“Con Berlinguer a cercare casa e comprare il latte” [di Fabrizio d’Esposito]

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Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2016. Alberto Menichelli, che farà 88 anni a dicembre, s’interrompe e si rivolge alla figlia Laura: “La fiaschetta l’ho conservata da qualche parte”. Non aspetta la risposta. Si alza, si dirige verso un mobile del soggiorno e lo apre. “Eccola qua”.

Una fiaschetta per liquori, rivestita di un colore argento e dal collo nero, consumato. “Pensa un po’, è ancora piena”. Whisky. Una fiaschetta che è una reliquia. Ci beveva Enrico Berlinguer. Un sorso prima di ogni comizio. “Quando vedeva quelle folle sterminate, Berlinguer aveva una stretta allo stomaco. Fu il suo medico, Ciccio Ingrao, a consigliargli questo rimedio. Io la riempivo, ma allungavo il whisky con l’acqua. Pensa un po’, è ancora piena. Senti che odore”.

La nostalgia per Enrico Berlinguer è come l’odore che proviene da questa antica fiaschetta dal collo morsicato. È un profumo forte, che si sente ancora. Menichelli ha vissuto tre lustri con Berlinguer. Molto più di un autista. Fu il suo angelo custode dal 1969 al 1984, l’anno della morte del compagno segretario del grande Partito comunista italiano. Menichelli faceva parte della Vigilanza del Partito, tutto con la maiuscola e fu assegnato a Berlinguer quando questi era stato da poco scelto come vicesegretario e successore di Luigi Longo, al posto del favorito Giorgio Napolitano.

Era il 1969. Romano di borgata, Menichelli era arrivato alla Direzione, nel mitico Bottegone, nel 1964. La sua sezione Pci, quella di Villaggio Breda, fece una lettera di presentazione. In una riunione del comitato direttivo era stata esaminata “la biografia del compagno Menichelli Alberto” e l’esito fu positivo: “Il comitato direttivo dà parere favorevole, considerandolo un compagno serio, onesto (identico giudizio si dà sulla famiglia)”. Più di mezzo secolo dopo, Menichelli presiede l’associazione culturale intitolata a Berlinguer nel suo quartiere romano, a Cinecittà.

Quanti iscritti avete?
Trecento. L’altro giorno abbiamo chiuso la mostra.

Ovviamente dedicata a Berlinguer.
È un’iniziativa partita nel 1990 a Pescara, adesso va a Latina. Tantissimi sono venuti a vederla in sezione.

Sezione?
Circolo, mi scusi, sono abituato a chiamarla sezione. Sono anche presidente del comitato del No e leggo il Fatto perché siete rimasti voi a difendere la sinistra e i lavoratori.

La passione per Berlinguer è senza partito, ormai.
Alla mostra, mi ha colpito la presenza di molti giovani. È un dato incredibile se pensa che Berlinguer è morto 34 anni fa, quando loro non erano ancora nati.

Il suo impatto con lui come fu?
Ero teso, Berlinguer non voleva l’autista, fu costretto dal Partito, nel ’69 c’era stata la strage di piazza Fontana, cominciava un periodo di grandi paure. A lui piaceva guidare. Aveva una Fiat 1100. Era pignolo, quando arrivava a Botteghe Oscure parcheggiava da solo e saliva su.

Allora lei gli portò via un piacere quotidiano.
La prima settimana fu di silenzio totale. Solo “buongiorno” e “buonasera”. Ero timido, lui riservato.

La giornata tipo?
Al mattino ritiravo la mazzetta dei giornali e alle 7 e 30 ero da lui. Lo trovavo in pigiama, preparava la colazione per la famiglia. All’epoca abitavano ancora in viale Tiziano.

Una volta, Forattini fece una perfida vignetta con Berlinguer in pigiama.
Sì, la ricordo. Con questa storia del pigiama c’era un fotografo che mi perseguitava.

Immagino.
Voleva rifilarmi una macchinetta speciale per fotografare Berlinguer in pigiama. Diceva: “Famo un sacco di soldi”.

Prima dei soldi, c’era la lealtà verso il Partito.
Quello che diceva il Partito non si discuteva. Per me era un onore accompagnare Berlinguer, era l’uomo che rappresentava noi comunisti italiani.

