Camilleri: “Sono diventato cieco, ma andrò a votare No” intervista a Andrea Camilleri [di Aldo Cazzullo]
il Corriere della Sera, 19 novembre 2016. Novantantun anni, 102 libri, 26 milioni di copie solo in Italia: Andrea Camilleri è lo scrittore più importante che abbiamo. «Vorrei l’ eutanasia, quando sarà il momento. La morte non mi fa paura. Ma dopo non c’ è niente. E niente di me resterà: sarò dimenticato, come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. E quindi mi viene voglia di prendere il viagra, di ringiovanire, pur di vivere ancora qualche anno, e vedere come va a finire. Vedere che presidente sarà Trump: uno tsunami mondiale, un Berlusconi moltiplicato per diecimila. E vedere cosa sarà del mio Paese». «A guardare l’ Italia ridotta così, mi sento in colpa. Avrei voluto fare di più, impegnarmi di più. Nel Dopoguerra ci siamo combattuti duramente, ma avevamo lo stesso scopo: rimettere in piedi il Paese. Oggi quello spirito è scomparso». Renzi non è un buon presidente del Consiglio? Quale? Al referendum andrà a votare? Spera nei Cinque Stelle? Se vince il No cosa succede? Il padre fascista e Montalbano Lealtà, fedeltà alla parola data, ironia, arte di guardare oltre le cose: sotto molti aspetti Montalbano è il ritratto di papà. Fu mia moglie Rosetta a farmelo notare. I padri si innamorano sempre un po’ delle mogli dei figli; e Rosetta a lui ha voluto molto bene». «Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però il matrimonio dei miei era riuscito. Quando mio padre morì, Turiddu Hamel, il sarto, si inchinò al passaggio della bara. Hamel era l’ antifascista del paese. Mi raccontò che, quando stava morendo di fame perché entrava e usciva dal carcere, papà gli aveva commissionato una divisa nera: “E sia chiaro che non lo faccio per sfregio…”. “To patri sapiva campari” mi disse il vecchio sarto: Giuseppe Camilleri sapeva vivere». La guerra di casa «Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento, Giovanbattista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi riconoscevo. Ma la vera svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La condizione umana di Malraux». «Nell’ estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’ era il capo della Hitler Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad annunciare l’ Europa di domani: un’ enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein Kampf. C’ erano ragazzi e ragazze di tutta l’ Europa occupata: Francia, Spagna, Polonia, Ungheria; le ungheresi erano bellissime, facemmo amicizia parlando latino. Sul fondale c’ era un’ enorme bandiera tedesca. Protestai: “Siamo in Italia!“. Così issarono anche un tricolore. Ma Pavolini mi individuò tra la folla, mi chiamò, e mi rifilò un terribile càvucio nei cabasisi: insomma, un calcio nelle palle. Finii in ospedale. Il prefetto, che era amico di mio padre, mi fece trasferire in una clinica privata, nel caso che Pavolini mi avesse cercato». «Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?“. Mi mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte dell’ 8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando“. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’ autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia. Zia Giovannina fece chiudere i cancelli e mettere i catenacci: “Qui la guerra non deve entrare!“. Arrivarono gli americani e abbatterono tutto con i carri armati». «In testa c’ era un generale su una jeep guidata da un negro. Passando vide una croce, là dove i tedeschi avevano sepolto un camerata fatto a pezzi da una scheggia. Il generale battè con le nocche sull’ elmetto del negro, e la jeep si fermò. Prese la croce, la spezzò, la gettò via. Poi diede altri due colpi sull’ elmetto, e la jeep ripartì. Sfilarono altri sedici uomini. Io ero annichilito dalla paura. L’ ultimo mi sorrise e mi parlò: “Ce l’ hai tanticchia d’ olio, paisà? Agghio cogliuto l’ insalatedda…”. Erano tutti siciliani. Mi sciolsi in un pianto dirotto, e andai a prendere l’ olio per l’ insalata. Poi chiesi chi fosse l’ uomo sulla jeep. Mi risposero: “Chisto è o mejo generale che avemo; ma como omo è fitusu. S’ acchiama Patton“». I litigi con Sciascia «Leonardo Sciascia era di un anticomunismo viscerale. Eravamo molto amici, ma abbiamo litigato come pazzi. Nei giorni del sequestro Moro lui e Guttuso andarono da Berlinguer e lo trovarono distrutto: Kgb e Cia, disse, erano d’ accordo nel volere la morte del prigioniero. Sciascia lo scrisse. Berlinguer smentì, e Guttuso diede ragione a Berlinguer. Io mi schierai con Renato: era nella direzione del Pci, cos’ altro poteva fare? Leonardo la prese malissimo: “Tutti uguali voiauti comunisti, il partito viene prima della verità e dell’ amicizia!“». «Un’ altra cosa non mi convinceva di Sciascia. Nei suoi libri a volte rendeva la mafia simpatica. A teatro gli spettatori applaudivano, quando nel Giorno della civetta don Mariano distingue tra “uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraquà“. Leonardo mi chiedeva: ma perché applaudono? “Perché hai sbagliato” gli rispondevo. Altre volte rendeva la mafia affascinante. “Lei è un uomo” fa dire a don Mariano. Ma la mafia non ti elogia, la mafia ti uccide; per questo di mafia ho scritto pochissimo, perché non voglio darle nobiltà. Eppure a Leonardo ho voluto un bene dell’ anima. Andavo di continuo a rileggere i suoi libri. Per me erano come un elettrauto: mi ricaricavano». La cecità Fino a poco fa vedevo ancora le ombre. Sono felice di aver fatto in tempo a indovinare il viso della mia pronipote, Matilde. Ora ha tre anni, è cresciuta, mi dicono che è bellissima, ma io non la vedo più. Di notte però riesco a ricostruire le immagini. L’ altra sera mi sono ricordato la Flagellazione di Piero della Francesca. Ho pensato all’ ultima volta che l’ ho vista, a Urbino – aprirono il Castello apposta per me -, e l’ ho rimessa insieme pezzo a pezzo. È stato meraviglioso». |