I decisori politici rispettino il senso profondo dell’agricoltura, della terra, del paesaggio dei Sardi [di Maria Antonietta Mongiu]
Intervento letto Sabato 19 novembre 2016 nel corso dell’iniziativa sull’agricoltura organizzata dall’”Associazione degli ex parlamentari sardi”. (N. d.R). Ringrazio l’Associazione degli ex Parlamentari della Sardegna nella persona dell’on. Giorgio Carta che ancora una volta ha voluto invitarmi a questa assise che, con sistematicità, tematizza argomenti di rilevanza per la Sardegna. Quello di oggi, in particolare, è tra i più qualificati perché si riferisce ai cambiamenti climatici e ambientali globali e sull’impatto che hanno su agricoltura e pastorizia. Bene lo dice, nella presentazione del Convegno, l’on. Carta che, memore dell’essere stato Assessore all’Ambiente, dettaglia le problematiche relative alle improvvise precipitazioni, alle prolungate siccità, ai fenomeni di desertificazione, alla sottrazione del suolo per usi difformi che in Sardegna “sembrano porre un’ipoteca sul futuro sviluppo di una risorsa, la terra, ancora largamente sottoutilizzata o male utilizzata”. Un’allerta dunque su una risorsa, il suolo, strategica per le quasi certe penurie alimentari dovute all’aumentata popolazione mondiale ed alla diminuzione di quelle a rischio di fame. Un’allerta ancora di più in Sardegna che importa più del 60% del cibo che consuma e che sollecita alcune domande. Nell’isola l’agricoltura e l’allevamento sono tuttora attività rilevanti e voce significativa del reddito regionale? Vi si possono individuare potenzialità di crescita, quantitativa e qualitativa, e ricadute occupazionali? Dopo un declino anche culturale della stessa parola agricoltura, il ritorno dei giovani verso tali attività è orizzonte operabile, come dicono le aumentate iscrizioni agli Istituti Agrari ed alla Facoltà di Agraria della Sardegna, a cui corrispondono politiche attive? Le produzioni agropastorali possono assumere un ruolo interdipendente con il turismo? Infine quali strategie i decisori intendono assumere per salvaguardare le peculiarità ambientali e paesaggistiche; contenere il consumo del territorio; aumentare le produzioni senza che ciò inerisca negativamente in Sardegna? Per rispondere ai quesiti che ci interrogano quotidianamente bisogna intanto porre una questione che aleggia sullo sfondo e che chiama in causa una parte decisiva della classe dirigente sarda. Quali le ragioni che l’hanno portata ad investire, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, sulla chimica di base che sarebbe stata a termine ed avrebbe avvelenato i nostri territori piuttosto che investire sullo sviluppo locale che certamente necessitava di una revisione di modi e mezzi di produzione del mondo agropastorale. La storiografia, nelle diverse declinazioni, avrà molto da indagare su quelle scelte il cui esito fu economico ma soprattutto sociologico ed antropologico. La deportazione dalle campagne ha prodotto infatti un’apocalisse culturale di cui tuttora la Sardegna paga gli effetti. Tra gli altri, la marginalità dei paesi, miniaturistici per numero di abitanti, e, contestualmente, il consumo indiscriminato di suolo sulle coste come nei centri urbani. Che la ricchezza della Sardegna consista nella sua qualità paesaggistica – ivi compresi i paesaggi agrari – sembra quasi una tautologia. Che i Sardi di oggi ne abbiano assunto maggiore consapevolezza lo raccontano le iniziative tese a dare o riconoscere valore alle produzioni realmente locali e di qualità, da non confondere con la moltiplicazione di sagre e sagrette di sedicenti prodotti di eccellenza variamente titolati; migliaia di persone che hanno partecipato all’iniziativa “I luoghi del cuore” del FAI (attivi ben 9 Comitati!) e la relativa campagna di promozione con 1023 luoghi del cuore segnalati in Sardegna, cinque con più di 1500 voti e ben tre con più di 10.000 voti; la consolidata rete dei borghi storici della Sardegna, parte pregiata di quella nazionale; l’inserimento di paesaggi agrari nell’elenco di quelli nazionali della Coldiretti; beni materiali ed immateriali nell’elenco dell’Unesco e la richiesta di altri a farne parte; comitati locali che hanno impedito trivellazioni ed interventi di c.d. rinnovabili, esclusivamente atte a consumare suolo ed a capitalizzarlo per interessi privati contro quelli