Il rito dei quotidiani come si svolgeva?
A questo punto, Menichelli declama l’ordine di lettura dei quotidiani come se fosse una formazione di calcio). Leggeva Unità e Paese Sera. Poi Messaggero, Popolo e Tempo; Avanti!, Avvenire e Secolo d’Italia; Corriere della Sera, Stampa, Giorno e Umanità. Aveva anche due giornali francesi: Le Monde e L’Humanité. Nel frattempo accompagnavo Marco e Maria a scuola (due dei quattro figli di Letizia ed Enrico Berlinguer, ndr) e quando tornavo alle nove lo accompagnavo alla Direzione.

I vostri discorsi in auto fecero progressi?
Dopo due mesi avevamo preso confidenza. Berlinguer era una persona schiva ma non triste come è stato detto. Era essenziale e di un’onestà esemplare. Una mattina cominciammo a cercare i cartelli con su scritto “Affittasi”. Doveva lasciare la casa di viale Tiziano e cercava un nuovo appartamento.

Berlinguer cerca casa.
Andai da Cossutta, che all’epoca guidava l’Organizzazione. Era il 1974. Gli posi il problema così: “Vi sembra normale che il segretario del Partito (Berlinguer divenne segretario nel 1972, ndr) debba cercare casa da solo?

E Cossutta?
Mi rispose: “Mica lo sapevo”. “Ecco adesso lo sai”, gli ribattei. Attivò il compagno dell’Economato. Prima gli proposero una villetta alla Camilluccia, ma lui rifiutò: voleva un appartamento più modesto. E così venne fuori la casa di via Ronciglione 12. A una condizione però.

Quale?

Doveva pagare lui l’affitto, non il Partito, altrimenti avremmo continuato a cercare noi i cartelli “Affittasi”. Così ogni mese io portavo una busta coi soldi a Botteghe Oscure.

In tempi di Casta, lei ha descritto una scena lunare.
Berlinguer era questo. Se non eravamo fuori Roma, cenava sempre a casa. Ogni sera, prima di ritirarci, comprava un litro di latte. Un giorno glielo chiesi: “Perché prendi il latte?”.

Cosa rispose?
Mi disse: “Mi premunisco, a quest’ora il frigo è quasi sempre vuoto”.

Il frigo vuoto!
Pagava il latte coi soldi sempre ciancicati, perciò gli regalai un portamonete. Una volta lo trovai seduto per terra nel salone. Attorno a lui tanti libri. Gli dissi: “Ma che stai combinando?”. Lui brusco: “Stai zitto che non mi ricordo più in quale libro ho nascosto 50 mila lire”.

Un materialista poco attento alle cose materiali.
Completamente disinteressato. Un giorno dovevamo andare a Torino. C’era uno sciopero aereo e fummo costretti a prendere il treno. Peraltro io avevo paura di volare. Berlinguer mi prendeva in giro: “Hai messo il paracadute?”. Quel giorno avevamo preso uno scompartimento, eravamo alla stazione Termini di Roma e io aspettavo sul binario il resto della scorta. All’improvviso vedo un poliziotto venire verso di me. “Che c’è?”, gli faccio. Lui mi risponde: “Il segretario ha due scarpe diverse”. Così salgo sul treno e vado da lui. Mi guarda e io: “Le scarpe sono spaiate”. Lui portava sempre i mocassini.

Partiste?
Certo. Chiuse la questione a modo suo: “Non sono tanto diverse, nessuno se ne accorgerà”. Un’altra volta perse il cappotto. Era un paltò verde talmente consumato che le asole erano diventate buchi. Lo dimenticò alla Camera per la fretta di tornare a Botteghe Oscure. Pensai: “Meno male, così ne prende uno nuovo”.

Invece lo ritrovò.
Esatto. Per dirle che persona era. Non gliene importava nulla. Anna (Azzolini, la storica segretaria di Berlinguer, ndr) mi raccontò che un famoso stilista dell’epoca, Litrico, aveva mandato una lettera. Voleva vestire gratis il segretario. Berlinguer rifiutò senza pensarci.

Nonostante tutto, piaceva molto. Anche alle donne.
Reichlin lo invidiava: “Le donne vengono sempre da te”. Ma lui era timidissimo. Ricordo che ad Avezzano fece una conferenza stampa in piazza. In prima fila c’era una signora matura, molto piacente. La rividi a Roma, a un comizio. Lo dissi a Tatò: “Quella signora era anche ad Avezzano”. Decisi di avvicinarla. Era un’americana, affascinata dal personaggio di Berlinguer.

Riferì al segretario?
Sì e gli dissi: “La prossima volta te la presento”.

