Fu catastrofe antropologica? [di Nicolò Migheli]

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L’articolo di Umberto Cocco e l’intervento di Vito Biolchini aprono l’ennesimo dibattito su cosa è stata la Rinascita, se fu sì o no un fallimento. Non ho visto il documentario “Senza passare dal VIA”, di Antonio Sanna e Umberto Siotto, che a giudicare dalle cose scritte da Umberto, sarà utile per leggere un’epoca fondante della Sardegna odierna.

Esistono due narrazioni, la prima che considera il Piano di Rinascita per come è stato realizzato, una via ineludibile per lo sviluppo; altri che sostengono l’esatto contrario: un’epoca che ha segnato in negativo il futuro dei sardi. Un discorso lo si può fare anche perché Umberto ed io, Vito è più giovane, abbiamo anche ricordi personali di quel periodo. Nessuno nega lo stato della Sardegna di quegli anni, nessuno cancella l’epoca terribile dei sequestri e della insicurezza nelle campagne, le faide nei paesi, gli attentati ai pubblici amministratori.

La prima domanda però dovrebbe essere, l’industrializzazione di Ottana ha cancellato quei  fenomeni? No di certo, visto che i sequestri sono durati fino alla fine degli anni ’90 e sono finiti per il blocco dei beni da parte della magistratura, mentre abigeato e attentati, in misura minore, continuano. Eppure la commissione Medici individuava nell’industrializzazione l’unica modalità per porre fine a quegli atti criminosi, legandoli alla povertà. Posizione smentita dagli atti giudiziari che rivelarono che spesso gli autori di quei crimini poveri non erano, o almeno in uno stato di bisogno tale da delinquere. In realtà erano solo forme di accumulazione illecita di capitale.

Gavino Musio, docente di antropologia a Firenze e consulente della Commissione Medici, era profondamente convinto e lo scriveva, anche se non in termini così chiari, che bisognasse procurare la catastrofe antropologica, che la pastoralità fosse essa stessa una modalità economica che portava con sé la devianza. L’unica possibilità di superamento l’industria, la grande industria. Introdurre una cultura nuova, diceva l’antropologo sassarese. Nessuno nega che l’industrializzazione non abbia avuto impatti positivi, ha creato tecnici, gli operai di Ottana sono stati anche classe dirigente dei loro paesi diventando amministratori.

La domanda che però viene taciuta è se i poli industriali fossero l’unica modalità possibile, l’altra: se doveva essere comunque industria chimica. Umberto ricorda che molti meridionalisti, compresi in nostri politici democristiani, ma aggiungerei anche dei partiti di sinistra e i sindacati, ritenevano per motivi diversi i poli gli unici portatori di sviluppo. Il mito della classe operaia fece il resto. Bisognerebbe anche ricordare le modalità di assunzione nelle fabbriche, il clientelismo che si manifestò in maniera pesante. Tutti abbiamo avuto l’amico che ricevette la letterina dove si annunciava il posto di lavoro. Il palesarsi di un neofeudalesimo che impatto ha avuto nella vita democratica delle nostre comunità? Nell’idea di pari opportunità?

Il compianto Marcello Lelli scriveva che molti degli attentati ai pubblici amministratori del tempo trovassero ragione in quei favoritismi. Dentro o fuori secondo l’adagio  chie tenet amigos in contza contzat bene. Eppure un’altra modalità esisteva: era quella dei progetto Oece, della terza via praticata nelle Marche; ma questo modello non venne accettato perché endogeno e la politica di quei decisori sardi era intrisa dell’ideologia che lo sviluppo potesse essere solo esogeno.

Un pensiero che si nutriva, ahinoi anche oggi, di una profonda sfiducia sulle nostre capacità, si sosteneva l’esistenza limiti culturali oggettivi. Non solo la Sardegna, ma tutto il Sud visse dentro quei pregiudizi. La modernizzazione come rottura e non come naturale evoluzione delle possibilità di un popolo.

Lo spiega molto bene Alessandro Mongili nel suo Topologie post-coloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Noi a differenza del centro e nord Europa abbiamo vissuto la modernizzazione come cesura mentre per loro è la naturale evoluzione di quel che si era. Certo, oggi abbiamo più strumenti rispetto ad allora, per poter sottoporre quelle scelte ad un giudizio critico. Ma il dramma nostro di oggi, ha radici in quel tempo, in una industrializzazione avvenuta quando altrove cominciava la post modernità. Nel 1980, la crisi era già evidente, non si aspettò neanche i vent’anni che qualche analista aveva già intuito nel momento della fondazione.

Ottana, ma anche gli altri poli, ebbero l’industria chimica, non altra, perché venne imposta da Roma, secondo quanto mi confidò un politico dell’epoca che ne fu protagonista, e i documenti lo confermano. La catastrofe ci fu, si distrusse un potenziale imprenditoriale creando  un ceto, prima dipendente e poi assistito, che attende che siano gli altri a risolvere i suoi problemi. Si è creata una cultura dipendente, ottima per i bacini elettorali. Si distrusse l’ambiente, si avvelenarono le popolazioni. Queste conseguenze hanno si o no un peso?

Come sostiene Vito Biolchini abbiamo bisogno di leggere quel periodo con gli arnesi freddi della ricerca. In Regione, nei sindacati, negli archivi dei partiti – sempre che esistano ancora questi ultimi- giacciono migliaia di documenti che attendono di essere analizzati.  Mongili ha già cominciato, altri dovrebbero seguire. Ne abbiamo un bisogno estremo, perché ci servono studi che aiutino a capire la catastrofe odierna.

One Comment

  1. Giovanni Pisu

    “Noi a differenza del centro e nord Europa abbiamo vissuto la modernizzazione come cesura mentre per loro è la naturale evoluzione di quel che si era.”
    Ecco, questo è ciò che io mi chiedo: perchè, io e tanti altri che conosco, abbiamo scelto di non far crescere ciò che avevamo? Perchè in tanti altre regioni gli artigiani sono cresciuti e sono diventati piccoli o grandi industriali?

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