generali. Si tratta di un’autocoscienza frutto dell’azione didattico-pedagogica di associazioni, insegnanti, comitati, che sta dando frutti e di una comunicazione che ha inerito positivamente nel cambiamento di punti di vista e, di conseguenza, di paradigmi. Stanno inerendo anche amministratori ed amministratrici illuminati, più colti e meno provinciali, per i quali il riconoscimento della qualità dei cosiddetti luoghi di margine spesso nasce dall’aver fatto esperienze internazionali. Se l’immaginario diffuso percepisce la Sardegna come luogo agropastorale e naturale non si riesce a capire perché questi due ambiti non siano il motore dell’economia. D’altra parte lo stesso PPR, varato nel 2006, si poneva nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Necessitava, di conseguenza, di provvedimenti conseguenti. Inizialmente ci furono. Le successive amministrazioni si sono arroccate in costosi quanto inutili tentativi di rigettare quel PPR o di varare ripetuti piani casa che lo aggirassero. Si registra, non a caso, che l’agricoltura, nel tempo e nei fatti, è diventata alibi o foglia di fico per comportamenti speculativi il cui core business sono l’energia o l’attività edilizia. Appare gravissimo che ad oggi l’isola non sia dotata di una legge urbanistica, di una legge sul consumo del suolo, e, dopo dieci anni, non sia stato completato il Piano Paesaggistico Regionale pur essendo stata la Sardegna la prima regione italiana a dotarsene, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione. Sembra quasi di cogliere in siffatti ritardi una netta separatezza tra la popolazione e la sua percezione dei luoghi ed i decisori che non colgono come è cambiato il sentimento diffuso su natura, paesaggio, agricoltura, cibo, qualità della vita. Le dichiarazioni dei decisori politici che l’edificato in Sardegna sarebbe contenuto e che buona parte della terra sarebbe oggi nella disponibilità dell’agricoltura corrispondono al vero ove si ragioni che il 96,7% del territorio (32,5% di aree naturali, boschi e foreste e 64,1 % di aree agricolo zootecniche) non è costruito e che il 3,3% del territorio riguarda le aree urbanizzate (9,1%, in ambito costiero). Ma i numeri non dicono tutto. Di fatto la percentuale del costruito si triplica una volta si analizzi la situazione nelle coste. Se, come è stato fatto altre volte, si analizzano le percentuali di espansione delle aree sottratte all’agricoltura a partire dal secondo dopoguerra – a fronte anche dell’aumento delle aree boscate, tra le più cospicue in Italia – si registra, in proporzione al numero degli abitanti, un aumento sproporzionato dell’edilizia abitativa e delle case in particolare, specie appunto nei territori costieri. I dati qui di seguito se ben ponderati porterebbero i nostri decisori a sospendere ogni tentativo di riprendere l’assalto alle coste ed alle zone ad esse prossime in favore di politiche di recupero e di restauro dei nostri paesaggi compresi quelli agricoli. Le abitazioni totali in Sardegna sono infatti 802.149, di cui 459.76 nei comuni costieri. Sulla percentuale complessiva 208.458 sono vuote di cui 153.065 ubicate sulle coste. Ma anche quelle nei paesi interni non sono poche e denunciano una desertificazione non solo antropica ma anche dei mestieri specialmente di quelli legati alla terra. Una trasformazione così radicale dal punto di vista culturale non è mai successa nel corso della storia della Sardegna e merita davvero tutta l’attenzione da parte della ricerca e, più complessivamente, delle classi dirigenti sarde. Ecco perché, nell’immediato, il compito di tutti è riuscire a preservare il paesaggio agricolo con le sue colture e culture materiali. Questa preoccupazione non è recente. La si registra fin dal mondo antico. Già “La Legge delle XII Tavole” evidenzia che netta deve essere la distinzione tra il territorio urbano ed extraurbano. La tutela del territorio agricolo era la priorità perchè interdipendente con la necessità di nutrirsi. Religione, simboli, ritualità erano collegate alla terra e persino la fondazione della città aveva l’aratro ed il bue come protagonisti. Recenti scavi hanno mostrato che la manodopera schiavile del latifondo romano era particolarmente tutelata persino dal punto di vista alimentare. Il suo benessere fisico consentiva di produrre più derrate che, attraverso i