Un anno ribelle [di Niccolò Locatelli]

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Limesonline 30/12/2016. Dal Brexit alla Turchia, dalla Colombia a Trump, dalla Corea al Venezuela, un 2016 all’insegna della rivolta lascia in eredità un mondo molto più instabile del previsto. Il 31 dicembre 2016 si chiude un anno ribelle. La ribellione verso bersagli diversi – (candidati a) presidenti, accordi di pace, permanenza nelle istituzioni internazionali, migranti – e in varie forme – impeachment, colpi di Stato, referendum, elezioni o rinvio delle stesse – è stata il filo conduttore dell’anno che volge al termine.

L’evento più importante dell’anno, perché potenzialmente più gravido di sconvolgimenti futuri, è stato il referendum non vincolante del 23 giugno sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La vittoria a sorpresa del Brexit è la ribellione di un paese dimenticato contro Londra, intesa come città e come City. Ad eccezione dei tabloid, di Ukip e dell’allora minoranza Tory, i potentati economici e politici britannici si erano esplicitamente schierati a favore della permanenza nell’Ue. Il 23 giugno è diventato chiaro che le priorità e le paure della periferia dell’Inghilterra sono diverse se non opposte a quelle di Scozia, Irlanda del Nord e del centro finanziario di un Regno ormai unito solo di nome.

Il voto pro Brexit ha avuto come conseguenza immediata il cambio di governo e l’apertura di una fase di assoluta incertezza sul ruolo della Gran Bretagna in Europa e nel mondo. Incertezza che deriva anche dai dubbi su procedure, tempi e risultati del divorzio dall’Ue, in assenza di precedenti. Questo limbo non permette di risolvere le preoccupazioni politiche che hanno determinato il voto, essendo Londra vincolata alle regole Ue sino a quando ne fa parte; né beneficia un’economia che si è conservata tra le maggiori al mondo dopo la deindustrializzazione puntando proprio sull’interazione con il resto del mondo, a partire dal Vecchio Continente. Da luglio, il governo di Theresa May non è stato in grado di elaborare una strategia chiara e coerente per lasciare l’Ue, forse perché la missione è impossibile. Data la natura non vincolante del voto del 23 giugno, una sua difficile ed elettoralmente costosa sconfessione non può essere esclusa.

Essa non cancellerebbe l’importanza della vittoria del Brexit alle urne: il referendum ha rotto l’imbattibilità dell’establishment (termine con cui si indicano qui il governo in carica o Hillary Clinton, su cui torneremo), inaugurando una tendenza che si sarebbe ripetuta il 2 ottobre in America Latina.

Il rifiuto del primo accordo di pace siglato tra il governo della Colombia e la guerriglia marxista-leninista delle Farc ha in comune con il Brexit la natura non vincolante della consultazione e le sue radici estranee al tema della consultazione. Il plebiscito colombiano (caratterizzato da un’affluenza inferiore al 38%, colpa anche delle piogge) è stato in parte un voto contro le misure impopolari decise da Santos. Presa nota della sconfitta – e vinto comunque il Nobel per la pace – il presidente è riuscito a negoziare un nuovo accordo con le Farc, troppo deboli per non accettare la fine delle ostilità. Una ribellione contadina degenerata in guerriglia terrorista e narcotrafficante si chiude così dopo circa 6 decenni. La Colombia può ora curarsi le ferite e affrontare i problemi irrisolti che non avevano a che fare con le Farc.

Il 24 giugno a festeggiare il Brexit era arrivato per affari in Scozia (dove ha vinto il Remain) l’allora aspirante candidato alla nomination repubblicana  per la presidenza degli Stati Uniti Donald Trump. La sua vittoria – prima contro i rivali repubblicani, poi contro Hillary Clinton – alle elezioni dell’8 novembre rappresenta una ribellione sotto molti punti di vista.

