Benvenuti nell’era di Donald Trump [di Jonathan Freedland, The Guardian, Regno Unito]
Questo è l’articolo di copertina di Internazionale numero 1156. È stato pubblicato il 2 giugno 2016 a pagina 40 con il titolo “Nell’era di Trump” e ripubblicato sempre su Internazionale 9 novembre 2016. Il successo di Donald Trump conferma la forza dei populisti in tutto il mondo. Ed è un segnale della crisi del modello democratico. Com’è questo nuovo mondo? Quel giorno i mezzi d’informazione statunitensi si sono trattenuti, altrimenti l’avrebbero ribattezzato pussygate. Donald Trump non aveva ancora vinto nulla. Mancavano ventiquattr’ore alla sua prima vittoria alle primarie repubblicane, tappa iniziale del viaggio che a novembre lo porterà a sfidare la candidata democratica Hillary Clinton. In quella gelida sera di febbraio, mentre fuori infuriava la tormenta, Trump era davanti a una platea gremita nella Verizon wireless arena di Manchester, in New Hampshire, e si preparava a parlare. Dopo una tirata sulla sua carriera in tv e su quanto sarebbe stato perfetto il mondo dopo il suo arrivo alla Casa Bianca, Trump ha affrontato un altro dei suoi temi preferiti: i difetti degli avversari. Stava rinfacciando a Ted Cruz, senatore del Texas, lo scarso entusiasmo per l’uso del waterboarding come tecnica di tortura quando, dalla platea di fronte al palco, una specie di fossa dei leoni di tifosi di Trump, una donna ha gridato: “He’s a pussy!”, è una fighetta. Trump si è finto scandalizzato, scostandosi dal leggio in segno di disgusto, poi ha ripetuto l’insulto per le telecamere: “Ha detto ‘è una fighetta’. Che brutta cosa! Signora, la richiamo all’ordine”, ha detto alla donna con il tono di un maestro permissivo costretto suo malgrado a imporre la disciplina. Tanto è bastato perché Trump riuscisse di nuovo a monopolizzare l’attenzione dei mezzi d’informazione: tutti i talk show e gli altri candidati repubblicani hanno parlato di lui e della sua volgarità. Come sempre da quando ha cominciato la campagna elettorale, nel luglio del 2015, anche questa volta era lui la star. Allo stesso tempo, Trump è riuscito a mandare un segnale forte, lo stesso che manda ogni volta che denuncia il “politicamente corretto” o ne infrange una delle presunte regole; per esempio quando prende in giro le persone con disabilità, giudica le donne in base all’aspetto, si vanta della sua ricchezza o dichiara che quando sarà presidente i commessi dei negozi torneranno a dire “buon Natale” invece di “buone feste”. Ogni volta il messaggio è lo stesso: sono il candidato che non fa parte del sistema. Non ubbidisco alle sue regole. Sono diverso. Perché funziona così bene? Perché le uscite di Trump, che all’inizio erano considerate un potenziale punto debole della sua candidatura, gli hanno permesso di ottenere l’attenzione costante dei mezzi d’informazione e soprattutto milioni di voti? In parte è semplicemente una questione di show business. Trump sa che gli scandali vendono, lo sa da quando, negli anni ottanta, si è conquistato uno spazio quotidiano sui giornali scandalistici newyorchesi. Molto prima che il consulente politico australiano Lynton Crosby suggerisse ai suoi clienti la strategia del “gatto morto” – fare qualcosa di sgradevole per cambiare argomento quando si trovano in difficoltà – Trump aveva capito che le persone non distolgono mai lo sguardo quando vedono qualcuno che rompe un tabù. Una parte sottovalutata di questa formula è l’umorismo. Trump fa ridere. Il suo modo di parlare è divertente, l’uso che fa dell’avverbio so, per enfatizzare quello che dice, è divertente: “It’s gonna be so great”, sarà così fantastico. La sua vanità sfacciata è divertente. Il modo in cui prende in giro gli avversari è divertente. Ma ancora più potente è l’emozione che Trump suscita nelle persone che assistono ai suoi eventi, e in quelle che lo guardano in tv, quando osa mettere in discussione le regole del gioco. Per quegli elettori convinti che la partita sia truccata – e che loro sono destinati a perdere sempre – vedere qualcuno che sfida apertamente le convenzioni è entusiasmante. È il segno che un outsider, un ribelle non legato al vecchio ordine è arrivato ed è pronto a distruggere tutto per costruire qualcosa di completamente nuovo. Per i sostenitori di Trump questa determinazione a calpestare le regole del dibattito civile è un segno della