ha espresso più volte l’idea di voler concentrare le risorse a disposizione (senza aumentarle) su pochi centri d’eccellenza, indicando in particolare come modello l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, al cui progetto Human Technopole dovrebbe essere assegnata l’area ex Expo a Milano. Le vicende dell’istituto sono controverse e spesso nebulose, ma il nodo è di prospettiva: ha veramente senso puntare sulla presunta “eccellenza” trascurando la ricerca di base? Nel frattempo, le indiscrezioni sulla prossima legge di stabilità parlano di risorse da destinare direttamente ai dipartimenti più meritevoli secondo i risultati conseguiti “nella pagelle di valutazione dell’Anvur” e un pacchetto per l’assunzione tramite chiamata diretta di 500 professori da scegliere tra i “migliori” ricercatori. Significa rimpiazzare a stento il 4 per cento dei docenti usciti dall’università nel giro di pochi anni. Ma le questioni più preoccupanti in questo caso risiedono nel meccanismo e nel metodo alla base di questa disposizione. Innanzitutto, a quanto si legge su Roars, le commissioni valutatrici sarebbero composte da presidenti scelti direttamente dalla presidenza del consiglio, in barba a ogni criterio di valutazione scientifica e indipendenza dalla politica. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere una volta per tutte che la retorica del merito è una delle tante vie con cui si smonta un sistema di università pubblico, solidale e democratico. Il più grande spreco collettivo che viviamo è il frutto di una deriva pluridecennale della politica economica. Da un lato, infatti, inseguendo esclusivamente merito ed eccellenza viene meno la funzione stessa dell’università pubblica quale volano per l’uguaglianza nelle opportunità di intere generazioni di studenti e ricercatori. Dall’altro lato, la definizione stessa di merito accademico risulta discutibile. In generale, la valutazione dell’Anvur si basa sul numero di pubblicazioni all’interno di una classifica di riviste accademiche. Qui nasce una delle questioni più rilevanti: chi stabilisce la classifica, al livello nazionale e internazionale? Mettiamo il caso del settore delle scienze sociali, in cui gli spazi per il pluralismo sono sempre più ridotti: classifiche del genere rischiano solamente di affossare tutto ciò che non rientra nel pensiero unico, nel mainstream. Un obiettivo neppure troppo taciuto, almeno all’estero, dove il dibattito sul pluralismo e la sua negazione è oggi più che mai acceso. Ci riferiamo allo stesso mainstream, soprattutto in economia, che prima, durante e “dopo” la crisi ha continuato a sostenere la necessità di una cura austera, dei tagli alla spesa pubblica e delle riforme strutturali che hanno depresso, fatti alla mano, le economie del sud Europa. Quelle stesse cure che hanno prodotto in questi anni una “fuga di cervelli” ben più consistente di quella di cui lamenta Cantone e che ha a che fare con le decine di migliaia di laureati italiani che emigrano nella speranza di trovare un’occupazione retribuita indipendentemente dalle proprie conoscenze, o ambizioni. Il più grande spreco collettivo, che viviamo e di cui subiremo ancora a lungo gli effetti, è il frutto di una deriva pluridecennale della politica economica italiana tesa a comprimere diritti e spazi di democrazia in ogni settore e il cui risultato più evidente è l’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali. *Ricercatori |