La distanza fra uomo e donna sarà colmata solo quando le donne parleranno con voce di donna [di Maria Francesca Chiappe]
Il contributo qui pubblicato è stato letto nel corso della presentazione del volume “Donne morte senza riposo. Un’indagine sul muliericidio”, di Nereide Rudas, Sabrina Perra e Giuseppe Puggioni (AM&D Edizioni) a Cagliari Venerdì 25 novembre nell’Aula Magna della Corte d’Appello di Cagliari (Palazzo di Giustizia). All’iniziativa sono intervenute/i la Presidentessa della Corte d’Appello, Grazia Corradini, della Prefetta di Cagliari, Giuliana Perrotta, Maria Francesca Chiappe, caporedattrice de L’Unione Sarda, Gilberto Ganassi, Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Cagliari, Stefano Pira, storico Università di Cagliari (NdR). Ci fa orrore l’ultimo delitto, quello di Sassari, e tutti gli omicidi di donne assassinate in modo brutale dai mariti, gli ex mariti, i fidanzati, gli ex fidanzati. La violenza di genere – ti picchio, ti umilio, ti uccido in quanto sei una donna – è una vera e propria piaga sociale che colpisce l’intera società, le persone culturalmente più o meno attrezzate, gli anziani come i giovani e giovanissimi, le donne con bassa istruzione e quelle più evolute, le donne sottomesse e quelle libere e autonome. Senza distinzioni. Il che rende il problema ancora più grave. Non tutti gli omicidi in cui una donna è uccisa da un uomo sono femminicidi: se un rapinatore, uomo, entra in banca e ammazza la cassiera,donna, non é un femminicidio. I femminicidi sono considerati tali quando la donna viene uccisa dall’uomo in quanto donna: ci sono gli assassini misogini realizzati per odio contro le donne; quelli sessisti commessi perchè gli uomini credono di avere diritti sulle donne. Solo quando le donne muoiono scopriamo quale inferno è stata la loro vita casalinga, per settimane, mesi, anni. Sempre, a parte l’inizio della convivenza, tutta rosa e fiori. E siccome è impensabile che nessuno, tra parenti stretti, amici intimi, colleghi e conoscenti non sapesse o non avesse intuito nulla, ecco che improvvisamente ci rendiamo conto di come quelle donne – per le quali proviamo una sincera solidarietà postuma – siano state tradite non solo dall’uomo che avevano scelto ma anche dall’indifferenza di chi, pur avendo intuito, non ha fatto nulla per difenderle. Dobbiamo imparare, tutti, uomini e donne, mogli, madri e figlie, colleghi e colleghe, amici e amiche (perché questo è un problema della società e non delle singole donne che lo vivono sulla propria pelle) a interpretare i segnali che gli uomini, certi uomini, danno. Perché solo una rete di comprensione, solidarietà e aiuto potrà dare la forza a chi è vittima di violenza domestica a chiedere aiuto e salvarsi. Se pensiamo che il problema sia solo di chi prende botte e ingiurie non abbiamo capito niente. La realtà è che può capitare a ovunque, a tutti. Non è una questione di debolezza caratteriale né di capacità economica né di livello culturale o sociale. E la Sardegna , che a molti sembra diversa per cultura e mentalità, in realtà non si distingue da tutte le altre regioni d’Italia. E non da oggi. Il libro di Nereide Rudas, Sabrina Serra e Giuseppe Puggioni lo dice chiaramente: trattandosi di uno studio che parte dal 1600, scopriamo che anche nella Regione del matriarcato esiste da tempo questo tipo di reato. E quattro secoli fa, proprio come oggi, mostrava le stesse caratteristiche, alcune di quelle , direi le caratteristiche salienti, riportate da Nereide Rudas sono sovrapponibili a quelle dello studio portato avanti dalla professoressa Antonietta Mazzette dell’Università di Sassari. Ad esempio, l’arma del delitto. Anche nel 1600,700,800 gli uomini che uccidevano altri uomini usavano il fucile mentre gli uomini che uccidevano le donne usavano coltelli. Il che presuppone da un lato la vicinanza tra vittima e carnefice, dall’altro la superiorità fisica di chi uccide. Come succede oggi: coltelli, martelli, mani. Le zone, poi, allora come oggi: i centri più grossi, a cominciare da Cagliari, meno nelle zone interne. E i luoghi: le donne vittima di femminicidio vengono uccise in casa, al chiuso, a differenza degli uomini vittime di omicidio senza caratterizzazioni di genere, assassinati per lo più all’aperto e lontano da casa. Ci sono altre convergenze (l’età, i precedenti penali , inesistenti, la sanzione) ma ne parleranno certo meglio di me gli autori. Le statistiche dicono che la percentuale di donne che ha subìto violenza domestica sono superiori pure a quelle, impressionanti (20%) di chi ha subito uno stupro o un tentativo di violenza sessuale. Sono donne di tutte le età, classi