sua buona fede, quasi una dichiarazione d’intenti. Se ha il coraggio di attaccare la candidata repubblicana Carly Fiorina per via del suo aspetto, allora avrà anche il coraggio di usare le maniere forti con l’azienda che vuole spostare le sue fabbriche dagli Stati Uniti al Messico. Se non altro, ha dimostrato che non si lascia condizionare dai vincoli che ostacolano tutti gli altri politici. Secondo questa logica, Trump è uno che non ha paura di dire la verità. È un fatto piuttosto curioso se si pensa che è stato più volte smascherato come un bugiardo cronico ed è forse il candidato più disonesto che abbia mai partecipato alle primarie di un grande partito statunitense. Ma non bisogna dimenticare che per i sostenitori irriducibili di Trump i veri bugiardi sono quelli che fanno parte dell’establishment, cioè le élite che controllano i mezzi d’informazione e la politica, e che mentono al popolo da almeno vent’anni. Così, quando quelle stesse élite accusano Trump di essere un bugiardo, i suoi sostenitori non ci credono o semplicemente non la considerano una cosa importante. Nei prossimi cinque mesi Trump affronterà Hillary Clinton – la perfetta incarnazione dell’élite politica statunitense – in quella che si preannuncia come la più brutta campagna elettorale della storia. Anche se dovesse perdere, Trump ha dimostrato comunque di avere una grande presa su una parte dell’elettorato statunitense, che ormai lo vede come il suo paladino. La rabbia di questi elettori, che Trump cavalca abilmente, va al di là dei singoli partiti o dell’attuale situazione economica. Trump è la valvola di sfogo di un’indignazione che investe l’intero sistema politico americano. Questa rabbia non è presente solo negli Stati Uniti. Ribolle in molti paesi del mondo, accomunati dall’insoddisfazione per lo status quo. In quasi tutti questi paesi, chi si fa portavoce della rabbia dice di parlare a nome del popolo e della vera democrazia. Ma nelle sue forme più estreme, questa rabbia sembra nascondere qualcosa di più oscuro: una rivolta contro le norme, contro quei confini accettati da tutti che rendono possibile la democrazia. Sconfitti dalla globalizzazione Il giorno dopo l’episodio della “fighetta”, Trump ha ottenuto una vittoria schiacciante in New Hampshire, superando di 20 punti il candidato arrivato secondo. Eppure, molti continuavano a sottovalutarlo. I commentatori erano sicuri che Trump sarebbe imploso, che prima o poi l’elettorato repubblicano si sarebbe spostato su uno degli altri candidati, che Trump non poteva fare sul serio. In fondo, nonostante il malcontento crescente in tutte le democrazie occidentali, i candidati che vincono le elezioni nei paesi più ricchi del mondo sono Barack Obama, Angela Merkel e David Cameron, non i populisti. Gli osservatori, però, non avevano fatto i conti con una tendenza in atto in tutti i sistemi democratici. Ogni caso fa storia a sé, ma è innegabile che populisti e demagoghi siano in grande crescita. Gli esempi sono quasi troppi per elencarli tutti. L’India, la democrazia più grande del mondo, è guidata da un nazionalista indù che fa paura a molti per le sue inclinazioni autoritarie. In Turchia il presidente Recep Tayyip Erdoğan, che nelle elezioni del 2002 ha spazzato via i partiti tradizionali, somiglia sempre di più a un dittatore. In Francia, Marine Le Pen e il Front national accusano il sistema politico di aver tradito il popolo francese (bianco e non musulmano). Il primo ministro ungherese Viktor Orbán dice più o meno le stesse cose. Quest’anno, alle elezioni regionali in Germania, si è affermato il partito di estrema destra Alternative für Deutschland. Poi ci sono il Partito del popolo danese, i Democratici svedesi, che hanno radici neonaziste, il Partito dei finlandesi e l’Unione democratica di centro svizzera. Nei Paesi Bassi il leader antimusulmano Geert Wilders è ancora una figura rilevante. Nel Regno Unito queste posizioni politiche sono rappresentate da Nigel Farage, leader dell’Ukip, il partito per l’indipendenza del Regno Unito, che alle elezioni del 2015 ha preso milioni di voti. In un sistema parlamentare pensato per scongiurare successi politici di questo tipo, Farage ha dimostrato che neanche il Regno Unito è immune al fascino del populismo. Le singole personalità e i contesti variano, ma questo gruppo eterogeneo di partiti e candidati si nutre dello stesso