Le domande senza risposta sull’Italia [di Federico Fubini]

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Il Corriere della Sera, 17 novembre 2016. Non sarà di moda dirlo, ma dovremmo serbare almeno un po’ di simpatia umana per gli uomini e le donne che lavorano dentro la Commissione di Bruxelles. Semplicemente, non possono più dire e fare niente che non sollevi reazioni furibonde da qualche angolo d’Europa. Non sono neanche più in grado di esprimersi normalmente sulle condizioni di un’economia. La tensione politica attorno alle regole di bilancio nell’euro ha prodotto un gergo inestricabile per chiunque non ci viva immerso dentro.

È impossibile chiedere a un cittadino italiano, francese o tedesco di leggere le «opinioni» di Bruxelles sui bilanci dei propri Paesi e capirci qualcosa. Negli anni ogni dissidio fra le capitali si è sempre usciti aggiungendo un nuovo strato di clausole e codicilli, al punto che l’opacità burocratica di oggi è il prezzo della miriade di compromessi necessari perché tutti i governi accettassero discipline comuni.

Se invece i funzionari della Commissione Ue potessero parlare liberamente, direbbero in un altro modo ciò che hanno scritto ieri sull’Italia. Farebbero notare che negli ultimi cinque anni non si vede quasi alcun progresso nella capacità delle imprese di competere sui mercati esteri, misurato con il valore prodotto in media in un’ora di lavoro in proporzione ai costi.

Aggiungerebbero che in questi cinque anni l’Italia ha perso un decimo delle sue quote dell’export mondiale, di cui quasi metà all’interno dell’Europa stessa. È quanto emerge da uno dei documenti pubblicati ieri dalla Commissione europea, il «Rapporto sul meccanismo di allerta 2017». La domanda che non vi si legge (non è prevista dalle regole) riguarda la condizione in cui si troverebbe il Paese se i prossimi 5 anni andassero come gli ultimi 5.

È su questo sfondo che vanno letti gli altri documenti di ieri, quelli sulla finanza pubblica e il vuoto di domanda aggregata di cui soffre l’area euro. Anche qui la Commissione Ue prende posizioni che non potranno che irritare qualcuno, gli uni e gli altri a turno. Alla Germania, Jean-Claude Juncker e i suoi ricordano che solo oggi l’Europa sta tornando a fatica ai livelli complessivi di consumi delle famiglie e investimenti delle imprese e dei governi raggiunti prima della crisi.

L’area euro, seconda economia al mondo con 11 mila miliardi di reddito annuo, vive un paradosso: ospita decine di milioni di disoccupati, eppure si dirige a sviluppare sul resto del mondo un colossale surplus di quasi 400 miliardi l’anno che non viene né speso né reinvestito. È solo questione di tempo, con questi squilibri, prima che esploda la tensione commerciale e politica con l’America di Donald Trump. Il messaggio alla Germania è dunque che deve favorire da subito un approccio molto meno austero dello Stato, delle famiglie e delle imprese.

Ma il messaggio all’Italia è che non ha gli stessi margini. Per ora il governo ha avuto qualche concessione sulle spese per «motivi eccezionali» (migrazioni e terremoti) e ha guadagnato tempo: non ci sarà una resa dei conti su un’eventuale procedura per il deficit o il debito prima dell’avvio del 2017. Eppure dietro le molte stime al secondo decimale dopo la virgola, sempre destinate a essere contestate e riviste, si vede un giudizio coerente: l’Italia non sta risanando; al contrario, ha usato i risparmi negli interessi sul debito permessi in questi dalla Banca centrale europea per finanziare spese che non aumentano un potenziale di crescita del Paese già molto basso.

Se il Paese dovesse tornare in recessione o se il costo del debito dovesse tornare a salire, gli equilibri di finanza pubblica sono destinati a non tenere. In fondo non c’è altro ieri da Bruxelles. Ma non è poco.

 

 

 

 

 

 

 

 

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