sociali, formazione scolastica, professione, cultura. Dalla coercizione psicologica, al condizionamento economico e sociale, passando per le botte, i calci, gli schiaffi, la violenza ha tanti volti. Ed è sempre un esercizio di potere su un’altra persona, uno squilibrio tra uomo e donna. Molte pensano che la gelosia e il controllo siano forme d’amore, come le umiliazioni, gli inganni, le intimidazioni, le manipolazioni, le minacce di sottrazione dei figli, la privazione del denaro, i rapporti sessuali pretesi o estorti: della serie “mi fa schifo ma se mi rifiuto non mi lascia i soldi per la spesa o se la prende con i bambini”. Le storie di femminicidio, ma anche quelle che si concludono con la fuga della donna , ci dicono che le vittime vivono nella paura e si vergognano. Quindi: stanno zitte o, se proprio non possono, mentono. Fino a pochi anni fa i lividi sui volti delle donne venivano registrati come infortuni domestici e quella casistica andavano a gonfiare. Perché questo dicevano le donne picchiate dal marito ai medici del pronto soccorso: “sono caduta”. E se si fosse fatta una statistica sarebbe uscito fuori un precarissimo equilibrio femminile, nel senso proprio dello stare in piedi. Invece non erano incidenti domestici, ora è chiaro a tutti: erano, e sono, botte. E forse non è un caso neppure il fatto che se il femminicidio si verifichi quando la donna si ribella. Alla luce degli accertamenti giudiziari e processuali fin qui fatti, è un caso di femminicidio pure quello di Dina Dore, uccisa a Gavoi, nel 2008, davanti alla figlioletta di otto mesi: secondo una sentenza definitiva e una di primo grado è stato il marito ad assoldare un giovane killer per farla fuori e vivere con l’amante nella villa acquistata per la moglie. Dina Dore non era una donna sottomessa, non aveva sopportato in silenzio maltrattamenti ma la sua ribellione al tradimento del marito le è costata la vita. In tanti altri casi che le donne sopportano per anni umiliazioni e botte, in nome dei figli, del matrimonio e di se stesse, in un circolo vizioso claustrofobico che le depriva della dignità. In alcuni casi le porta alla morte, in altri, molti altri, le rinchiude in una vita di sopportazioni finalizzate alla sopportazione di altre umiliazioni. I giornali hanno un ruolo molto importante. Perché i giornali contribuiscono a cambiare il linguaggio e anche nel linguaggio può esserci violenza, anche nel linguaggio può esserci discriminazione di genere. Quindi, l’attenzione al linguaggio è importantissima. Se avete fatto attenzione vi sarete resi conto che giornali con sempre meno facilità parlano, per esempio, di “delitto passionale” quando un uomo uccide la compagna o la ex. Delitto passionale, passione, sembra quasi una giustificazione quando non un atto d’accusa nei confronti della vittima (colpa sua, se l’è andata a cercare, lui la amava). No: davanti a una donna morta ammazzata non c’è passione tantomeno amore, c’è solo sopraffazione. E qui apro una parentesi per ricordare la mappa dell’intolleranza stilata dall’associazione Vox sui diritti civili, un progetto realizzato da tre università italiane, Bari, Roma e Milano, sui tweet di commento ai fatti di cronaca nel 2015. Linguaggio greve e violento, innanzitutto: ebbene, al primo posto di questa classifica c’è l’odio per le donne, con oltre 280mila tweet, poi quello per i migranti con 38 mila, e per gli omosessuali, 35 mila (il picco di insulti contro le donne è stato calcolato tra agosto e settembre 2015 quando si sono registrati 14 femminicidi). E allora vien da pensare che la quotidianità vera sia fatta di un politicamente scorretto che fa breccia e che si allarga a dispetto della solidarietà e del cordoglio pubblici suscitati dalle tragedie. Anche i dati dell’Osservatorio italiano sui diritti confermano che le principali destinatarie di insulti sui social sono le donne, alle quali è rivolto il 63% dei contenuti offensivi. Ne sa qualcosa la presidentessa della Camera dei Deputati Laura Boldrini che al grido di “deve vergognarsi chi scrive, non io”, propri oggi ha mostrato i post che riceve quotidianamente, un cocktail di violenza, volgarità, sessismo e ferocia quando non addirittura istigazione allo stupro. Ma, per tornare ai giornali, il sessismo c’è e si vede. Ci eravamo indignati per le nostre atlete medaglie olimpiche definite “cicciottelle“ in un titolo a tutta pagina (prevaleva l’aspetto fisico sulla bravura) che ecco, la settimana scorsa due pagine ancora peggiori. Una grande foto di Hillary Clinton, la prima candidata donna alla casa bianca, viene pubblicata su due pagine fronteggianti di un quotidiano italiano