malcontento. Di solito gli elettori che si rivolgono ai populisti sono quelli che si sentono delusi dalla politica convenzionale e pensano di essere stati dimenticati, sul piano economico o culturale. Sono quelli che hanno visto diminuire i loro redditi o hanno perso il posto di lavoro perché la loro azienda ha spostato le attività all’estero, o che semplicemente hanno visto i loro quartieri cambiare per effetto dell’immigrazione. Vent’anni di globalizzazione hanno prodotto vincitori e sconfitti e ora, brutalmente, sono gli sconfitti a sventolare la bandiera del populismo, anche se questa bandiera ha strisce e colori diversi a seconda dei paesi. A volte, per esempio, è rossa. Molti elettori delusi stanno rispondendo agli appelli di leader di sinistra, come Bernie Sanders nelle primarie democratiche negli Stati Uniti, Pablo Iglesias in Spagna, Jeremy Corbyn nel Regno Unito e Alexis Tsipras in Grecia. I cavalli di battaglia di questi politici sono tipici del populismo – la maggioranza oppressa contro l’élite politica corrotta – a cui si aggiunge la rabbia verso l’odiato sistema economico. Ciò che accomuna molti di questi politici è il rifiuto del sistema politico nella sua forma attuale. I nuovi populisti non dicono semplicemente che il partito al governo ha fallito e che è arrivato il momento dell’opposizione. Dicono che l’intero sistema è compromesso. È per questo che Trump inveisce contro i repubblicani con la stessa foga che usa contro i democratici. Ed è questo, vale la pena di sottolinearlo, il significato di episodi come quello della “fighetta” e degli altri strappi all’etichetta politica: Trump dimostra di voler rompere in modo totale con un sistema fallimentare. Tutto questo funziona ancora meglio con quegli elettori che non solo sono d’accordo con il messaggio di Trump ma che lo hanno interiorizzato, perché descrive la realtà della loro esperienza di vita. I fedelissimi di Trump sono pronti a rompere con il sistema perché pensano che il sistema abbia rotto con loro molto tempo fa, che li abbia abbandonati e delusi. È il segmento demografico che nel gergo giornalistico statunitense di vent’anni fa veniva definito i “maschi bianchi arrabbiati”, e che oggi viene definito in modo più garbato “classe lavoratrice bianca”. La più evidente delusione – alcuni usano la parola tradimento – riguarda l’aspetto economico. Da quasi vent’anni, e da prima ancora secondo alcune stime, i salari reali di questa fascia della popolazione sono fermi o addirittura diminuiscono. Mentre l’economia è cresciuta, anche se in modo incostante, e i ricchi sono diventati ancora più ricchi, il potere d’acquisto e il tenore di vita di questi lavoratori sono rimasti fermi. Anzi, tra il 1998 e il 2013 negli Stati Uniti il reddito mediano netto è sceso per tutti i gruppi tranne uno: il 10 per cento più ricco. Nello stesso periodo il reddito netto della classe lavoratrice è diminuito di un impressionante 53 per cento. Nel frattempo, il 10 per cento più ricco si è arricchito del 75 per cento. Tutto questo è vissuto come un tradimento della grande promessa americana: lavora sodo, rispetta le regole e avrai una vita confortevole. Per molte persone che rientrano in questa fascia della popolazione, l’aspetto economico è solo una delle facce del tradimento dello stato. Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti sono diventati più progressisti, la società – soprattutto i giovani e le fasce più istruite della popolazione – ha un atteggiamento sempre più tollerante verso la diversità, l’uguaglianza di genere e la sessualità. I simboli di questo cambiamento sono evidenti, da un afroamericano alla Casa Bianca alla sentenza della corte suprema che nel 2015 ha legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Per molti maschi bianchi arrabbiati e appartenenti alla classe operaia questo cambiamento è profondamente destabilizzante. Una società che dà la stessa importanza ai neri o alle donne lesbiche contraddice tutti i valori con cui questi tradizionalisti (alcuni li chiamerebbero reazionari) sono cresciuti. Per dirla in modo più diretto: in passato i maschi bianchi eterosessuali della classe lavoratrice potevano consolarsi con l’idea che c’erano altri sotto di loro nella gerarchia sociale. Vivevano in una società che li metteva al di sopra dei gay, di chi non era bianco e delle donne. Ora quell’idea è