TRUMPEUROPA EXPRESS [di Alessandro Mongili]
Si parla tanto di vittoria di Donald Trump ma si evita di parlare di chi è stato sconfitto. Certo, Hillary. Ma soprattutto la sinistra trasformata in una forma politica ambigua, dimentica dei suoi fondamenti, come la difesa del lavoro, il principio di uguaglianza, il rispetto per l’Alterità (per esempio, della civiltà araba e musulmana), il rigetto del colonialismo, la politica di pace. Fino al 2008 il tentativo di creare una sinistra liberale sembrava praticabile, anche perché il discorso delle élite, costruito intorno a quello generato dal prevalere delle scienze economiche all’interno delle scienze sociali (una delle maggiori catastrofi culturali della nostra epoca), sembrava essere confermato da alcuni processi. Fra di essi, lo sviluppo tecnologico, l’idea che le start-up avrebbero definitivamente sostituito la fabbrica, delocalizzata in luoghi lontani. Se si ascolta Renzi, o Pigliaru, si avrà ancora un’eco di questo vecchiume. Le parole più ricorrenti saranno ancora “innovazione, innovazione”, oppure “eccellenza, eccellenza” e infine “merito, merito”. Tutta fuffa, ovviamente, che dopo il 2008 ha un suono perfino sinistro, perché è servito per coprire una dei maggiori spossessamenti in termini di diritti, di reddito e, per noi sardi, di possibilità stessa di rimanere a vivere sulla nostra terra. L’America è un continente, più che un paese, e un paese anche abbastanza isolato dal resto del mondo, che vive se stesso come “il” mondo, poco attento a ciò che avviene fuori da esso. In America avvengono cose che a noi sembrano assurde, come la pena di morte, la segregazione razziale e etnica, l’ignoranza crassa, sono non solo fenomeni che anche noi possiamo avere, ma sono considerati normali. Anche se c’è un’altra America, spesso meno impacciata di noi nel suo essere di sinistra, e spesso radicale e profondamente ispirata dal principio di equality. In Italia, la normalità della barbarie è stata un esito del periodo berlusconiano, ma è recente. La barbarie consiste proprio nel vae victis, nel “guai ai vinti”, cioè nella normalità dell’esclusione e della disuguaglianza. Anche da noi, dicevo, esiste. Ad esempio, da noi in Sardegna la discriminazione linguistica è considerata normale anche da gente che si scandalizza per l’elezione di Trump. Senza parlare del fatto che la maggioranza consideri normale l’esclusione in base al genere, all’orientamento sessuale o, ultimamente, al passaporto che la gente ha in tasca (se ne ha uno). La sinistra è stata prona verso questa avanzata della barbarie, ha dimenticato il suo dovere di difesa dell’uguaglianza e si è prostrata di fronte agli idoli della “crescita” e del “merito”, cioè della disuguaglianza e del privilegio che tali ideologie mascherano e legittimano. Ha accettato di essere diretta da oscuri opportunisti, non meno ignoranti e arroganti di Trump. Ma forse la sua responsabilità maggiore è stata quella di sovrapporre questa religione, in crisi profonda e irreversibile (ricordo, dal 2008) con il progetto europeo, la cui solidità democratica in questo momento ci avrebbe potuto difendere dagli incombenti disastri e, forse, da una nuova guerra mondiale che può benissimo raggiungerci. Non a caso, questo avanzo di sinistra si batte per limitazioni della democrazia come quelle contenute nella riforma costituzionale, o ancora guarda con disdegno all’allargamento delle autonomie e dei diritti di gruppi etnici repressi come noi Sardi. L’unica risposta urgente è quella di unire tutte le forze intorno a un programma che metta nuovamente al centro l’interesse delle classi popolari e medie impoverite, e lo coniughi con una sola parola d’ordine di politica internazionale: un nuovo pacifismo, una nuova politica di pace. Bisogna uscire dal renzismo e dal manincheddismo (versione indipendentista dello stesso fenomeno). Dobbiamo favorire il rafforzamento di democrazia e autonomie che, solo, può difenderci da fascismi vecchi e nuovi, come capì Emilio Lussu già negli anni ’20 del secolo scorso, non certo “risparmiare” sulle rappresentanze: non è il momento. E’ finito il momento della sinistra delle passerelle e del culto delle start-up, della superstiziosa esaltazione della comunicazione, dei media, dei patetici incensamenti di storytelling (in sardo: fàulas) o degli intrecci delle storie televisive ispirati ai videogames come matrice dell’agire politico. La generazione dei quarantenni di oggi è la più vecchia che esista in circolazione, più vecchia anche degli ottantenni, in quanto a mentalità. Non sono certo un realista ingenuo, ma è tornato il momento di essere seri, perché il momento richiede serietà e di clown ce ne sono già parecchi, in giro. |
Il messaggio, condivisibile, è pero a mio avviso troppo personalizzato a sinistra. Pare quasi che chi sia indipendentista sia necessariamente proveniente dall’alveo socialista. E questo non è. O l’indipendentismo trova la maniera di superare l’alveo degli schieramenti politici italiani, o non avrà alcuna possibilità di vittoria.