con una serie di freccette accompagnate da simpatiche didascalie: sui capelli (definiti spettinati e sporchi), gli zigomi (capillari rotti), le mani (secche), il volto (niente trucco), lo sguardo (borse sotto gli occhi), il tronco (visibilmente dimagrita). Lo avete mai visto per un uomo questo scoop giornalistico? E anche sul fronte della comunicazione, l’attenzione dovrebbe essere massima. Invece è in corso una grande polemica sullo spot in onda sulla Rai proprio in occasione del 25 novembre: nel finale una bambina dice “da grande finirò in ospedale perché mio marito mi picchia”. Veicola un messaggio di remissione invece di un insegnamento di ribellione. Le statistiche mettono in luce un’altra cosa: anche in Sardegna è in diminuzione il numero complessivo degli omicidi ma, all’interno di questo dato, il numero di femminicidi è costante. Succede così – il dato è nazionale – che dal 1991 al 2011 è calato il tasso di omicidi ma è salita la percentuale di donne ammazzate: prima era l’11 per cento, ora supera il 25 (sono i dati della ricerca della professoressa Mazzette) . E noi: cosa facciamo per le donne, per eliminare il femminicidio e tutte le forme di violenza, psicologica e fisica, molte delle quali taciute se non nascoste? Sento molti inviti: denunciate denunciate denunciate. Come se, ancora una volta, la colpa fosse delle vittime. Uccisa o pestata perché non hai denunciato, non hai avuto il coraggio, fifona, se lo avessi fatto invece… Basta, è ora di dire basta. A parte che sono tante quelle che, pur avendo denunciato, sono state uccise o quasi, è successo a Villacidro qualche anno fa e a Sassari nella primavera scorsa. Quindi la denuncia troppe volte non serve, ed è giusto discutere e indignarsi per l’ ennesima assurdità. Ma basta con queste semplificazioni. Bisogna cominciare dall’inizio, non dalla fine, bisogna cominciare dall’educazione al rispetto. Bene ha fatto di recente di chi ha ricordato che fin da piccoli ai bambini si dice che le femminucce non si toccano neanche con un fiore: chi lo dice ha evidentemente la necessità di farlo perché pensa che nei maschi comunque alberghi una forma di violenza. Ed è così che l’ombra del femminicidio compare nella vita delle bambine. Cambiamolo tutto questo: cambiamo l’atteggiamento di chiede a una donna in cerca di lavoro se ha intenzione di far figli (questa domanda agli uomini non viene mai fatta, il che lascia supporre che il peso della famiglia sia ancora sulle donne). Smettiamo di pensare che se una donna torna tardi dal lavoro non è abbastanza attenta alla famiglia (se lo fa l’uomo, si sta ammazzando di lavoro per mandarla avanti la famiglia). Smettiamo di pensare che una donna senza un uomo a fianco valga meno. Smettiamo di definire “con le palle” una donna che si fa largo nel lavoro e nella vita. Smettiamola con la insopportabile pietà che porta a definire una brava persona (basta accendere la tv) l’uomo che ha appena ucciso la moglie. No. Non dobbiamo consentire a nessuno di dire o fare nulla di tutto questo in nostra presenza. Combattiamo il sessismo nel nostro quotidiano, restiamo in servizio permanente effettivo, staniamo i finti solidali, i finti sostenitori dei diritti, in ufficio-al bar-in palestra, ovunque. E cambiamo il linguaggio. Signora rettrice, signora prefetta, signora prima presidentessa della Corte d’appello, lo dico con grande rispetto: la lingua italiana ha un genere maschile e uno femminile. Usiamoli entrambi, anche e soprattutto quando noi donne occupiamo ruoli che sono stati sempre degli uomini. Altrimenti una giornalista di prima nomina sarà, come è sempre stata, una redattrice, ma quando farà carriera diventerà capo redattore e vorrei capire il perché. Così come vorrei comprendere perché a scuola chi sta al vertice è senz’altro una direttrice ma se una donna dirige un giornale è direttore. E se la fretta è da sempre cattiva consigliera non vedo perché una donna che si impegna in politica è invece un consigliere regionale. E se faccio la cameriera o l’infermiera va tutto bene ma se studio e sono in grado di fare un progetto sono ingegnere. Eppure la grammatica è lì a dirci quale sia la forma corretta, gli scettici possono contattare l’Accademia della crusca. Suona male? E’ solo questione di abitudine: alleniamoci. Perché (e qui rubo la frase finale del libro di Nereide Rudas che spero mi perdonerà) la distanza fra uomo e donna all’interno della nostra società così sbilanciata sarà colmata solo quando le donne parleranno con voce di donna. |
ho tovato questo articolo , che ho letto tutto d’un fiato, davvero profondo ed intelligente . Complimenti all’autrice .
Elena Falchi