L’urbanistica in Italia e Emilia Romagna: la città pubblica tradita [di Paola Bonora]
il manifesto 15 dicembre 2016 Che cosa sta accadendo nel nostro Paese in ambito urbanistico e di governo del territorio? Dopo la sbornia costruttivista che ha portato alla bolla immobiliare, il caos sembra regnare sovrano; nessuno sa come uscire da una crisi paralizzante. Mercato fermo, aziende fallite, città bloccate, la politica urbanistica nel marasma. La pianificazione? Morta e sepolta da tempo. Siamo ormai abituati a veder espropriate e ribaltate le parole d’ordine che emergono dai circuiti culturali avanzati, ma di questi tempi la distorsione è particolarmente allarmante. Sull’azzeramento del consumo di suolo negli ultimi anni si sono spesi in tanti, che hanno lanciato la proposta del riutilizzo e della riqualificazione degli spazi già cementificati. Ora però gli obiettivi del “contenimento” del consumo di suolo e della “rigenerazione urbana” sono cavalcati con foga da quegli stessi attori che sono stati i colpevoli protagonisti degli eccessi. I costruttori hanno capito presto che la crisi del mattone non era congiunturale e risolvibile in termini espansivi, e che non si poteva continuare a edificare in una condizione di esubero produttivo deprimendo ancor più i prezzi. Non a caso l’Ance ha varato da un quinquennio il progetto “Riuso” e ha svolto in questi anni una capillare opera di persuasione nei confronti dei soci, i quali ancora insistono nel chiedere premi volumetrici, non si sa per quale domanda. Ora tutti si sono trasformati, oltre che in ambientalisti sfegatati – Legacoop in testa -, in soccorrevoli samaritani che, in affannosa ricerca di mercato, scoprono l’emergenza abitativa.Sono dunque diventati accesi sostenitori dell’housing sociale, che viene considerato il “principale driver della rigenerazione urbana”, attivabile intervenendo sui “distressed asset delle banche, gli immobili invenduti e le aree pubbliche” (Ance, febbraio 2015): tre punti che riprenderò in seguito. Un programma che, con le riserve che dirò, si potrebbe anche condividere se le formule social housing e “rigenerazione” non fossero tanto compromesse nel linguaggio politico-urbanistico odierno. Sul piano delle dichiarazioni, i politici locali non fanno che ripetere la litania dello «stop al consumo di suolo», ma non fanno nulla per ricalibrare previsioni urbanistiche sovradimensionate dall’euforia degli scorsi anni, e demandano le decisioni alla norma nazionale che non arriva (e forse è anche meglio così). Nel frattempo lasciano agire gli spiriti animali, che solo il calo verticale di domanda contiene. Glossa: sofferenze bancarie e rimanenze immobiliari, la politica urbanistica nel marasma. Il governo dal canto suo vara provvedimenti che, dietro la bandiera delle consuete e ormai stucchevoli retoriche del consumo di suolo, vanno in direzione opposta. Sia lo «Sblocca Italia» che il progetto di legge sui suoli, dopo premesse enfatiche e opinabili tassonomie lessical-metodologiche, propongono una politica urbanistica (così è 1 anche quando è pessima) che rischia di peggiorare il già miserrimo stato dei nostri territori. Ma torniamo sui tre punti sottolineati in precedenza: distressed asset delle banche, immobili invenduti e aree pubbliche ovvero il patrimonio immobiliare pubblico. Si sa da tempo che la crisi ha sedimentato in seno alle banche una grande quantità di immobili, pignorati in parte a cittadini impoveriti ma in prevalenza confiscati alle imprese lanciate in operazioni edilizie fallite per esubero di offerta. Non a caso i principali istituti di credito hanno aperto un filone real estate per smaltire un patrimonio in progressiva svalutazione che grava sui bilanci (suscitando rimostranze ed esposti all’Antitrust dei mediatori che le accusano di concorrenza sleale). Si discute invece molto e in toni drammatici – tanto più dopo Brexit e l’instabilità finanziaria italiana che rischia di implodere – delle sofferenze bancarie e dei crediti deteriorati