Il linguaggio è lo specchio della società [di Nicolò Migheli]
La Collina Gennaio-Marzo 2017. Un refrain è diventato luogo comune: la società contemporanea è complessa e di difficile lettura. È almeno dal Neolitico che non esistono società semplici. Sono le relazioni tra individui, i rapporti di potere, l’organizzazione sociale, che fanno in modo che le complessità si esprimano. Oggi però registriamo una certa incapacità nella costruzione di un modello interpretativo onnicomprensivo. Eppure i fenomeni sono sotto gli occhi. Una delle possibilità che abbiamo è l’analisi di segmenti che in qualche modo siano rappresentativi della totalità. Uno di questi è il linguaggio; come esso nella quotidianità, soprattutto sulle piattaforme elettroniche, sia stato semplificato ed abbia assunto caratteri urlati e violenti. L’uso di epiteti ed insulti con odio per chi dissente. Assistiamo a questa deriva con impotenza, domandandoci come sia potuto accadere. Una delle grandi imputate è la televisione e quelle trasmissioni pomeridiane dove lo scontro e le male parole servono per intrattenere un pubblico anziano e per far accrescere gli indici dell’Auditel attraendo gli inserzionisti. In principio fu Gianfranco Funari si è soliti dire, o forse Cesare Zavattini che il 25 ottobre del 1975 ai microfoni di Voi ed io alla radio sbottò in una provocazione pensata a lungo: “E adesso dirò una parola che finora alla radio non ha mai detto nessuno”. Silenzio, attesa, curiosità: “Cazzo!” Inutile dire che scoppiò uno scandalo, erano tempi dove la parola coscia non poteva essere pronunciata in radio, ed anche un monumento vivente come lo scrittore emiliano non doveva infrangere un tabù consolidato. Eppure fuori dai registri paludati della Rai, quel termine non suscitava scandalo, bastava andare ad una qualsiasi assemblea studentesca o operaia per sentirlo usare come intercalare. Era avvenuto che il mezzo di comunicazione registrava un mutamento che nella società era già consolidato, approdava in uno spazio pubblico, colpiva ascoltatori indistinti, però urtava perché infrangeva un costume di secoli: nell’area pubblica non possono essere usate espressioni volgari. Passino i luoghi dei soli maschi: la caserma, lo spogliatoio delle palestre e impianti sportivi, ambienti dove le donne non accedevano, e il turpiloquio poteva essere espresso senza censura alcuna. Mai e poi mai parole simili potevano essere dette in ambito familiare, anche tra persone di ceti poco acculturati. Chiunque l’avesse fatto sarebbe stato retrocesso allo stato di sottoproletario, un luogo degradante in cui la prima mancanza era la coscienza di sé e quella di appartenere ad una classe: quella proletaria, che ambiva a governare il mondo. In fin dei conti i ceti popolari assumevano in sé il decoro borghese come valore di riferimento. Erano soggetti a quella egemonia culturale anche nei comportamenti. L’abito buono il giorno della festa, la frequenza della messa per i credenti, il vassoio delle paste e il lungo pranzo domenicale. Ancor di più le società pastorali e contadine, meno quest’ultime che erano più tolleranti rispetto al linguaggio grasso. Le prime invece molto attente alla parola, ne conoscevano il potere evocatore fino in fondo, anche violento; sapevano che le cose dette erano come i sassi, una volta lanciati non ritornavano più indietro. Ecco perché tacciare un linguaggio sboccato ed offensivo di volgarità, ovvero popolare, è ingiusto. La volgarità perché sia tale deve essere inconsapevole, farlo invece in maniera cosciente è altro. Non esiste un termine differente, si potrebbe usare popolano, con un accento negativo, ma anche questo ha troppe similitudini con volgo. Costumi ormai tramontati, così come è finita la società tradizionale e quella della prima industrializzazione. Perché è in quella fine, in quelle rotture di ceti, classi, comportamenti e relazioni, le radici del nostro oggi. Le società passate avevano ancora sistemi di riconoscibilità reciproca, in cui l’autorità, non solo quella maschile, veniva accettata. L’antecedenza: l’essere nati prima, era un valore, le comunità di lavoro o di appartenenza erano condizioni solide, con un grado di mutamento accettabile che però non destabilizzava l’individuo, lo accompagnava nel cambiamento. Condizione che i nuovi lavori e la scomparsa di gran parte di quelli tradizionali ha definitivamente cancellato. Si pensi ai luoghi di rappresentanza e aggregazione: ai partiti, i sindacati, la stessa Chiesa, e alla loro scomparsa