«Post-verità»: la parola dell’anno secondo gli Oxford Dictionaries [di Antonella De Gregorio]
Il Corriere della sera 16 novembre 2016. In tempi di Brexit e di Trump, vince la «Post-truth»: la tendenza a far prevalere appelli emotivi e convinzioni sulla realtà dei fatti. Battute «alt-right» (che indica la destra razzista americana) e «Brexiteer» (fautore della Brexit).«Post-truth»: quasi intraducibile in italiano, la parola dell’anno scelta dall’Oxford Dictionaries, come sempre, stupisce. Trainata dalla Brexit e dall’elezione di Donald Trump, la «post-verità» ha sbaragliato la concorrenza di «alt-right» (la destra razzista, nazionalista e online in Usa) e di «Brexiteer» (fautore della Brexit), entrate nella short list finale, ricavata da 150 neologismi. Dopo un anno ad alta intensità politica, i cervelloni che lavorano per il prestigioso vocabolario britannico hanno dunque incoronato una locuzione aggettivale che si applica a «circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel modellare l’opinione pubblica degli appelli emotivi e delle convinzioni personali». La parola selezionata dovrebbe «riflettere l’ethos, l’umore dominante o le preoccupazioni dell’anno», ma anche «avere un durevole potenziale come parola di significato culturale». Parola chiave E secondo quanto ha dichiarato alla Bbc Casper Grathwohl, degli Oxford Dictionaries, «Post-verità» può davvero diventare «una delle parole chiave del nostro tempo». Il termine non è di nuovo conio, sarebbe in uso da almeno una decina d’anni, ma la sua frequenza d’uso «quest’anno è aumentata del 2000% rispetto al 2015», in coincidenza con il referendum britannico e con al campagna per la Casa Bianca, ha rivelato la Oxford Dictionaries, che per individuare le tendenze sociali utilizza un tool di ricerca che analizza le parole più usate ogni mese. «Alimentata dall’uso dei social media come fonte di notizie e dalla crescente sfiducia nei fatti come presentati dall’establishment, “post-verità” è un concetto che da qualche tempo ha trovato una base linguistica» ha detto Grathwohl. «La frequenza d’uso di “post-truth” è balzata a giugno in coincidenza con il voto sulla Brexit e ancora a luglio, quando Donald Trump ha ottenuto la nomination alla Casa Bianca». Le fantasie di Donald Un vocabolo «trendy» (per rimanere negli anglicismi), che compare anche su una recente copertina dell’Economist. Sotto il titolo «Art of the Lie» (l’arte del mentire), il settimanale britannico stigmatizzava la tendenza della «politica post-verità nell’era dei social media», smascherando il «regno fantastico» di Donald Trump: dove è stato simulato il certificato di nascita di Barack Obama; il presidente (uscente) avrebbe «fondato lo stato Islamico»; i Clinton sarebbero degli assassini; e il padre di Ted Cruz, esule cubano, sarebbe stato visto con l’assassino di Jfk, Lew Harvey Oswald, poco prima degli spari a Dallas, nel novembre del 1963. Le menzogne della politica «Campione del post-verità», Mr Trump per tutta la campagna elettorale si è sbilanciato in affermazioni che «sentiva come vere» (o che spacciava per tali), ma senza alcun fondamento nella realtà. «Una sfacciataggine – scriveva l’Economist – che non solo non è mai stata sanzionata, ma è stata presa a riprova della volontà di The Donald di contrapporsi all’establishment. Ma d’altronde, che cos’avrebbe fatto di diverso il governo polacco – scrive ancora il settimanale – addossando a due controllori del traffico aereo russi la responsabilità dell’incidente che nel 2010 fece tabula rasa della dirigenza politica del Paese, a partire dal presidente, Lech Kaczynski? O i politici turchi sostenendo che gli autori del pasticciato golpe estivo agivano su ordine della Cia? Tutta «post-verità», riassume l’Economist. E se non è una novità che i politici spaccino menzogne, il termine messo sotto i riflettori riassume perfettamente la crescente propensione, se non a falsificare o contestare la verità, quantomeno a passarla in secondo piano. Le menzogne non sono più destinate a convincere gli elettori, ma a rafforzare pregiudizi. I sentimenti, non i fatti, contano. Un assioma che il populismo, la rabbia delle masse e la frammentazione delle notizie, diffondono e consolidano. Vape, Selfie, Emoji Ogni anno l’Oxford Dictionary sceglie una parola simbolo: un termine, un lemma, un’espressione che sintetizzi in qualche modo quel che si è detto e scritto durante i mesi precedenti. Le fonti sono giornali, media e web. Per il 2015 la parola scelta non fu una parola ma un emoticon, la faccina che ride, con lacrime di gioia: «un aspetto centrale della vita digitale di un individuo, che deve essere basata su contenuti visivi, emotivamente espressivi e ossessivamente immediata», motivarono allora gli esperti. Sdoganando la consuetudine di comunicare con le «faccine» invece che con le parole. Gli anni precedenti la scelta della «parola più rappresentativa» di un’epoca cadde su «Selfie» (nel 2013) e «Vape» («fumo elettronico»), nel 2014.
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