che le banche hanno accumulato (non è un caso la creazione del controverso fondo Atlante). Sofferenze derivate da capitoli diversi ma entro cui – qui sta il nocciolo – spicca il blocco costruzioni e immobiliare con quasi il 38% dei prestiti deteriorati (dati Banca d’Italia, 2015). Una quota molto importante, che denuncia un’economia sbilanciata, troppo esposta su questo settore. Ecco dunque il primo dei punti sottolineati in precedenza, i distressed asset delle banche: crediti inesigibili e immobili incamerati in pegno. Al secondo punto stanno gli immobili invenduti, edifici nuovi da poco costruiti e rimasti senza acquirente oppure cantieri arenati nella crisi: un argomento noto, ben percepito ma mai misurato, salvo stime diversissime sempre contestate. Anche in questo caso se ne trarrebbero considerazioni svalutative, dunque non conviene conoscerne l’esatto ammontare, che invece potrebbe servire per progettarne un sensato utilizzo: ma sia il governo che le amministrazioni locali si guardano bene dall’impensierire i costruttori. Tuttavia dati eloquenti sulle “rimanenze” – fabbricati classati come merci non vendute – ci vengono dalla Banca d’Italia attraverso l’esame dei bilanci delle imprese di costruzione e immobiliari. Rimanenze che nonostante l’esonero fiscale elargito dal 2013, unite ai debiti incagliano il ciclo edilizio. Sulle aree pubbliche – ultimo dei punti elencati in apertura – la discussione è annosa ma, vuoi per assenza di domanda, vuoi per le difficoltà del credito, vuoi per complicanze burocratiche, gli edifici di proprietà pubblica – in molti casi di grande pregio storico e architettonico – degradano senza utilizzo. Su questi presupposti i costruttori propongono il rilancio dell’edilizia attraverso “programmi complessi” di social housing che, eludendo la pianificazione in atto, possano velocizzare e semplificare le procedure affidandole alla negoziazione, com’è peraltro ormai prassi in Italia. Ma chiedono anche (sintetizzo) incentivi, regimi fiscali di favore, la creazione di fondi immobiliari ad hoc, contributi diretti del Fondo investimenti per l’abitare e, come ciliegina, che gli enti pubblici si facciano garanti della eventuale morosità degli inquilini. Queste richieste sono state esplicitate in un documento inviato al governo la scorsa estate (16 giugno 2016), nel quale si propone la “rottamazione” dei vecchi edifici, e di “rendere gli interventi di demolizione e ricostruzione agevoli, diffusi ed economicamente sostenibili”, di “concepire la sostituzione del patrimonio edilizio come strumento ordinario di intervento sul territorio” e a questo fine di “superare la rigidità delle disposizioni in tema di altezze, distanze, densità edilizia e prevedere una riduzione degli oneri concessori da versare al Comune”. Ancora, si chiede di “incentivare fiscalmente la sostituzione edilizia anche in presenza di aumenti volumetrici” e “detassare i dividendi di chi investe nel capitale di rischio di imprese impegnate in operazioni di rigenerazione delle città”. Tutto questo, naturalmente, in nome della limitazione del consumo di suolo. Si vuole in questo modo rilanciare l’edilizia senza alcun rischio d’impresa o concessione alla città pubblica, stravolgendo la pianificazione, il governo del territorio e le più basilari regole insediative.La “rigenerazione”, panacea di tutti i mali, si svela nei suoi termini reali di “sostituzione”. Un espediente per rimettere in moto la rendita fondiaria accorciando il ciclo edilizio, ossia la durata dei manufatti, che trova spazio per esplicarsi nelle pieghe di città abbandonate al degrado. Glossa: Le relazioni tra mondo immobiliare e banche si rianimano ma continuano a muoversi nella stessa direzione che ha condotto alla crisi. Come target degli interventi di housing vengono individuati “tutti quei soggetti che hanno capacità reddituali tali da non essere assistiti da politiche sociali specifiche, ma contestualmente non hanno le capacità necessarie per perfezionare