Ai tempi di Nerone (ma anche di Bismarck) [di Gabriele Nicolò]

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L’Ossevatore romano.it 14 novembre 2016. Cent’anni dalla morte dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz ·  Così Henryk Sienkiewicz confidava a un amico, nel 1893, l’idea di un romanzo che si apprestava a scrivere e che poi gli avrebbe assicurato successo e fama: «Sogno una grande epopea cristiana in cui vorrei inserire san Pietro, san Paolo, Nerone, le prime persecuzioni dei cristiani e proporre una serie di immagini così umanamente universali e meravigliose da dover essere tradotte dal polacco in tutte le lingue». Quel romanzo era Quo vadis?, composto nel 1896.

In quest’opera lo scrittore, di cui il 15 novembre ricorre il centenario della morte, esprime al meglio la sua capacità di descrivere la realtà con uno stile incisivo e brillante. Sin da giovane, del resto, dopo aver completato gli studi letterari all’università di Varsavia, aveva dato prova di un acuto spirito d’osservazione che lo aveva reso apprezzato collaboratore di diversi giornali e periodici — tra i quali «La Rassegna settimanale», «Il Settimanale illustrato» e la prestigiosa «Gazzetta polacca» — dove scrisse recensioni e articoli di cronaca.

Eppure la consacrazione letteraria arrivò tardi, a quasi cinquant’anni, nonostante avesse pubblicato la trilogia — Col ferro e col fuoco (1884), Il diluvio (1886) e Il signor Woldyjowski (1887-88) — che ritrae, nel segno di un acceso spirito patriottico, il quadro storico della Polonia del Seicento e che gli valse il convinto plauso dei connazionali.

Una trilogia — come avrebbe successivamente evidenziato l’Accademia svedese conferendogli il premio Nobel per la letteratura (1905) — che aveva avuto il merito di un’obiettività, nel denunciare responsabilità e difetti del proprio popolo, tanto più rimarchevole perché inserita in un contesto dichiaratamente celebrativo. Quei tre romanzi, dunque, gli avevano garantito il successo in patria, ma fuori dalla Polonia il velo dell’anonimato non era stato ancora squarciato. E allora Sienkiewicz comprese che per raggiungere la notorietà internazionale avrebbe dovuto realizzare un’opera di respiro epico. E fu l’Italia a segnare, in tal senso, la svolta della sua carriera, ispirandogli il suo capolavoro.

Come raccontava egli stesso, durante i suoi frequenti soggiorni a Roma visitava «con sempre crescente interesse e ardore» il Foro romano. E poco prima di iniziare la stesura di Quo vadis?, nella primavera del 1893, gli fece da guida il pittore polacco Henryk Siemiradzki, che condusse lo scrittore attraverso la via Appia Antica dove, secondo la tradizione, Cristo avrebbe incontrato Pietro in fuga da Roma e risposto alla domanda Domine, quo vadis?. “Fu allora — ricordò Sienkiewicz anni dopo — che mi venne l’idea di scrivere un romanzo ambientato in quell’epoca. Per approfondire la storia e il clima della Roma dell’epoca, ripercorrevo la città sul Tevere con in mano le opere di Tacito».

Una delle caratteristiche principali del romanzo — tradotto in oltre trenta lingue e tra i più letti all’inizio del Novecento — è la scelta del cristianesimo come paradigma di onestà e di rettitudine nella lotta contro il male e la tirannia del potere. Un richiamo doveroso — rileva lo studioso Luigi Marinelli — per un pubblico polacco ottocentesco, per il quale la Chiesa cattolico-romana rappresentava un baluardo dell’identità e dell’indipendenza nazionale contro gli invasori, soprattutto prussiani (protestanti) e russi (ortodossi).

A tale riguardo è opportuno ricordare il tradizionale privilegio in cui la storiografia e la letteratura polacche hanno sempre tenuto il terzo artefice della spartizione di fine Settecento, l’Austria cattolica, di stanza in quella Galizia la quale, rispetto alle vessazioni e ai drastici tentativi di assimilazione zaristi e del Reich nelle altre regioni, poteva dirsi felice. Sienkiewicz, suddito dello zar, era profondamente consapevole di questo aspetto nazional-religioso della sua opera. E come ha sottolineato il massimo studioso polacco di Sienkiewxicz, Julian Krzyzanowski, il «romanzo dei tempi di Nerone» era evidentemente, in egual misura, un «romanzo dei tempi di Bismarck».

Da rilevare poi che l’Italia non solo ispirò il romanzo, ma ne favorì e suggellò il successo. Di ciò lo Sienkiewicz fu sempre grato tanto da dichiarare: «Io credo che ogni scrittore abbia due patrie, l’una è la sua personale, l’altra è l’Italia». Subito dopo l’uscita del romanzo, tuttavia, ci volle l’insistenza del primo traduttore, il giornalista e scrittore napoletano Federigo Verdinois, perché fosse pubblicato in appendice al Corriere di Napoli, a partire dal febbraio del 1897. Ma subito dopo Quo vadis? si rivelò un best-seller, tanto che, come si legge nelle cronache napoletane dell’epoca, «una ressa di lettori impazienti ne aspettava l’uscita presso l’officina delle macchine in piazza della Borsa».

Seguirono numerose altre traduzioni e ristampe: si stima che solo nella prima metà del Novecento uscirono in Italia più di duecento edizioni del libro. Sebbene si trattasse in prevalenza di traduzioni frettolose e approssimative, che non rendevano certo giustizia al testo originale, Quo vadis? riuscì a conquistare il cuore dei lettori. Ma c’è anche chi non ne comprese subito il valore. Stando a quanto racconta Verdinois, nel 1897 Matilde Serao aveva rifiutato, ancora prima di leggerlo, di pubblicare il libro a puntate in appendice a «Il Mattino».

Ben presto, comunque, si sarebbe ricreduta, tanto che in un articolo elogiò senza reticenze Quo vadis? riconoscendone in particolare «la possanza evocatrice degna di un vero romanzo».

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