Ma non si torna a 23 anni fa [di Massimo Franco]
Corriere della sera, 19 dicembre 2016. Si può comprendere il fascino del Mattarellum sul Pd, dopo il pasticcio indigesto regalato nei mesi scorsi con l’Italicum. È il tentativo di tenere in vita quanto più possibile il maggioritario, spingendo i partiti a coalizzarsi. Di fatto, rappresenta l’estrema risorsa alla quale il vertice vuole ricorrere per ricreare le premesse di vittorie ormai ingiallite: soprattutto se riuscisse la forzatura di togliere l’appoggio al governo guidato da Paolo Gentiloni, e andare a elezioni anticipate a giugno. Ma l’operazione si presenta difficile. Il sistema che prende il nome dall’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, e che fu approvato dopo i referendum elettorali del 1993, appartiene a un’altra epoca politica. Fu usato nel 1994, nel 1996 e nel 2001. Produsse coalizioni che, non certo per colpa del Mattarellum, rivelarono presto le crepe a causa della loro eterogeneità. E questo in un’Italia in cui il bipolarismo era la forma che il sistema politico aveva assunto dopo la fine della Guerra fredda e della Prima Repubblica; e in cui i partiti, per quanto in continua mutazione, esistevano. Risuscitare artificiosamente il bipolarismo in una fase di frantumazione delle forze politiche, e con un Parlamento spaccato in almeno tre tronconi, avrebbe poco senso. L’impressione è che dovrebbe servire a dimostrare che il Pd è e rimane il partito-perno di una fantomatica coalizione in fieri; e che Renzi, dopo le primarie, sarebbe il candidato «naturale» a Palazzo Chigi. Tuttavia, lo schema non convince. Intanto, se davvero si vuole approvare una riforma elettorale con le opposizioni, il Mattarellum non è la soluzione. Silvio Berlusconi, indicato come uno degli interlocutori obbligati, è per il sistema proporzionale. Ma, al di là delle preferenze del capo di FI, la sensazione è che nello stesso Pd e nella maggioranza la proposta sia vista con scetticismo. Di nuovo, serpeggia il sospetto di una legge pensata su misura per elezioni a breve termine e per la rivincita di un vertice dem umiliato dal referendum del 4 dicembre. Dunque, non l’inizio di una nuova stagione, ma l’ultimo colpo di coda per fare sopravvivere quella appena archiviata. D’altronde, avere bollato il responso referendario come una regressione verso la Prima Repubblica conferma la difficoltà a analizzare con freddezza quanto è accaduto. In realtà non si può parlare di ritorno indietro, se non altro perché sette anni di crisi economica hanno segnato l’elettorato; perché la crisi dei partiti è generalizzata, e tocca lo stesso Movimento 5 Stelle e le sue pretese di essere «altro»; e perché il potere personale ha mostrato tutti i suoi limiti, non capendo i mutamenti profondi della società italiana. Invece di inseguire coalizioni inesistenti, sarà meglio fotografare in modo fedele l’Italia. E prendere atto, con realismo, che forse solo dopo un voto si conosceranno i contorni di un governo. Fare una legge qualunque per andare al voto subito sarebbe, quella sì, un’operazione da Prima Repubblica. Ma poi il Pd dovrà spiegare all’elettorato perché ha affondato un suo governo appena formatosi. Il proporzionale, corretto quanto si vuole, non è un destino. A oggi, appare il prodotto inevitabile degli errori commessi dagli epigoni di riforme calibrate sulle ambizioni effimere di una nomenklatura, non sugli interessi duraturi del Paese. |