l’acquisto sul libero mercato”. Esaurite le fasce a reddito medio alto, più smaliziate dopo essere state ben tosate dalla bolla, ora si tenta di coinvolgere i meno abbienti. E qui corre in soccorso con altrettanto slancio il mondo bancario: “vuoi comprare casa ma non hai danaro? non c’è problema, ti diamo il mutuo prima ancora che tu l’abbia trovata!”, ammiccano gli spot televisivi: omettendo, però, che il ritardo nel pagamento delle rate comporta il pignoramento senza provvedimento giudiziario e la vendita diretta, senza asta, al prezzo stabilito dalla banca. Un gran bell’affare, non c’è che dire, che ricorda i nefasti meccanismi di circonvenzione dei mutui subprime. Si tratta di iniziative che hanno ricevuto il necessario avallo governativo, la cui politica abitativa si riduce a una serie di provvedimenti slegati l’uno dall’altro, inseriti in normative diverse, che legalizzano questi giochi pericolosi; mi vengono in mente anche il leasing per la prima casa contenuto nella Legge di stabilità 2016; il cosiddetto “piano casa” del 2014; e un garbuglio di fiscalità differenziate, a volte anche conflittuali, per età, reddito ecc. Le relazioni pericolose tra mondo immobiliare e banche si rianimano insomma, ma continuano a muoversi nella medesima miope direzione che ha condotto alla crisi da sovrapproduzione. Nascono nuovi strumenti che sono da un canto finanziari, per rastrellare risorse nei segmenti più deboli; per altro verso urbanistici, attraverso norme ambigue che lasciano spazio a interpretazioni e traduzioni operative diametrali. Nessuno vuol negare all’edilizia il diritto alla ripresa: sarebbe un vantaggio sotto molti profili, tra cui occupazionali. Tuttavia è necessaria una riconfigurazione del ciclo che non punti sull’edificazione del nuovo, anche se di sostituzione, ma sul restauro del già costruito. Che in Italia alcuni edifici – quelli del primissimo dopoguerra – siano di bassa qualità, vetusti e difficilmente recuperabili, è innegabile: enclave metropolitane macilente (ma in posizioni spesso strategiche sotto il profilo della rendita) la cui riqualificazione può avvenire solo attraverso riedificazione; con tutti i problemi connessi tuttavia di riallocazione dei residenti, in maggioranza anziani e di fasce sociali disagiate, per i quali è beffa proporre il social housing e andrebbe invece impostata una giusta politica di edilizia popolare – in cui l’Italia è collocata ai livelli più bassi d’Europa. Ma il patrimonio edilizio successivo, già a partire dagli anni Sessanta, è in larga misura di buona qualità anche se responsabile del dispendio energetico, causa principale di inquinamento e sperperi. Si preferisce però enfatizzare la costruzione ex novo di pochi edifici smart, a minimo impatto ambientale e classe energetica massima, il cui contributo nel bilancio ecosistemico è nel complesso irrisorio, mentre resta l’indifferenza nei confronti della dispersione, dello spreco e del carico ambientale di tutto il resto della città. Uno strano avvicinamento agli obiettivi europei 20.20.20, che costerà il peggioramento delle condizioni ecologiche e climatiche, oltre che richiami e sanzioni da parte dell’Unione. Glossa: la città energivora dovrebbe invece diventare il principale bersaglio delle politiche urbane. La città energivora dovrebbe invece diventare il principale bersaglio delle politiche urbane, favorendo il restauro, la messa in efficienza energetica e la sicurezza antisimica, anche attraverso misure fiscali che invoglino i piccoli proprietari degli immobili a impegnare il tanto risparmio accumulato in Italia, anziché occultarlo in banche traballanti e partecipazioni azionarie truffaldine. Alle istituzioni poi spetta il compito di garantire sistemi di seria certificazione in grado di capitalizzare gli investimenti in riqualificazioni dei valori. Un indirizzo, questo, che le grandi imprese – il cui processo produttivo è impostato su operazioni di ampia scala – non riescono neppure a concepire: chincaglieria da