Giù le mani dalla speranza! [di Veronica Rosati]

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Che fine ha fatto la speranza? Non ha un volto preciso l’italiano che pare averla persa. Può essere giovane o vecchio, operaio o imprenditore, studente o disoccupato. Vive indistintamente a sud e a nord della penisola. Sono una moltitudine di volti sofferenti quelli che lottano ogni giorno con gli effetti più concreti della crisi economica, interrogandosi su ciò che può davvero rimanere di una speranza ridotta ormai in cocci. Si misurano ogni giorno con un vuoto di opportunità e pochi soldi in tasca, in un Paese che pare ce l’abbia messa davvero tutta per annientare nella sua gente la voglia di sognare. Le storie private si scontrano con l’artificialità dei proclami pubblici che narrano, come un disco rotto, di una ripresa in atto.

L’ottimismo si fa sintesi di un sentimento costruito ad hoc, irrispettoso verso il dolore reale e le difficoltà, spesso enormi, delle persone. Il pessimismo, al contempo, degenera in sterile autocommiserazione, interpretabile come consapevole passività verso gli eventi. Si alternano stati d’animo differenti negli episodi delle cronache della crisi. Il pessimismo di chi è stremato dalle difficoltà quotidiane si alterna all’ottimismo forzato che trasmettono i media. Le tinte cupe che vede nel suo futuro un disoccupato lasciano spazio ai colori sgargianti di quello dei politici o di chiunque si ritrova al sicuro, arroccato nei suoi privilegi. I miraggi di cambiamento si susseguono e continuano a sorprenderci, raccogliendo puntualmente la nostra fiducia o, almeno, la nostra curiosità.

Un piccolo esercito ha dato fiducia a Renzi, il giovane uomo del cambiamento. La faccia simpatica e una parlata accattivante si mescolano ad una bozza di programma di rinnovamento idealmente perfetto. Forse non a tutti è davvero chiaro nei contenuti, ma poco importa. Si osserva una classe politica corrotta e totalmente lontana dalla realtà, ma resta un barlume di attivismo di una piccola grande folla che ritiene il giovane sindaco fiorentino l’uomo dell’ottimismo.

C’è un altro esercito a destare l’attenzione comune di queste settimane: i cosiddetti “forconi”. Un multiforme insieme di persone, che manifestano pubblicamente il loro disagio e la loro rabbia verso le istituzioni immobili verso i drammatici problemi del Paese. Non si ritengono rappresentati da alcuno e danno voce al loro malessere scendendo per le strade. Sono accusati di non essere organizzati e di non avere obiettivi precisi e costruttivi. Sono strumentalizzati  da ogni direzione e vittime di infiltrazioni di violenti o di chi cavalca l’onda della rivolta per riscoprirsi  fintamente vicino alla gente, ma poco importa. I “forconi” sintetizzano la sfiducia generale nei confronti di un futuro troppo incerto. Mostrano il pessimismo cupo di chi è rimasto solo.

Dov’è la speranza? È stata uccisa per sempre dal malgoverno e dalle ristrettezze economiche? Sopravvive soltanto nei pochi fortunati o in chi, anche nelle difficoltà, è d’animo forte e di natura ottimista? Il pessimismo è davvero un cumulo di cenere informe e rabbiosa?

Non è niente di tutto questo la speranza. Non è un mero ottimismo. Non è nemmeno guardare in maniera positiva le cose, andando avanti. La speranza, quella vera, è ben altro. Va oltre i concetti di “ottimismo” e dell’opposto “pessimismo”. La speranza è un’attesa attiva di qualcosa di certo. La dottrina cattolica definisce la speranza come una virtù rischiosa, ma sicura. Essa è un’ancora sempre presente nella vita di ciascuno e, allo stesso tempo, è la tensione e il cammino verso di essa. Sperare significa essere consapevoli del senso e della direzione verso cui la nostra vita deve andare.

I decenni del benessere, seguiti al boom economico, hanno portato un’ubriacatura di significato, con una sfaccettata ricchezza bastante a se stessa. In quegli anni, sperare significava pretendere che questo stato fosse duraturo. Vagando sulle macerie di quell’Italia scopriamo ora un infinito senso di vuoto, poiché non era quella la speranza. Vogliamo rifondare il senso di quell’ancora preziosa non soltanto per il cristiano, ma per chiunque desidera uscire dal torpore dell’assenza di certezze materiali.

È rischioso scommettere su qualcosa che non abbiamo ora fra le mani, ma è proprio da questo che è necessario ripartire. L’assenza di opportunità, il caos delle piazze o dei talk show televisivi fanno confondere i diritti con i privilegi. Abbiamo un disperato bisogno di solidarietà, più che di fazioni contrapposte, di strade condivise più che di un’indeterminata moltiplicazione di simboli di partito.

In una città qualunque si può incontrare il giovane disoccupato. Ha smesso di infervorarsi contro le categorie obsolete di chiunque narri problematiche e possibili fatue soluzioni ai suoi mali e a quelli di un’Italia che non ha più voglia di essere raccontata. Costui rinnova la sua speranza ad ogni colloquio di lavoro. Forse è troppo giovane o troppo vecchio, oppure troppo qualificato. Magari è stato scartato in quanto donna o, come nei più classici dei racconti di quest’Italia sempre uguale a se stessa, non ha nessun amico o parente illustre.

Forse il suo volto è quello di un padre di famiglia che alimenta, giorno dopo giorno, le proprie speranze di un futuro migliore guardando i propri figli negli occhi. Terrà stretta la loro mano finché potrà. Darà tutto se stesso affinché crescano nell’amore e nel rispetto reciproco, poiché hanno diritto, in ogni luogo ed epoca, alla felicità.

Sì, a questo padre importano i programmi politici e i fatti concreti, ma non permetterà mai a nessuno di strumentalizzare o infangare la sua speranza.

*Laureata in Filosofia morale, coltiva la passione per gli studi di Teologia. Vive a Trento

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