Gentile Mongili, la seguo e però mi chiedo: ma è sicuro che la sinistra perda semplicemente perché è poco di sinistra? Sicuro stia tutto qui? Capisco che annacquare la propria identità faccia perdere in appeal, eppure mi sembra anche sostenibile che la destra vincente agiti sempre gli ideali di sinistra per contrapporsi efficacemente a essi, quasi tenendoli lei strumentalmente in vita, per cui chi vota a destra lo fa sempre anche in opposizione all’ideologia opposta, della quale continua comunque a considerare portatori i candidati che proprio per questo rifiuta. E perché gli ideali di sinistra (al di là, voglio dire, di chi li incarni) dovrebbero essere oggi meno attraenti di prima? Tento un’analisi generalissima, che mi appare la classica scoperta dell’acqua calda cui (magari in ritardo) questo risultato statunitense mi ha infine esposto: dopo secoli di storia in cui le sopraffazioni tra stati e magari religioni (e figuriamoci la difesa arcigna dei confini) sono parse a tutti assolutamente normali, lungo il ‘900 il mondo si è fatto più piccolo e interdipendente, si è fatta largo la convinzione che i diritti devono essere uguali dappertutto, che il benessere a fronte del malessere (anche lontanissimo) è un sopruso, che il colonialismo è da bandire, che l’occidente avanzato consuma risorse che tra tutti sulla terra non potremmo consumare e inquina (e ha inquinato) quanto tra tutti non ci potremmo proprio permettere, che i paesi sottosviluppati vanno aiutati, quindi che i dazi applicati alle importazioni da questi (che proteggerebbero le nostre economie a svantaggio ancora di quelle) vanno sacrificati, che chi fugge da povertà e regimi illiberali va accolto … Il risultato di queste politiche è stata (mi sembra) la globalizzazione (che certo il capitale cerca di giocare finché può a proprio vantaggio), il cui risultato è comunque (sempre a quanto mi sembra) un tendenziale movimento di avvicinamento tra il livello di benessere e di produzione di ricchezza dei paesi occidentali già avanzati e gli altri nel mondo variamente emergenti. Mantenere in atto questa macrotendenza significa, in occidente, gestire un relativo (ma a volte drammatico) declino cercando di non farlo sfociare in deflagrazioni sociali e incontrollabili disordini civili, possibilmente riuscendo a distribuire tra tutti gli strati sociali il peso della crisi. Questo mi sembra il peso che tocca alla “sinistra”, condannata ad apparire distante dai problemi del popolo nel suo “politicamente corretto” quando si è appunto a uno stadio in cui il populismo, che alla destra è facile raccogliere, è ormai palesemente pronto a dire che, a ben guardare, prima veniamo noi, nei nostri confini, e poi loro, senza scrupolo nell’avviare così un fatale riavvolgimento degli ultimi decenni di storia che fino a un certo punto, se non magnifica, ci è almeno sembrata progressiva.
È una visione molto desolante, mi rendo conto, al punto che sarei semplicemente felice se lei potesse dimostrarmi che è sbagliata.