muratori, troppo distante dalla loro visuale, rinunciando così a innescare un circuito di salvataggio e rivitalizzazione delle tante piccole e medie imprese della loro stessa filiera. Un ruolo di orientamento verso la ecosostenibilità e la creazione di occupazione che dovrebbe appartenere alle politiche delle istituzioni nazionali e regionali, le quali invece, succubi dei grandi poteri economici, favoriscono speculazioni finanziario-immobiliari spesso fallimentari. La rendita è una patologia letale del sistema economico italiano che fagocita le risorse e le confina a ruolo passivo a scapito delle attività produttive, come la crisi sta mostrando. Un’anomalia che la mentalità italiana, alimentata da una popolazione di piccoli proprietari molto conservatori su questo aspetto, non vuole affrontare. Foriera della divaricazione delle condizioni economiche e della concentrazione della ricchezza. Perseverare in questo scompenso producendo ulteriori immobili, anche se da sostituzione, è pericoloso poiché significa aumentare l’offerta che, già sovradimensionata, ha portato al deprezzamento dei valori di un terzo da quelli pre-crisi: una perdita patrimoniale ingente per i cittadini italiani, tanto più per quelli indebitati con mutui. L’eccesso produttivo è oltretutto avvenuto in un regime fiscale che prevede oneri concessori bassissimi, un privilegio accordato ai costruttori ai danni della città pubblica. Con la bolla, mentre i prezzi degli immobili sono aumentati del 60% e i ricavi d’impresa di quasi l’82% (questo l’incremento tra 1997 e 2007: dati Banca d’Italia, 2015), gli oneri sono rimasti al confronto irrisori, e così le capacità di spesa delle amministrazioni locali già prosciugate dai tagli. Anche in Emilia-Romagna è da più di un ventennio che assistiamo a una produzione edilizia sovrabbondante. Un eccesso che si è scontrato con l’esaurimento della domanda di investimento e della propensione al miglioramento della condizione abitativa dei ceti medio-alti che avevano sostenuto il mercato; e che ha procurato lo sperpero di risorse non riproducibili (suolo e materiali) per la realizzazione di fabbricati inutilizzati che sarà difficile e oneroso riciclare, mentre sull’altro versante sociale stride l’emergena abitativa. Le attività edilizie sono soggette dal 1977 a un contributo di costruzione (composto dalla quota costo di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione) che i comuni devono utilizzare per realizzare le opere di urbanizzazione, le quali entrano così nel patrimonio pubblico. Dal 2005 le leggi finanziarie hanno reso possibile impiegarne una quota nelle spese correnti sottraendole agli investimenti. Glossa: peso della rendita e leggerezza degli oneri di urbanizzazione, il caso dell’Emilia-Romagna. A livello nazionale, come segnala Roberto Camagni in un saggio in via di pubblicazione (in P. Lattarulo e A. Petretto (a cura di), Contributi sulla riforma dell’imposizione immobiliare in Italia, Carocci, Roma), tra il 2004 e il 2012 gli investimenti della totalità delle amministrazioni locali sono calati in media del 34%, e nei comuni maggiori (quelli con più di 60.000 abitanti) sono diminuite addirittura del 63%. Si spiega in questo modo il disastroso stato funzionale e manutentivo delle nostre città. In Emilia-Romagna, benché le entrate generate dal contributo di costruzione siano costantemente aumentate (del 30% tra il 2002 e il 2008, gli anni immediatamente pre-crisi), l’incremento era dovuto esclusivamente alla crescita dei volumi edificati, mentre la quota contributiva era ed è rimasta fino a oggi sostanzialmente ferma a quella stabilita dalla Regione nel 1998. L’Emilia-Romagna impone oneri di urbanizzazione che sono tra i più bassi d’Italia. Camagni, ragionando di grandi comuni e di costo al mq, stima a livello nazionale un ammontare medio variabile tra 100 e 150 euro/mq, con Bologna sotto la media (98 euro/mq), Milano a quasi il doppio (244 euro/mq), Firenze a quasi il quadruplo (480 euro/mq). Per