svanita, insieme ai posti di lavoro e alla casa. Durante la festa per la vittoria di Trump in New Hampshire c’erano diversi segni di questa tendenza. Non ci voleva un consulente politico per capire a quale gruppo demografico appartenesse Walter Collings: bastava guardargli le mani nodose e piene di vesciche. A 65 anni suonati, aveva fatto il parcheggiatore volontario in diciotto eventi elettorali di Trump durante le primarie in New Hampshire. La sua devozione per il miliardario era totale, anche se appartenevano a mondi diversi. Ma il particolare davvero rivelatore era la spilla sul bavero della sua giacca, con la scritta “Blue lives matter”, le vite dei blu sono importanti. Oltre che una dichiarazione di solidarietà per gli agenti di polizia morti in servizio, era una risposta al movimento Black lives matter, le vite dei neri sono importanti, nato qualche anno fa per protestare contro le violenze dei poliziotti nei confronti degli afroamericani. Quella di Collings era una presa di posizione contro il politicamente corretto, come a dire: “Anche i bianchi come me contano”. “Buon Natale” invece di “buone feste”. Per quelli come Collings, il Partito repubblicano è colpevole quanto quello democratico. Anzi, a dire il vero anche di più. Dai tempi di Richard Nixon, i repubblicani hanno offerto un tacito scambio alla classe lavoratrice bianca: dateci i vostri voti, noi in cambio difenderemo i vostri “valori” – Dio, le armi o, senza dirlo apertamente, i bianchi – e così avremo la maggioranza che ci serve per portare avanti il nostro amato programma fatto di riduzione delle tasse per i ricchi e deregolamentazione per le grandi aziende (un programma che, caso vuole, vi penalizza economicamente). Per decenni questo scambio ha funzionato: basti pensare agli elettori evangelici, molti dei quali sono operai, che si precipitarono alle urne per votare contro il matrimonio gay in Ohio nel 2004 e già che c’erano per assicurare a George W. Bush il secondo mandato. Ora è chiaro che quello scambio ha aiutato il Partito repubblicano ma non i suoi elettori. Loro hanno perso il lavoro, mentre chi li rappresenta non è riuscito a fermare il cambiamento sociale. Loro si ritrovano senza lavoro, mentre Mitchell e Cam, la coppia gay della serie tv Modern family, si sono sposati. Spremuti economicamente, circondati da un mondo sempre più irriconoscibile, questi elettori si sono convinti che entrambi i partiti abbiano fallito, e con loro tutto il sistema. Quindi è normale che si rivolgano a qualcuno che è totalmente estraneo al sistema e che promette di mandarlo in frantumi. Questa rabbia contro il sistema – la convinzione che la democrazia non abbia rispettato i patti con i cittadini e che il sistema chiamato con quel nome non sia più davvero democratico – alimenta non solo il fenomeno Trump ma molti movimenti populisti che stanno scuotendo il mondo. Una parte di questa rabbia, per esempio, è alla base della candidatura di Bernie Sanders, che accusa i due grandi partiti di essere le due facce di una finta democrazia asservita al denaro di Wall street e delle grandi multinazionali. Non a caso sia Trump sia Sanders sono outsider: fino a poco tempo fa non erano nemmeno iscritti ai partiti che oggi vogliono guidare. La rabbia è presente anche nella campagna per il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea: chi è favorevole alla Brexit, l’uscita dall’Unione, sostiene che il Regno Unito non è più padrone del suo destino e che solo abbandonando l’Europa i cittadini britannici potranno tornare ad autogovernarsi. Le posizioni di Sanders e dei sostenitori della Brexit si fondano sull’idea che la democrazia sia ancora il modello a cui aspirare: il problema è che il sistema attuale non funziona. Ma in altri casi questa disaffezione si spinge più in là e più a fondo, e qualcuno comincia a chiedersi se la democrazia sia ancora un ideale da perseguire. Prendiamo l’Ungheria. Nel 2014 il primo ministro Viktor Orbán ha dichiarato senza alcun imbarazzo: “Il nuovo stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno stato illiberale”, che antepone le esigenze “nazionali” a valori liberali come la libertà. In Polonia il partito Diritto e giustizia è stato accusato di calpestare la costituzione per instaurare una “democrazia illiberale”. Oggi Trump è considerato una minaccia e non semplicemente un pagliaccio perché appare ostile