La politica del tram [di Paolo Rumiz]
La Repubblica, 10 novembre 2016. Dopo aver dedicato una vita all’ascolto delle periferie, sono un po’ stufo dello sconcerto dei bempensanti per le bastonate elettorali inflitte dalle Destre al pensiero “no border”. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso brusco risveglio davanti al caffellatte del mattino o al ritorno in ufficio. “Incredibile”, “Non me l’aspettavo”, “Voto shock”, “I sondaggisti hanno sbagliato”, eccetera. È successo in Gran Bretagna col no a Bruxelles, in Francia con la minaccia lepenista, in Est Europa col ritorno dei populismi, persino in Italia col voto alla Lega Nord e poi ai Cinquestelle. Ora torna ad accadere col voto americano. Eppure è sempre lo stesso film. In Europa come in America vincono le periferie frustrate e senza voce, quelle banlieue spaventate dalla globalizzazione che nessuno ascolta e che riescono a esprimersi solo al momento del voto. Lo schema si ripete da troppo tempo perché io non cominci a sospettare che qui realmente ci sia una coazione all’errore. Che non si voglia capire, e che sia in atto nel pensiero democratico una clamorosa fuga dalla realtà. Mi chiedo: quanto i democratici frequentano realmente questi luoghi, ne ascoltano il malessere e parlano con la gente comune? Come impostano le loro campagne elettorali? Nei club esclusivi o fra la gente? Se c’è una cosa che ho capito nella mia vita raminga, è che si impara più in tram che dalle analisi di un luminare, più dal bar d’angolo che da un costoso sondaggio. I treni russi mi hanno avvertito con largo anticipo di quello che stava per succedere in Ucraina e le volontà imperiali della Russia di Putin. Il mitico bus “Greyhound” americano mi allertò, a suo tempo, della popolarità di un Reagan cui nessun ufficio studi dava ancora un briciolo di credito. Facendo l’Appia a piedi ho sentito distintamente il crescente influsso della camorra su Roma. Ora io non pretendo che i politici si carichino uno zaino sulle spalle per battere a piedi i loro collegi. Mi basterebbe che salissero su un mezzo di trasporto pubblico per sentire la pancia del Paese. Tornando all’America – ma in realtà la questione è planetaria – la domanda è: Hillary è mai andata in tram? Temo di no. Non che il miliardario Trump ci sia mai salito se non per farsi filmare dalle tv. Ma Trump parla il linguaggio della gente. Si rivolge alla pancia. Hillary parla alla testa del Paese, con algidi teoremi, competenza, alleanze altolocate e statistiche. Non basta. Il pensiero democratico deve urgentemente dotarsi di un linguaggio diverso per non condannarsi a perdere per altri trent’anni. Per un motivo elementare: tra le ragioni della pancia e quelle della testa, vincono sempre le prime. E allora, come uscirne? Certo, la Destra populista non ha mai offerto soluzioni ai problemi di queste periferie decisive per le sorti del mondo democratico. Ha venduto quasi sempre illusioni. Ha fornito semplicemente megafoni e amplificatori al malessere. Ha indicato un nemico, anche per evitare che qualcuno mangi la foglia e capisca la sua corresponsabilità nei confronti di quel malessere. Di più: essa trae voti dall’emarginazione che essa stessa crea con la sua ideologia “darwinista”, basata sulla legge del più forte, del pistolero cow-boy. Ma un megafono è meglio di niente. È sempre meglio di un vuoto ripetitore del silenzio e delle quotazioni Nasdaq di Wall Street. E allora come smascherare questo gioco, come smarcarsi rispetto alle ragioni dello stomaco e alle false promesse degli arruffapopoli? La soluzione sta sempre lì, in quella grande metafora della vita quotidiana che è il trasporto pubblico. Treni di seconda classe, stazioni, fermate d’autobus, sale d’aspetto. Cesare Zavattini disse: il cinema italiano è finito nel momento in cui i registi hanno smesso di andare in tram. Per ragioni analoghe, Berlinguer chiese a Bettino Craxi se era mai andato in tram, e lui rispose altezzoso che no, perché aveva l’autista. Peccato rispose Enrico, impareresti molto. Craxi non volle imparare. È viaggiando con la gente che impari ad ascoltare, a porti nel modo giusto di fronte ai piccoli drammi del quotidiano che affliggono la maggioranza. Impari a condividere. Familiarizzi con l’abc dell’empatia, che nessun talk show ti darà mai. Soprattutto impari a non tacere di fronte alle bestialità, a replicare con fiammate di passione alle ragioni dell’odio. Impari a rispondere picche alle urla dei beceri, e a farlo in modo nuovo, offrendo a tanta buona gente un esempio cui fare riferimento. Apprendi come usare quella cosa che sta esattamente a metà fra le ragioni della pancia e quelle della testa. Il cuore. La pompa delle nostre passioni, che i democratici sembrano aver perduto. Papa Francesco, prima di sbarcare in Vaticano, prendeva il tram per spostarsi spesso senza scorta nelle immense periferie di Buenos Aires. È lì che ha imparato prima ad ascoltare e poi a parlare con il cuore. È per questo che oggi egli è più popolare di qualsiasi politico nel mondo dei democratici senza più casa. Quando mi spendo nelle scuole e parlo a aule piene di adolescenti spaesati, spesso saturi di web e senza più maestri nemmeno in famiglia, vedo che essi apprezzano due sole cose in chi li incontra. Non la competenza professorale, ma le scarpe impolverate e la passione ardente del cuore. È grazie a queste sole armi che vedo accendersi i loro occhi. È quello il passepartout. Quello l’argine fondamentale all’imbarbarimento del linguaggio, alimentato dai “social” e dalla Tv spazzatura, che potrebbe portare molto male all’Europa e al mondo. Andate in tram, cari politici. O vi ci dovrete attaccare.
|
Pingback: La politica del tram - ipersensibol