quanto riguarda il caso emiliano, dal 2008 al 2011 il 40% circa del contributo di costruzione è stato spostato dagli investimenti alle spese correnti. Tuttavia negli anni più recenti i comuni emiliani, con decisione autonoma, hanno scelto di ridimensionare in maniera molto forte tale travaso, abbassandolo fino all’8% di media regionale (2013). Un dato interessante che mostra una nuova attenzione dei comuni – dettata per certo dall’urgenza – nei confronti delle spese in conto capitale, che vanno cioè a conformare i beni collettivi su cui poggia la città pubblica. La Regione ha operato a questo riguardo una scelta fiscale anomala: non ha provveduto all’attualizzazione degli oneri di urbanizzazione come invece, a rigor di norma, sarebbe dovuto accadere. L’assemblea legislativa, che nel 1998 ha varato norme che ne prevedono l’aggiornamento ogni cinque anni, non ha mai proceduto alla rivalutazione prescritta. Il contributo oggi applicato è ancora calcolato sul medesimo indice revisionale di quasi vent’anni fa, derivato dai prezzi delle “opere edilizie” rilevati dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che tuttavia nel frattempo, seguendo l’andamento del mercato, è quasi raddoppiato (Dcr 4/3/1998, n. 849 e n. 850). Si tratta di una decisione difficile da comprendere. Il decennio 1998-2008, che sarebbe dovuto coincidere con due occasioni di aggiornamento degli oneri concessori, è stato il periodo d’oro della crescita immobiliare, con transazioni aumentate del 63% e costi per l’acquirente finale aumentati del 60%, ma chi ne ha tratto vantaggio sono stati i soli costruttori, che in quel periodo non avevano certo bisogno di incentivi, mentre le entrate pubbliche continuavano a calare. Si è insomma prodotta in parallelo una progressiva e sostanziosa diminuzione di risorse per la realizzazione delle opere di pubblica utilità: scelta, questa, che in Emilia-Romagna ha comportato una perdita di entrate comunali pari a più di 500 milioni di euro. Benché spalmata in 15 anni, si tratta di una cifra tutt’altro che irrisoria. Per avere un metro di paragone, basti pensare che nel bilancio regionale di previsione 2016 sono accantonati 20 milioni per progetti di riqualificazione urbana dei comuni della costa e 17 milioni per le reti infrastrutturali, la manutenzione delle strade e le reti ferroviarie; oppure che mancano 600 milioni per completare la ricostruzione post-sisma. La cifra negata ai comuni è ingente, in una fase in cui faticano a garantire servizi e manutenzioni. E dunque perché il sacrificio di 500 milioni? Se queste risorse fossero arrivate ai comuni anziché donate ai costruttori, l’attività edilizia si sarebbe più armonicamente divisa tra produzione privata e opere pubbliche, evitando le storture oggi evidenti. Glossa: in tema di contributi concessori non bisogna dimenticare i contributi speciali, discrezionali e aggiuntivi, i cosiddetti “extra oneri”. In tema di contributi concessori non bisogna poi dimenticare i cosiddetti “extra oneri”, contributi speciali, discrezionali e aggiuntivi, frutto delle perequazioni dell’urbanistica contrattata. Da anni, sulla base di esperienze maturate all’estero – in Germania in particolare – viene caldeggiata la ripartizione tra pubblico e privato delle plusvalenze prodotte dalle trasformazioni urbanistiche, che in Italia sono a deciso vantaggio dei costruttori: una ripartizione che riconosca la natura pubblica e generatrice di valore dei diritti sui suoli. Il cosiddetto «Sblocca Italia» (l. n. 164, 11.11.2014) è intervenuto su questo argomento delicato e allo stesso tempo dirompente con un codicillo nascosto in un labirinto di altre prescrizioni. Il punto 3, lettera G, del comma 1 dell’articolo 17 stabilisce infatti che il maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso […] calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il Comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al Comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche. È dunque arrivato