non solo all’attuale sistema bipartitico statunitense ma alle norme stesse che sono alla base della democrazia liberale: la separazione dei poteri che limita l’influenza dei leader eletti, i mezzi d’informazione liberi e indipendenti che difendono la democrazia, il dibattito civile e ragionato che rende possibile le decisioni collettive e pubbliche. E infatti Trump si presenta come la soluzione a tutti i problemi, l’uomo forte capace di spazzare via la burocrazia e la complessità e migliorare le cose, anche a costo di usare le maniere forti. Come si può spiegare altrimenti il clima di violenza che accompagna i suoi eventi elettorali? Durante i suoi comizi Trump ha detto che prenderebbe volentieri i manifestanti a pugni in faccia, ha rimpianto i tempi in cui chi interrompeva i comizi era zittito fisicamente e ha di fatto invitato i suoi sostenitori a picchiare chi lo contesta. Corey Lewandowski, il direttore della campagna elettorale di Trump, è stato accusato di aver aggredito una giornalista. Le accuse sono state ritirate, ma Lewandowski ha sempre potuto contare sull’appoggio del suo capo. La minaccia di usare la violenza non si limita a questi scontri occasionali ma è al centro del messaggio di Trump. Ritorna nell’impegno ad andare ben oltre il waterboarding contro i sospetti terroristi. Nella promessa di “far fuori le loro famiglie”, che sarebbe un crimine di guerra. Nel definire la convenzione di Ginevra “un problema” da eliminare. Nel fatto di non escludere un attacco nucleare in Medio Oriente o in Europa. Nella beata e noncurante ignoranza della costituzione degli Stati Uniti. È la convinzione che i vertici delle forze armate faranno quello che dice lui, a prescindere dalla legge. Siamo quindi oltre il rifiuto dell’attuale stallo politico tra democratici e repubblicani. Siamo arrivati al disprezzo dell’idea stessa della democrazia costituzionale. E se Trump cavalca quel disprezzo, è perché sa che c’è un elettorato sensibile a questo tipo di messaggio. Nel 2011 il World values survey, un progetto di ricerca che analizza i valori delle persone su scala mondiale, ha rilevato un dato significativo. Il 34 per cento degli statunitensi era favorevole a “un leader forte che non debba preoccuparsi del congresso o delle elezioni”. Tra gli intervistati che avevano al massimo un diploma di scuola superiore la percentuale saliva al 42 per cento. Vale la pena di ripetere questo dato per metabolizzarlo: un elettore statunitense su tre preferisce la dittatura alla democrazia. Questi americani non ripudiano semplicemente questo o quel governo, rifiutano l’idea stessa di democrazia. Le cifre confermano una tendenza già evidenziata in alcuni recenti studi accademici. Negli Stati Uniti una parte dell’opinione pubblica è su posizioni contrarie alla democrazia liberale. Di solito si tratta di un sentimento latente. Comprensibilmente, gli elettori sono riluttanti ad ammettere di sostenere simili posizioni. Quando vengono intervistati, intuitivamente sanno che confessare le proprie inclinazioni autoritarie è sbagliato. Il politologo Stanley Feldman ha trovato un escamotage per superare questa reticenza. Feldman pone agli intervistati quattro domande che non riguardano la politica, almeno apparentemente, ma l’educazione dei figli. Cosa è più importante per un bambino, l’indipendenza o il rispetto per gli anziani? L’ubbidienza o l’autonomia? Essere premurosi o beneducati? La curiosità o le buone maniere? Dalle risposte a queste quattro domande si capisce come gli intervistati valutano il conformismo e l’ordine rispetto ad altri valori. Lo studio ha concluso che il 44 per cento degli statunitensi bianchi è su posizioni “autoritarie” , e il 19 per cento addirittura su posizioni “molto autoritarie”. Il fenomeno non è nuovo ed emerge dai sondaggi fin dagli anni novanta, quando Feldman cominciò a sottoporre il suo questionario al campione. In gran parte, spiegano gli esperti, i sentimenti “autoritari” restano latenti e si “attivano” solo quando gli elettori sono sotto stress, in particolare quando l’ordine o la gerarchia sociale in cui credono sono minacciati dal cambiamento. Questo cambiamento può presentarsi sotto forma di una maggiore diversità etnica oppure attraverso il matrimonio tra persone dello stesso sesso o la stagnazione dei salari: in pratica qualsiasi cosa metta in discussione lo status quo che in passato assicurava a questa parte dell’elettorato un posto ben definito nella società. