La Costituzione al servizio della finanza [di Guglielmo Forges Davanzati]
MicroMega online, 22 novembre 2016. Per quanto formalmente il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci su un quesito che attiene alla riforma di parti importanti della nostra Costituzione, nella sostanza andremo a pronunciarci su un tema di massima rilevanza che attiene alla ridefinizione dei rapporti Stato-mercato in Italia. In tal senso, al di là della contingenza del dibattito politico, il referendum assume una forte valenza ideologica. Dovrebbe essere ormai chiaro che la riforma Boschi-Renzi non fa altro che accentuare il processo di messa al bando dell’intervento pubblico in economia, già in buona parte realizzato con la revisione dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. È vero che nel quesito che ci verrà sottoposto non leggeremo nulla di tutto questo, ma è sufficiente leggere i rapporti delle Istituzioni finanziarie internazionali che vogliono la riforma e i testi preparatori della riforma stessa per convincersi che l’oggetto del contendere è esattamente questo. Vediamo. 1) J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, scrive che la crisi dell’Unione Monetaria Europea è anche imputabile al fatto che le costituzioni dei Paesi del Sud d’Europa (e il riferimento è soprattutto alla costituzione italiana) sono fondate su “concezioni socialiste … inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”, prevedendo “governi deboli nei confronti dei parlamenti” e “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”. Il fatto che la riforma costituzionale sia eterodiretta, suggerita, se si vuol dire così, dalla finanza internazionale non dovrebbe poi destare così tanto stupore, se si ricorda che il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti fu, di fatto, la conseguenza di una lettera di ‘ammonizione’ inviata dalla BCE al Presidente del Consiglio italiano il 5 agosto del 2011. Non è qui in discussione una tesi complottistica: si tratta semplicemente di prendere atto, realisticamente, che la nostra sovranità politica non è piena, ed è sempre più limitata da ingerenze di Istituzioni estere che hanno – o possono avere – interessi economici in Italia. In sostanza, ciò che J.P. Morgan chiede è maggiore ‘governabilità’. 2) E il tema della maggiore ‘governabilità’ lo si ritrova nei documenti preparatori delle riforma, laddove si legge che “la stabilità dell’azione di governo” e l’”efficienza dei processi decisionali” sono le “premesse indispensabili” per far fronte alle “sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie” e, di conseguenza, “per agire con successo nel contesto della competizione globale”. Si tratta, con ogni evidenza, di una riforma della costituzione che è configurabile come un provvedimento di politica economica, e di un provvedimento di segno neoliberista. Del resto, se si associa la già avvenuta revisione dell’art.81, l’impostazione ‘competitiva’ ed efficientistica del nuovo testo costituzionale all’abolizione del CNEL, il quadro dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Si badi che è vero che oggi il CNEL può essere considerato un ente inutile, ma è altrettanto vero che non lo sarebbe affatto nel caso in cui lo Stato italiano svolgesse compiti di programmazione economica, così come peraltro previsti dal testo costituzionale attualmente vigente[1]. A ciò occorre aggiungere una considerazione di carattere più generale. Se, come scritto nei documenti preparatori della riforma, una costituzione deve adattarsi ai cambiamenti economici, da ciò segue che una carta costituzionale deve avere il massimo grado di flessibilità, potendo quindi essere riscritta laddove le trasformazioni indotte da un’economia globalizzata lo richiedono. Questo sembra essere un discrimine essenziale fra chi ritiene che le costituzioni siano atti fondativi che stabiliscono principi inderogabili di carattere generale sui quali si determina la convivenza civile e chi ritiene che la “modernità” impone fondamentalmente di trattare le costituzioni come leggi ordinarie. Le recenti esternazioni del Ministro Boschi sulla possibilità di intervenire successivamente sul testo rendono chiara la visione dei nuovi costituenti. Assunto che la riforma riflette un preciso orientamento di teoria e di politica economica, occorre chiedersi: cosa significa, o cosa potrà significare, intervenire sul testo vigente per “agire con successo nel contesto della competizione globale”? La risposta la si ritrova nella propaganda che l’attuale governo sta conducendo per l’attrazione di investimenti, laddove si esplicita che è conveniente per le imprese estere investire in Italia perché nel nostro Paese i salari sono “competitivi” (leggi: bassi). E la si ritrova anche nella Legge di Bilancio in discussione in Parlamento, i cui principali contenuti riguardano ulteriori misure di smantellamento dello stato sociale (riduzione dei finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, riduzione degli stanziamenti per il sistema pensionistico), ulteriori misure di moderazione salariale e di compressione dei diritti di lavoratori, ulteriori sgravi fiscali alle imprese[2]. E dunque: la sola reale ragione per votare SI sta nella speranza che queste misure incentivino l’attrazione di investimenti in Italia. Si tratta di una speranza dal momento che nessun provvedimento recente che si è mosso in questa direzione (in primis, l’abolizione dell’art.18) ha conseguito il risultato desiderato. Anzi: come ha messo in evidenza, di recente, il Governatore della Banca d’Italia, a partire da settembre l’Italia ha sperimentato un notevole deflusso di capitali finanziari (con un saldo netto negativo nell’ordine dei 354 miliardi negli ultimi due mesi) e, per effetto della produzione politica di incertezza, derivante dal fatto che questo Governo ha bloccato e spaccato il Paese sul quesito referendario per quasi un anno, lo spread sui titoli di Stato tedeschi, nel corso del mese di novembre, ha raggiunto quota 172: la soglia più alta dal luglio 2015. Si osservi che l’aumento dello spread è del tutto indipendente dalla stabilità politica, se solo si considera il fatto che la Spagna ha visto ridursi i differenziali dei tassi sui suoi titoli pubblici rispetto ai bond tedeschi pur essendo molto faticosamente arrivata alla costituzione di un nuovo Governo dopo mesi di vuoto politico. Che si cerchi di fuoriuscire dalla lunga recessione riscrivendo 47 articoli della Carta Costituzionale, peraltro in modo estremamente confuso, è l’ennesimo triste segnale dell’inettitudine di questo Governo e del fatto che l’Italia, ad oggi, è il vero malato d’Europa. NOTE [1] Sulle funzioni del CNEL, e sugli irrisori risparmi che deriverebbero dalla sua soppressione (dal momento che i suoi dipendenti non verrebbero licenziati in caso di vittoria del SI), si rinvia, fra gli altri, a Forexinfo, CNEL: cos’è e quanto ci costa, 3 novembre 2016. Si può anche osservare che l’argomento del risparmio dei costi della politica, ammesso che una Costituzione vada riformata per questo obiettivo e ammesso che il risparmio sia rilevante, è parte integrante di una visione delle funzioni dello Stato per la quale l’azione pubblica è sempre e necessariamente fonte di spreco. Il che è smentito dal dato di fatto per il quale, anche seguendo questa logica, con la Costituzione vigente (e contro l’argomento per il quale la ‘clausola di supremazia’ comporterebbe risparmi derivanti dai minori contenziosi Stato – Regioni) i maggiori risparmi – da quando sono state avviate le prime operazioni di spending review – sono stati conseguiti dagli Enti locali (circa il 30%, a fronte di circa il 12% dello Stato centrale nelle sue amministrazioni). [2] Si veda http://www.flcgil.it/attualita/legge-di-bilancio-2017-misure-dal-sapore-elettorale-il-nostro-commento.flc
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