Matteo Renzi: “Me ne vado”, disse. Ci avevamo creduto perfino noi [di Peter Gomez]
l Fatto Quotidiano 11 dicembre 2016. Quella frase l’ha ripetuta sei volte. In radio, in tv e sui giornali. Ed era una frase bella. Semplice. Rivoluzionaria. Era uno schiaffo in faccia alla vecchia politica. Era un concetto altruista e generoso. Oggi, però, sappiamo che era fasullo. Matteo Renzi non lascia la testa del Partito democratico. «Se perdo troveranno un altro premier e un altro segretario», aveva scandito davanti alle telecamere di Virus. «Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce. Vado a fare altro – aveva garantito a Radio Capital -. Io non sono come gli altri», aveva giurato al Messaggero. «Torno a fare il libero cittadino», aveva confermato a un Bruno Vespa troppo navigato per non essere perplesso. Così, mentre nel nome di Renzi l’Italia prova a darsi un nuovo governo, sui taccuini dei cronisti resta solo quel crescendo rossiniano di promesse e spacconate destinato a segnare per sempre la sua carriera e le nostre vite. Eppure, anche noi ci avevamo sperato. Dopo aver raccontato a una a una le contraddizioni di un presidente del Consiglio nato rottamatore e adesso destinato a morire restauratore, Renzi ci era piaciuto quando aveva affrontato a viso aperto la sconfitta. Il suo bel discorso d’addio a Palazzo Chigi di domenica 4 dicembre ci era sembrato il trampolino per un possibile riscatto. Quando avevamo letto i retroscena del giorno dopo, conditi da frasi che raccontavano i suoi dubbi e la sua voglia di lasciare, ci eravamo detti: “Dai, per una volta sorprendi tutti, prenditi davvero un anno sabbatico. Parti! Vai in giro! Scopri quell’Italia che non hai voluto e saputo vedere”. Pensavamo, o meglio ci illudevamo, che il molto sangue democristiano che scorre nelle vene dell’uomo di Rignano potesse portarlo a rileggere la storia di Amintore Fanfani, il Rieccolo di montanelliana memoria. Renzi alla fine lo ha fatto. Ma ha sbagliato parte della biografia. Ha saltato a piè pari le pagine in cui si racconta come nel 1959 Fanfani, logorato dalla minoranza interna, si dimette da presidente del Consiglio e da segretario per tornare sulla scena, dopo mesi di auto-esilio e solitudine, non appena muore il governo Tambroni (appoggiato dal Msi). È in quel momento che Fanfani, assieme ad Aldo Moro inventa di fatto il centrosinistra e dà il via a una lunga stagione di produttive riforme: la scuola media, l’aumento delle pensioni, l’autostrada del sole, la Rai educativa e tanto altro. Poi c’è il secondo Fanfani. Quello a cui Renzi s’ispira. C’è la parte di biografia che andrebbe bruciata e che invece Matteo, il giovane vecchio, divora. C’è il Fanfani che perde il referendum sul divorzio di 20 punti. Che crede di poter capitalizzare il 40 per cento ottenuto e che invece alle Amministrative del 1975 subisce una nuova débâcle. Una sconfitta che lo costringe ad abbandonare la segreteria. Ovvio, la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Renzi non è Fanfani. Nessuno per ora lo chiama il Rieccolo. In molti invece lo definiscono il Bomba. È un peccato, però. Perché quel nomignolo cattivo, nato dalle troppe promesse non mantenute, poteva essere spazzato via di colpo con le doppie dimissioni: da premier e da segretario. E invece resterà. Accantonato per sempre nell’archivio dei nostri ricordi assieme all’illusione di una politica finalmente in grado di cambiare verso. |
Matteo Renzi non ha alcuna intenzione di ritirarsi a vita privata. Anche poco fa in Direzione ha insistito nel dire, sostanzialmente, che gli elettori non hanno capito la sua proposta. Anche gli interventi degli esponenti della maggioranza che lo ha espresso come Segretario hanno seguito la stessa linea: Fiano, Baita (o Paita, non ho capito bene: quella che ha perso le ultime regionali in Liguria) e altre due o tre di cui non conosco il nome. Anzi, loro, come spesso succede in questi casi, sono stati più lealisti del re. Qualcuno ha fatto persino i complimenti a Renzi per la coerenza dimostrata: si è dimesso, come aveva promesso di fare se il NO avesse prevalso al referendum. Ma non hanno aggiunto che successivamente, quando aveva capito che forse la personalizzazione non gli avrebbe giovato (anzi!), aveva detto di no, poi di nuovo di si, poi ancora di no e così via nei secoli dei secoli fino al sì finale. Al povero Roberto Speranza gliene hanno dette di tutti i colori. C’è voluto Gianni Cuperlo per allentare un po’ la tensione. Non riescono ancora a rendersi conto che la riforma era quantomeno pasticciata e largamente inadeguata rispetto alle problematiche che si proponeva di risolvere. Non si fronteggiavano il cambiamento (il SI) e la conservazione (il NO). Si fronteggiavano, per quanto mi riguarda, due possibilità di cambiamento. Chi ha votato NO, come me, non si propone la semplice conservazione dell’esistente. Il cambiamento deve avvenire da un sistema, tutto sommato, coeso e coerente ad un altro sistema lo stesso coeso e coerente. Secondo me, quest’ultimo può essere: una sola Camera con 300 / 400 deputati (retribuiti con 3000 euro mensili ciascuno + rimborsi documentati proporzionati alla distanza da Roma del loro collegio), una legge elettorale uninominale a doppio turno di collegio con correttivo proporzionale per garantire il diritto di tribuna ai piccoli partiti, a quelli veri e inoltre la legge sui partiti politici sulla base dell’articolo 49 della Costituzione.
Renzi ha fatto una domanda molto chiara agli italiani: volete l’uomo solo al comando?
In venti milioni gli hanno detto vattene a casa!
Ma lui no, fa finta di non capire e anzi dice che il 40% degli italiani lo incoraggia a restare. Peccato che quel 40% sia fatto di tanti italiani che con lui non prenderebbero nemmeno un caffe’. La verita’ e’ che con Renzi abbiamo perso quasi 3 anni della nostra vita e dei nostri soldi. Dovrebbe farsene una ragione, ma lui no vuol andare a contarsi a giugno. Credo che si fara’ male e forse sara’ la volta buona che esce dalla politica.