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che quando a questa minaccia si aggiunge la percezione di un rischio esterno o fisico – come la minaccia terroristica del gruppo Stato islamico – ad attivarsi non sono solo i sentimenti delle persone con tendenze autoritarie: anche chi normalmente darebbe risposte più progressiste alle quattro domande sull’educazione dei figli, tende ad avvicinarsi, per paura, a posizioni autoritarie. Come ha scritto Amanda Taub su Vox, tutti questi elementi messi insieme portano a “una possibilità inquietante, e cioè che un’eventuale coincidenza temporale tra cambiamento sociale e minacce fisiche risvegli negli Stati Uniti una vastissima popolazione di cittadini aperti all’autoritarismo disposti a eleggere un uomo forte pronto ad applicare i provvedimenti estremi necessari, dal loro punto di vista, per fronteggiare quelle minacce”. Un profilo che somiglia molto a quello di Trump. Infatti secondo i sondaggi il miglior indicatore del sostegno a Trump è proprio l’autoritarismo. Chi mette la crocetta sul quadratino “autoritario”, con ogni probabilità vota per “the Donald”. Come si spiega questa erosione della fede nella democrazia, sufficiente a spingere una buona fetta di statunitensi a sperare in un uomo forte svincolato dalla seccante incombenza delle elezioni? Negli Stati Uniti i principali responsabili sono il Partito repubblicano e la destra in generale. Da più di vent’anni l’ala più rumorosa del conservatorismo continua a ripetere nei talk show radiofonici e su Fox News che il governo e, implicitamente, i politici democratici sono moralmente sospetti. A volte questa posizione si esprime attraverso un aperto disprezzo per gli ultimi due presidenti democratici, considerati entrambi non solo inadeguati ma fondamentalmente illegittimi. Questa, per esempio, è da sempre la posizione della destra su Bill Clinton: solo un complotto criminale può aver insediato un individuo simile alla Casa Bianca. Nel caso di Barack Obama, l’accusa di illegittimità si fonda sulla questione della sua provenienza: il presidente sarebbe arrivato alla Casa Bianca con l’inganno, nascondendo il fatto di essere nato in Africa e di essere musulmano. Va ricordato, a tale proposito, che l’alto sacerdote del cosiddetto movimento nativista sulle origini di Obama è un certo Donald J. Trump. Una parte della destra statunitense pensa che a essere illegittimi non siano solo Obama, Clinton o il Partito democratico ma tutto il governo federale, o perfino l’idea stessa di governo. Naturalmente questa diffidenza verso l’autorità è antica quanto la stessa repubblica, che, non va mai dimenticato, è stata creata in un atto di ribellione contro un governo considerato troppo potente. Ho assistito con i miei occhi a questo fenomeno all’inizio degli anni novanta. All’epoca le correnti più oltranziste della destra repubblicana cominciavano ad avvicinarsi al movimento delle milizie paramilitari autorganizzate, all’epoca in grande ascesa, e a inveire contro i “burocrati federali” e il big government, l’intervento eccessivo dello stato. Washington era regolarmente descritta come una capitale imperiale lontana e corrotta, anche se i contestatori non spiegavano mai quale fosse l’alternativa e glissavano sul fatto che le persone che occupavano le poltrone a Washington erano arrivate lì grazie ai voti dei cittadini. E, soprattutto, non riconoscevano il fatto che se i rappresentanti eletti dal popolo erano tutti disonesti e incompetenti, allora si metteva in dubbio la democrazia stessa. Visto quello che ha fatto negli ultimi venticinque anni, oggi il Partito repubblicano non può alzare le mani e inorridire davanti a Donald Trump. Il miliardario newyorchese sta solo portando alle sue logiche conclusioni una tesi che i repubblicani hanno sostenuto negli ultimi anni sotto la spinta del Tea party, l’ala più conservatrice del partito, un movimento populista che denuncia la corruzione intrinseca delle istituzioni e di chiunque vi sia legato. E non ci si è fermati alle parole. Negli ultimi otto anni i repubblicani al congresso hanno esplicitamente dichiarato che la loro missione parlamentare era sabotare la presidenza di Barack Obama. Nel 2010 Mitch McConnell, politico repubblicano e attuale leader della maggioranza al