Contro le regole consolidate delle campagne elettorali Usa, in base alle quali di solito vince chi ha il portafoglio più ricco e lo staff più nutrito. Contro una candidata troppo legata a Wall Street e già troppo potente (si veda la vicenda del server privato di posta elettronica), percepita come parte dell’establishment più del suo avversario ed ex finanziatore, che pure è un miliardario newyorkese. Soprattutto, contro una visione favorevole della globalizzazione e dei grandi accordi di libero mercato annoverati da The Donald tra i principali responsabili della crisi economica che ha colpito gli Stati “operai” del paese – quelli che gli hanno dato la vittoria: Wisconsin, Michigan, Ohio, Pennsylvania. Vedremo dal 20 gennaio 2017, giorno dell’insediamento della nuova amministrazione, quanto della retorica incendiaria che gli è valsa la Casa Bianca si trasformerà in atto.

Le priorità geopolitiche della presidenza Trump sembrano chiare: disgelo con la Russia, rinegoziazione dei trattati commerciali a partire dal Nafta, riavvicinamento a Israele (nella forma, visto che nella sostanza è filato tutto a gonfie vele anche sotto Obama) e contemporaneo allontanamento dal resto del Medio Oriente, minore indulgenza nei confronti degli alleati free-rider (europei della Nato, Giappone, Corea del Sud, sauditi), sfida alla Cina partendo dal fronte economico. Un Congresso a maggioranza sì repubblicana ma non trumpiana e la vasta rete degli apparati decisivi al concretamento della politica internazionale degli Stati Uniti non condividono tutti i punti dell’agenda di Trump: ove necessario, faranno quel – molto – che possono per ostacolarlo. A cominciare dal riavvicinamento a Mosca, che anche l’amministrazione uscente di Obama sta cercando di complicare.

Un’altra ribellione che ha segnato il 2016 è quella infruttuosa dei generali turchi (gulenisti e laici) che la sera del 15 luglio hanno cercato di rovesciare Erdogan. Il fallimento del colpo di Stato non ne pregiudica l’importanza, anzi: gli eventi di quella notte di mezza estate hanno fornito al presidente turco il pretesto per un repulisti dei militari e della società civile che a giudicare dall’ampiezza era pronto da tempo, oltre a sancire il definitivo riavvicinamento a Putin, in atto già da prima e non scalfito a fine anno dall’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia.

La malcelata simpatia dell’Occidente (a cominciare dagli Usa, che ospitano l’ex sodale di Erdoğan, Fethullah Gulen, dal 1999) verso i golpisti nelle ore del putsch ha ulteriormente spinto Erdoğan verso Mosca. Nella consapevolezza che l’intesa con quest’ultima può avere carattere tattico ma non strategico e che non avrebbe senso scindere i legami con l’Unione Europea, soprattutto sino a quando quest’ultima continuerà a foraggiare con miliardi di euro la chiusura del rubinetto dei profughi siriani. Nè avrebbe senso per Ankara uscire dalla Nato.

Nel 2016 la ribellione contro il presidente siriano Bashar al-Asad  ha compiuto 5 anni. In questo lustro si è trasformata in una serie di guerre che hanno spezzato il paese, assegnandone porzioni di sovranità ai vari attori internazionali che combattono o sostengono Damasco. Il cessate-il-fuoco concordato da Russia e Turchia dopo Natale, se reggerà, esemplifica un contesto in cui le decisioni più importanti sulla Siria vengono prese all’estero  e rispondono a interessi esteri. L’anno si chiude con la riconquista lealista di Aleppo e la resilienza dello Stato Islamico, che rimane uno spauracchio utile a giustificare interventi “contro i terroristi” anche in aree (della Siria e del mondo) dove i miliziani fedeli ad al-Baghdadi non si sono mai visti. O si sono visti poco, come in Libia.