contenitori prodotti in loco ed atti al trasporto, venivano commercializzate. Nelle fasi successive al tramonto dell’impero romano l’attività stessa dei monaci con il motto “ora et labora” aveva la “renovatio loci” come obiettivo primario. Più di recente in piena seconda guerra mondiale la Legge 17 agosto 1942, n. 1150) in materia di Urbanistica all’art. 1 recita: “ll ministro dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo. Eppure la cesura tra abitato e campagna è stata abbondantemente valicata e stando, ad esempio, all’area urbana di Cagliari la soluzione di continuità tra Cagliari ed i centri della prima e della seconda cintura, così evidente nella cartografia ottocentesca di Alberto De La Marmora, oggi è inesistente, sostituita da un anello di cemento. L’attuale disegno di legge in materia di “contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, non approvato in via definitiva dal Parlamento, non soddisfa quanto quella legge, oltre 70 anni orsono, auspicava. Il dibattito in corso vede contrapposizioni perché il dispositivo legislativo non adempie pienamente a quanto l’art. 9 della Costituzione recita, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio storico e artistico della nazione”, che anticipa quanto l’Europa ha voluto con la Convenzione Europea del Paesaggio firmata a Firenze nell’ottobre del 2000. Ecco perché se il Parlamento registra un qualche ritardo appare necessario che la Regione Sardegna sia più solerte e coerente con quanto l’Europa ha messo tra i suoi obiettivi ovvero arrivare al consumo zero del suolo entro il 2050. Uno degli obiettivi immediati per la Sardegna dovrebbe essere la diminuzione del differenziale tra il cibo importato e le derrate prodotte in loco, impedendo ope legis il consumo ulteriore del suolo con qualsivoglia alibi in favore della restituzione all’agricoltura di terreni occupati da usi difformi o non coltivati o ridotti in uno status semi-naturale. Promuovere le politiche a favore dell’agricoltura richiede naturalmente avere chiara visione di cosa rappresentino il paesaggio, l’ambiente, il suolo , risorse non rinnovabili. La situazione di degrado delle zone industriali dismesse dovrebbe essere un valido monito per tutti. Nell’Introduzione al PPR del 2006 ben si precisa che il paesaggio è parte integrante dell’identità della Sardegna. Averlo riconosciuto, cambiando radicalmente il paradigma, significa che è oggetto di tutela ogni declinazione di paesaggio di cui quello agrario ha più di altri una dimensione storica giacchè la Sardegna è una delle regioni dell’Europa in cui l’agricoltura è comparsa prima che in altri luoghi. Ecco perché l’agricoltura in primis è parte fondante del sistema identitario in quanto non c’è territorio della Sardegna in cui non se ne registrino le tracce materiali ed immateriali. Ecco perché il recupero dell’agricoltura come asse primario del futuro della Sardegna non è soltanto un’operazione economica ma è recupero di senso senza il quale l’isola non solo non ha futuro e possibilità di agire alcuna politica, men che meno quella turistica. Cagliari 19/12/2016
|
E’ vero “i numeri non dicono tutto.” Ad esempio quando “si analizzano le percentuali di espansione delle aree sottratte all’agricoltura a partire dal secondo dopoguerra – a fronte anche dell’aumento delle aree boscate, tra le più cospicue in Italia – ” in maniera altrettanto lucida si deve riconoscere come tale aumento sia rappresentato in concreto dall’espansione della macchia e non dei “boschi” veri e propri, per capirci i popolamenti a prevalenza di alberi e non di arbusti, i cui dati statistici (come conferma l’ultimo IFN) fanno registrare più o meno sempre gli stessi “numeri” da circa ventanni. Perciò quel che non si capisce davvero è come sia possibile che anche le più severe riflessioni quali quelle pronunciate ad esempio nella recente iniziativa sull’agricoltura organizzata dall’”Associazione degli ex parlamentari sardi”, dunque sempre vertici politici, continuino a non produrre decisioni altrettanto nette al fine di evitare che la Sardegna, oggi sempre più attanagliata da fenomeni di desertificazione sociale oltreche ecologica, consenta di veder ipotecato il proprio futuro non tanto sottoutilizzando la propria terra quanto utilizzandola male deprimendo e non favorendo, in tal modo, interessi esistenziali generali.