senato, disse chiaramente che l’obiettivo del suo partito nei due anni seguenti sarebbe stato impedire il secondo mandato di Obama. Alla base c’è il disprezzo per l’idea stessa del compromesso, del negoziato, della conciliazione degli interessi e del raggiungimento degli accordi. In poche parole, il disprezzo per la politica. Non c’è da meravigliarsi se tanti statunitensi sono arrivati alla conclusione che il governo rappresentativo non funziona: uno dei due partiti principali ha fatto di tutto perché non funzionasse. Del resto, Trump e la deriva repubblicana estremista che lo ha generato sono la manifestazione più evidente di questo fenomeno, che tuttavia non riguarda un solo partito o un solo paese. È un processo che coinvolge tutto il mondo democratico. L’eurobarometro, che misura le tendenze dell’opinione pubblica in tutti i paesi dell’Unione europea, rivela un dato significativo. In Europa (come negli Stati Uniti) la diffidenza nei confronti del sistema democratico ha toccato i massimi livelli dopo la crisi economica del 2008. Nel 2007 meno del 39 per cento degli europei era insoddisfatto per come funzionava la democrazia nel suo paese. Nel 2009, dopo l’inizio della crisi, la percentuale era salita al 45 per cento. In altre parole, la crisi e i suoi postumi hanno smascherato i limiti della democrazia. Quello che ha colpito molti cittadini in quel periodo è stata l’impotenza dei loro leader democraticamente eletti di fronte al caos finanziario. Il fatto che ci fossero banche troppo grandi per fallire, da salvare in ogni caso nonostante quello che avevano fatto e nonostante i costi enormi per i contribuenti, il fatto che i governi fossero alla mercé dei padroni dell’alta finanza, i quali chiedevano fiumi di denaro per la sopravvivenza economica del mondo: tutto questo è stato come una brutale rivelazione. Altrettanto rivelatrice è stata la successiva fase dell’austerità. I governi hanno detto agli elettori che avrebbero tagliato la spesa per le scuole, gli ospedali e le strade per placare gli dèi senza volto dei mercati internazionali, che non erano disposti a fare credito agli stati accusati di scarsa disciplina fiscale. Da Londra ad Atene, si è diffusa la sensazione sgradevole che la sovranità fosse altrove, che a comandare non fossero i rappresentanti del popolo democraticamente eletti ma qualcun altro. All’improvviso agli elettori è stato svelato il piccolo segreto inconfessabile della democrazia, quello denunciato da Bill Clinton vent’anni prima, quando sulla carta era l’uomo più potente del mondo e i suoi consiglieri lo invitavano a ridimensionare il suo piano di spesa pubblica per non far arrabbiare i mercati: “Mi state dicendo che il successo del mio programma e la mia rielezione dipendono dalla Federal reserve e da quattro operatori finanziari di merda?”. Non era una novità per la sinistra. I commentatori progressisti sostenevano da tempo che il baricentro del potere si stava spostando, che le multinazionali stavano diventando più potenti dei governi, che le privatizzazioni avevano sottratto ai leader eletti il controllo di vaste aree dell’economia e delle infrastrutture di cui erano responsabili. Dopo il 2008 l’impotenza ha smesso di essere astratta ed è diventa ta tangibile. Anche l’opinione pubblica ha cominciato a esprimere la sua frustrazione per l’incapacità dei governi di controllare le multinazionali o semplicemente di far pagare le tasse alle grandi aziende. I sondaggi parlano di elettori indignati di fronte allo spettacolo patetico di leader eletti che mostrano gratitudine quando colossi come Google o Starbucks accettano di pagare una modesta somma al fisco, spesso sotto forma di un contributo di beneficenza, come se fosse un gesto spontaneo da applaudire. Dall’elusione fiscale alla globalizzazione (nella sua triplice forma di libero scambio, esternalizzazione delle attività produttive e migrazione di massa), dalla grande sfida del cambiamento climatico al divario crescente tra l’1 per cento e tutti gli altri, la democrazia sembra ormai impotente, incapace di difendere il popolo dalle grandi forze che lo minacciano. In Europa, Farage e Le Pen se la prendono con i migranti. Farage dice che nel Regno Unito la democrazia non c’è più perché il controllo dei confini è passato a Bruxelles. E così la fiducia nella democrazia vacilla. Qualcuno pensava, ragionevolmente, che la