o marginalizzazione. Corpi intermedi che nel loro ruolo assumevano anche la capacità educante, oltre ad avere in sé un finalismo da agenzie di senso che prefigurava una società migliore. Luoghi dove si esprimeva un concetto di autorità riconosciuta. Quel mondo da che cosa è stato sostituito? Dalla frantumazione. L’aspetto più evidente è la scomparsa del lavoro, sostituito da miriadi di lavori con contratti differenti che alimentano una continua precarietà in ampie fasce di popolazione. Si sono innescate disparità di genere, territoriali, generazionali, tra chi ha un titolo di studio e chi no, tra immigrati e cittadini del Paese, la diminuzione delle garanzie offerte dal welfare. Una condizione che si nutre di paura del futuro, della incapacità a progettarlo. Il risultato è un mondo risentito, stressato da una competizione continua, in cui l’individuo nella sua solitudine diventa l’unico riferimento per se stesso. Le comunità in crisi vengono sostituite dalle community sul web, luoghi che vivono su di un interesse o bisogno temporaneo. Tutto questo mutamento squassante ha influenza sul linguaggio, con la competizione diventata il valore dominate e l’altro il nemico. Il modello di decoro borghese è caduto in una crisi profonda e le reti sociali sono lo spazio in cui lo si può cogliere di più. Mentre nelle relazioni fisiche tra individui resta un minimo di formalità, il web le annulla. La velocità è il carattere dominante, le reazioni sono emotive. Anche la tv lo era e lo è. Il suo essere un mezzo ad una via, non consentiva nessuna replica. In tempi ante reti sociali Radio Radicale tentò un esperimento, lasciò i microfoni aperti per qualche giorno, venne investita da una sequela di telefonate dove gli insulti erano dominanti. Non vi è novità quindi? Oggi l’interconnessione tra i mezzi, la possibilità data a tutti di esprimere il loro parere o semplicemente il loro disaccordo, moltiplica l’improperio e l’insulto. Ancor di più perché gli utenti, soli davanti ad uno schermo, spesso non sono consapevoli che ogni loro parere o aggressione diventano pubblici, con l’aggravante che la parola scritta rimane. Talvolta la mancanza di proprietà nel linguaggio complica il messaggio, molte delle espressioni vengono scritte senza che si abbia piena coscienza del loro significato e significante. La parola detta in un confronto vis a vis può essere precisata, contraddetta, mentre se si hanno poche abilità di scrittura diventa tutto più difficile se non impossibile. Comportamenti di questo tipo hanno padri nobili. Ancora una volta la tv, e il suo essere agenzia di senso che si traduce in potere diseducante con l’abitudine alla rissa, all’insulto, alle predicazioni solipsistiche, alle interruzioni dei discorsi altrui. Comportamenti che come goccia sulla pietra, scavano nelle personalità determinando una aggressività continua che si esaurisce in se stessa. Vespe nel bicchiere, che non potendo rivolgere l’ira contro chi è causa della loro esclusione, finiscono con aggredirsi. Sentimenti che agiscono da disgregatore della coesione sociale non riconoscendo dignità al proprio interlocutore. Un individuo solipsistico, l’unica autorità che riconosce è se stesso e il proprio diritto-necessità. Una umanità persa? Un mutamento irreversibile? Se personaggi come Donald Trump diventano presidenti degli USA, con una campagna in cui l’insulto, la demonizzazione dell’altro, lo stigma razzista sono messaggio e contenuto, il pessimismo diventa travolgente. Se pochi indossano l’abito buono durante le feste, ormai antiquato, anche col linguaggio dovremmo adattarci? Certo che no, però ci si dovrebbe impegnare tutti. Molto può la scuola. Le associazioni, chi si cura dei giovani, se riescono a spiegare il carattere definitivo della parola, se si insegna la comunicazione ecologica come strumento per una buona qualità delle relazioni interpersonali e non solo come galateo. La forma è sostanza. Però non basterà se non accompagnato da un sistema che proponga la cooperazione in alternativa ad una competizione esasperata. Il quadro generale non aiuta, gli stessi luoghi di lavoro, senza più intermediazioni sindacali, sono diventati ambienti dove la competizione è l’unico valore accettato, spazi di rapporti ineguali tra proprietà e dipendenti con le esclusioni destinate ad aumentare. Ricostruire l’autorità in ambiti che si vivono falsamente paritari e orizzontali non sarà facile. Ma non abbiamo altre possibilità, se non vivere in una società sempre più infelice. |