La solitudine dell’artista [di Elisabetta Chicco Vitzizzai]
Io credo che per un artista la solitudine sia una condizione in qualche modo nativa, connaturata allo stesso modo di essere artisti. L’artista, archetipo junghiano del Fanciullo Eterno, sa, isolandosi nell’interiorità, assorto nel suo gioco con la serietà e l’allegria che appartengono ai bambini, ritrovare nel gran tesoro sepolto dell’infanzia il segreto della creatività. Quando ogni nuova sensazione, ogni esperienza agisce con innumerevoli suggestioni, incanti, emozioni. Forse, all’inizio, nessuno ha una stanza tutta per sé, quella stanza di cui parlava Virginia Woolf, e forse, all’inizio, il bambino neppure ne ha bisogno, tanto vive beatamente immerso nel mondo delle proprie fantasie e dei propri pensieri, alla confluenza di sogno e veglia, di immaginazione e realtà. Poi, mano a mano che la normatività del mondo adulto gli si fa sentire, questa magica disposizione iniziale svanisce. Molti la perdono per sempre, scivolano nella noia e nell’appiattimento, a cui credono di sfuggire fuggendo la solitudine. Qualcuno, invece, riesce, proprio coltivando quella solitudine, a rivivere vaghi frammenti della propria infanzia, ad attingere da quel remoto passato una rinnovata ricchezza, ritrovandone la capacità mitopoietica. Questi è l’artista, lo scrittore, il sognatore, o più semplicemente chi mantiene il contatto con se stesso e con la propria vita interiore. La vita interiore è il nucleo più intimo dell’esistenza, dove si è se stessi e si gioca con la propria immaginazione o si riflette. Così la solitudine dell’artista si popola di fantasmi: ricordi, scavo di sé, elaborazione di forme. La solitudine è preziosa per l’artista. Non è mai un vuoto, un’assenza. Così come la stanza, lo studio, per l’artista o per lo scrittore, non è mai una prigione da cui si anela fuggire, ma il luogo della libertà e dell’appartenenza a se stessi. Per poter scrivere, per potere realizzare qualcosa, diceva Simone De Beauvoir, proprio a proposito del saggio di Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, bisogna innanzitutto appartenersi, possedere la propria anima. Per cui, metaforicamente, avere una stanza tutta per sé vuol dire anche avere il riconoscimento della propria collocazione artistica nel mondo. Questa libertà, questo appartenersi, ci spiega nel suo saggio la Woolf, fino a tempi recenti sono stati negati alle donne. Perché le donne sono state riconosciute solo come madri, sorelle, mogli, figlie e in questi ruoli non hanno avuto né tempo né spazio per ritrovarsi in solitudine con se stesse. Sono sempre vissute con i familiari, più o meno a loro disposizione, e i loro spazi sono stati la cucina o la stanza comune del soggiorno. Persino quando contribuivano all’economia familiare con un lavoro, il preferito era per forza di cose quello di sarta, di tessitrice, di maglierista, di ricamatrice: un lavoro che si potesse svolgere in casa, un occhio al ricamo o alla macchina da cucire, l’altro ai bambini o alla pentola. E anche quando disponevano di tempo, e di servitù, non era concepibile che si isolassero per dedicarsi a una propria personale attività, a una propria passione, se non attraverso un vero atto di ribellione, come fece Emily Dickinson, chiudendosi a vita nella propria stanza da letto per concedersi intimità e concentrazione: “L’Anima sceglie la sua compagnia / poi richiude la porta”. La stanza dell’anima, la stanza del sé, non può che essere una stanza solitaria, isolata, segreta, un luogo intimo dove l’anima incanta la solitudine. *Scrittrice. Pittrice. Vive a Torino.
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Bellissime e giustissime riflessioni sullo stato d’animo dell’artista che necessita di un proprio spazio interiore dove nessuno può penetrare per dare sfogo alla sua creatività e liberare le sue più intime emozioni, una solitudine appagante, mai deprimente, che è positività, respiro, nutrimento per sé e veicolo di sensazioni da trasmettere agli altri.
Molto “vero” il tema della solitudine dell’artista. Articolo straordinariamente ben scritto. La perorazione femministico-sociologica finale è ormai un po’ scontata!