anche da noi il momento in cui dalla valorizzazione urbana si trarranno risorse per i beni comuni? Il principio della equa ripartizione delle plusvalenze da trasformazione urbana tra pubblico e privato è una novità molto interessante, come anche l’indicazione del soggetto valutatore e delle modalità di riscossione, conservazione e finalizzazione delle risorse acquisite. Il nodo che lascia perplessi è che si condizioni tale ripartizione a negoziazioni in deroga, e che questo sia il grimaldello che ne attesta l’interesse pubblico. Il concetto di interesse pubblico, oggi abusato in urbanistica, è uno strumento duttile e gommoso, il passepartout a giustificazione di qualsiasi intervento che voglia uscire dai paletti fissati dai piani. Qui viene applicato a un preciso impegno che è tuttavia economico e privilegia la convenienza rispetto agli equilibri ecosistemici e territoriali che dovrebbero essere obiettivo delle visioni pianificatorie. In questo modo viene sancito il ribaltamento di ruolo dei comuni: dalla sovranità della pianificazione all’accodamento nei confronti delle scelte private e delle opportunità che ne possono scaturire: una pietra tombale sulla pianificazione e la sua potestà di progetto, una prassi instaurata da tempo che ora viene legittimata. Il pubblico diventa così subalterno agli investimenti privati che, con torsione logica, attestano l’interesse pubblico. Non è chiaro inoltre, nel cambio di prospettiva, se e dove staranno i vantaggi. Il rischio è di acquisire risorse ma perdere di vista il territorio e la sua complessità. Il miraggio delle plusvalenze può diventare un incentivo per i comuni a concedere varianti, anziché un freno. Temo in ogni caso che la convenienza e i vantaggi non siano al sicuro da corruzioni, infiltrazioni, malaffare. In alcune situazioni virtuose il processo riuscirà a svolgersi in maniera trasparente e corretta. Del resto bisogna fare i conti con la realtà italiana, con l’abitudine e l’abilità nel contraffare i dati e traviare i valutatori, e dunque esiste il rischio concreto che le aspettative economiche delle amministrazioni vengano in alcuni casi tradite. Nelle mani di chi non sia ben saldo nella difesa della città pubblica – molto spesso arrendevole alle pressioni dei poteri forti – il comma citato potrebbe rivelarsi uno strumento diabolico: l’auspicio è che il mio pessimismo venga smentito da ferree regole applicative regionali. A conclusione di questo quadro, in cui la città pubblica rischia di cadere in balia di scelte non sempre rispondenti alle sue reali esigenze, ricollegandomi alle considerazioni iniziali sulle ambiguità del linguaggio politico-urbanistico, credo sia urgente trovare un nuovo lessico al posto di quello abusato per avvicinare (almeno un po’) le parole ai fatti o alle intenzioni. Tento qualche sommesso suggerimento. Al posto di “riuso” adotterei, ad esempio, come finalità da perseguire “riciclo”, con le sue implicazioni ecosistemiche, di durevolezza e circolarità. Quando poi si vada a precisarne le modalità, invece di “rigenerazione urbana”, entro cui oggi si comprende e nasconde di tutto, sarebbe preferibile individuare due strade distinte: da un lato il “risanamento del costruito” attraverso ristrutturazione e restauro degli edifici malati di fragilità sismica e di dispersione energetica; e dall’altro un percorso alternativo di “riconversione” quando si tratti invece di riedificazione e sostituzione dei manufatti edilizi vetusti. Denominazioni che, contro gli abbagli della retorica, renderebbero schietto il linguaggio e meno compromissorio lo sguardo sulla città e le sue dialettiche. [*] Paola Bonora insegna Geografia all’Università di Bologna. Tra i suoi ultimi libri, “Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliare” (con P.L. Cervellati, Diabasis, 2009), “Atlante del consumo di suolo” (Baskerville, 2013), “Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado” (Il Mulino, 2015).
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