Accettò?
Per niente. Mi fulminò: “Aho che porti!?!”.

Un monaco.
Per nulla triste, ripeto. Scherzava spesso e si preoccupava sempre per noi della Vigilanza. Abbiamo festeggiato tante volte Natale e Capodanno insieme, con le nostre famiglie, alle Frattocchie (la zona dei Castelli Romani dove il Pci aveva la sua “scuola”, ndr). Poi c’è l’episodio di Parigi.

Racconti.
Eravamo all’aeroporto De Gaulle, per tornare in Italia, e mi fa: “Vogliamo portare un regalino alle nostre mogli?”. Così entriamo in un negozio di profumi. La commessa ci indica una boccetta e ci spiega che è molto richiesta dalle signore italiane. Diciamo che va bene e andiamo alla cassa. Ci prese un colpo: costava 18 mila lire, un quarto del mio stipendio di allora, ma nessuno dei due disse nulla, per il timore di apparire provinciali. Pagammo e zitti.

I viaggi lunghi in auto come si svolgevano?
Lui si sedeva avanti. Gli avevo predisposto un tavolinetto per lavorare. Non staccava mai, si preparava tutto e scriveva a mano. Non parlava a braccio, non improvvisava come oggi Renzi. Quando poi doveva fare relazioni o discorsi di una certa importanza si rifugiava dalla zia Ines a Grottaferrata. Gli articoli per Rinascita sul compromesso storico li scrisse lì, dalla zia Ines, che per lui era come una mamma.

Il 1976 è l’anno decisivo.
Fu l’anno in cui aumentò la scorta a Berlinguer. Per le Br era un obiettivo e cominciammo a girare con due auto qui a Roma. Io ero sempre con lui, insieme con Lauro Righi. Davanti, nell’altra auto, c’erano Dante Franceschini e Pietro Alessandrelli. Ogni volta un percorso diverso. A causa dei terroristi cambiammo anche il lattaio. I terroristi avevano studiato la zona vicino a casa sua e così iniziò a prendere il latte da Vezio (leggendario bar comunista, a Botteghe Oscure, ndr).

Che auto era?
Un’Alfa 2000 blindatissima. La scorta di Moro ce la invidiava.

Già.
Berlinguer e Moro fecero due incontri segreti, sempre a casa del segretario del leader democristiano. Il secondo finì alle quattro di mattina. Vedemmo la lucina accendersi sopra il portone e ci preparammo. Era Moro che scendeva. Uscì e s’infilò per sbaglio nella nostra auto.

Un tragico lapsus preveggente.
Nelle lunghe ore di attesa, conobbi il maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Volle vedere le nostre auto dall’interno e mi confidò che gli rinviavano sempre la richiesta di un’auto blindata. Io e i miei colleghi maturammo una convinzione.

Quale?
Se lo portavamo noi, Moro, non succedeva nulla. Con le nostre due auto, le Br non avrebbero mai potuto fare l’azione di via Fani.

Invece finì con la Renault rossa in via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sede della Dc.
Il giorno del ritrovamento, Berlinguer mi chiama e mi dice: “Dall’Unità dicono che bisogna cercare un’auto rossa qui vicino”. Io vado da Vezio al bar e lui mi manda da un suo amico al primo piano. Saliamo e mi affaccio. Ero al telefono con Berlinguer per descrivergli tutto. E quando vedo la polizia aprire lo sportellone della Renault, lui attacca senza dire più nulla. Aveva già capito. Da quel momento cambiò per sempre. Nemmeno nel 1970, quando dormivo spesso a casa sua per la paura di un colpo di Stato, l’avevo visto così.

Inizia il cosiddetto “ultimo Berlinguer”.
Gli sentii pure dire che era assurdo che il segretario del Pci fosse a vita, che bisognasse aspettare la sua morte.

Una profezia su se stesso.
Quel giorno a Padova mi fece anche uno scherzo.

Stava bene.
Benissimo. Eravamo pronti per andare al comizio ma lui non scendeva dalla camera d’albergo. Vado su e non lo trovo. Ritorno giù, trafelato, e lo vedo spuntare nella hall, che rientra da una passeggiata. Mi dice: “Stavolta t’ho buggerato”.

Dopo l’interruzione del comizio, rientraste persino in albergo.
Sul palco, gli misi l’impermeabile sulle spalle e lui mi sussurrò di prendere i suoi appunti. In albergo era già in coma.

Trentaquattro anni fa.

Il mio Partito morì allora.

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