crisi avrebbe incanalato la rabbia contro il capitalismo invece che contro la democrazia. Molti elettori, però, si sono ormai convinti che il sistema economico non possa essere cambiato, che non esiste un’alternativa credibile al capitalismo. Nonostante il successo di Bernie Sanders, “socialismo” è una parola ancora difficile da digerire negli Stati Uniti e in buona parte dell’Europa. Anche la “terza via” proposta da Bill Clinton e Tony Blair ha fallito agli occhi degli elettori. Tecnocratico e non-ideologico, quell’approccio giurava fedeltà solo a “ciò che funziona”. Ma, considerata la crescita delle disuguaglianze all’epoca di Blair e Clinton, molti sono arrivati alla conclusione che neanche “ciò che funziona” abbia funzionato. Così oggi un cambiamento radicale del sistema economico appare impossibile, e la rabbia degli elettori si rivolge contro la democrazia. A mettere in evidenza le debolezze della democrazia non è solo l’economia. Gli attentati come quelli di Parigi e Bruxelles terrorizzano gli elettori anche perché sembra che i governi possano fare ben poco per impedire ai terroristi di uccidere in luoghi pubblici come aeroporti e sale per concerti. Probabilmente un governo autoritario e inflessibile non farebbe molto meglio, ma la palese incapacità dei governi liberaldemocratici di fermare questa minaccia alimenta la fantasia del leader dal pugno di ferro che, con un colpo, sconfigge il nemico. È la fantasia antidemocratica che Trump ha espresso in un suo tweet dopo gli attentati di Bruxelles: “Solo io posso risolvere il problema!”. È un messaggio rozzo e megalomane, ma si nutre della frustrazione verso i meccanismi lenti, cauti e indolenti della democrazia. Ed è sicuramente questo che ha in mente Trump (come altri populisti) quando esprime la sua ammirazione neanche tanto segreta per il presidente russo Vladimir Putin: ecco uno che risolve i problemi. Perché Putin non è condizionato da niente e da nessuno. Non si porta dietro il fardello della democrazia. Non viviamo ancora in un mondo postdemocratico. Ci sono ancora le elezioni e nella maggior parte dei casi a vincere non sono i populisti, almeno per ora. I cambiamenti demografici negli Stati Uniti forse determineranno la sconfitta di Trump, anche se non c’è da scommetterci in un confronto testa a testa contro una candidata debole e impopolare come Hillary Clinton. Ma che vinca o no, il fatto che uno come Trump sia arrivato fino a questo punto è significativo. Vuol dire che il mondo non è più lo stesso. Com’è questo nuovo mondo? È un posto dove le basi della democrazia liberale – il parlamento, le università, la pubblica amministrazione, i mezzi d’informazione – sono viste con profondo scetticismo. Un tempo si conveniva sul fatto che alcuni mezzi d’informazione dicevano più o meno la verità, ma oggi non è più così. La Bbc o il New York Times non solo sono messi in discussione ma sono accusati di essere falsi e bugiardi, perché al servizio di qualcuno o di qualcosa. L’accusa viene lanciata a gran voce sia da destra sia da sinistra, ma gli effetti riguardano quello che c’è in mezzo. Il terreno comune si restringe sempre di più ogni giorno che passa, lasciando la sensazione sgradevole che non ci sia più lo spazio per un dibattito pubblico civile dai presupposti condivisi. Se ai loro occhi la democrazia è diventata impotente, gli elettori si fideranno sempre meno dei politici che proveranno a dare un messaggio di speranza. Se mai daranno ascolto a qualcuno, quel qualcuno sarà chi cavalcherà le loro paure. Con rare eccezioni, tutti i populisti di oggi cavalcano la paura. L’unica promessa che fanno è irrealizzabile: proteggere dal cambiamento, fermare il mondo per quelli che vogliono scendere. È la promessa di Trump e di Le Pen, di Orbán e Wilders. A questa gente non serve vincere le elezioni per cambiare il modo in cui funziona la nostra società. Non hanno bisogno di vincere per radicalizzare l’opinione pubblica, per spingere le maggioranze contro le minoranze più vulnerabili, per farci dubitare della possibilità dell’azione collettiva, per renderci cinici di fronte alla possibilità della verità. Il miliardario newyorchese in corsa per la Casa Bianca, ex star dei reality show, non deve nemmeno diventare presidente. Viviamo già nell’era di Trump. (Traduzione di Fabrizio Saulini)
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