La Germania non è tra i paesi in prima linea contro il Califfato, eppure quest’anno è stata ripetutamente colpita da suoi adepti. Il 2016 tedesco si era aperto con gli oscuri fatti di Colonia ed è proseguito all’insegna di micro-attacchi jihadisti, fino alla strage di Berlino del 19 dicembre. Parallelamente è cresciuta la popolarità elettorale di Altrnative fur Deutsc hland, che si oppone alla politica di Angela Merkel sull’immigrazione; la cancelliera è ancora la favorita in vista delle elezioni del 2017, ma la parziale apertura ai richiedenti asilo da Nordafrica e Medio Oriente è tra i motivi (assieme all’economia) delle debacle della sua CDU/CSU in alcuni Länder.

Quasi ovunque nel Vecchio Continente, la ribellione verso l’afflusso dei migranti si è trasformata in sfida alle norme europee che ne regolano l’accoglienza. L’euroscetticismo ha vissuto forse il suo anno migliore , complice il Brexit. Il tema della permanenza nell’Ue e/o nell’Eurozona alimenterà il dibattito alle prossime elezioni in paesi cruciali quali la Francia, l’Italia e i Paesi Bassi. Sui migranti è andato controcorrente un paese extra-Ue come la Svizzera, che ha annacquato il risultato del referendum del 2014 “contro l’immigrazione di massa”, anteponendo gli interessi economici del paese alle spinte della popolazione avversa ai lavoratori stranieri e ai frontalieri compresi.

In America Latina ha avuto successo la ribellione del Brasile di sempre – oligarchia mediatica, industriale e politica – contro Dilma Rousseff, allontanata dalla presidenza tramite impeachment. Il vero obiettivo non era tanto una presidente debole e impopolare, quanto il suo predecessore Lula, avversario temibile per chiunque alle elezioni del 2018. Questi è ora coinvolto in uno scandalo di corruzione che potrebbe avere una magnitudo pari a quella di Tangentopoli, decapitando i principali partiti del principale paese latinoamericano. Paese che nel frattempo, complice il calo dei prezzi delle materie prime e l’effettiva mala gestione economica di Dilma, ha smesso di crescere. Come Mauricio Macri in Argentina , l’attuale capo di Stato Michel Temer ha intrapreso una prevedibile svolta neoliberista e filostatunitense, allontanando Brasilia dal Venezuela di Maduro.

A coronamento di un anno terribile, all’insegna dell’iperinflazione, della recessione e delle violazioni costituzionali (con il rinvio delle elezioni regionali e la sospensione del referendum revocatorio sul presidente della Repubblica), l’erede di Chávez si conquista una menzione in questa rassegna come eccezione alla regola: è infatti il simbolo di un movimento ribelle che, fattosi establishment, non ha alcuna intenzione di lasciare il potere. E sinora sta riuscendo a conservarlo, a costo di mandare il paese in un default politico, sociale e forse presto finanziario. Maduro quest’anno ha perso, oltre ai suoi più importanti alleati in Sudamerica, il secondo padre spirituale della rivoluzione bolivariana.

Ribelle fino alla presa di L’Avana (gennaio 1959), Fidel Castro ha rivoluzionato la geopolitica di Cuba. Capitalizzando la posizione geografica cruciale di un’isola altrimenti priva di risorse significative, il  Líder Máximo ha sfruttato la guerra fredda e l’avversione degli Usa verso il suo regime per procurare al suo paese un mecenate che ne finanziasse le politiche (prima l’Unione Sovietica, poi il Venezuela) e gli garantisse un ruolo sulla scena internazionale di gran lunga superiore al previsto. Di fronte alla crisi di Caracas e alla timidezza politica della Cina in America Latina, il riavvicinamento agli Stati Uniti – criticato da Fidel – appare nell’interesse del regime, soprattutto se (come è stato con Obama) non sarà vincolato a significative concessioni in senso democratico. Ma scomparsa del Castro maggiore, da tempo spogliato delle cariche di governo, ha un valore prevalentemente simbolico.

Mentre Myanmar continua all’ombra di Aung San Suu Kiy la transizione verso la democrazia e Xi Jimping in Cina continua a rafforzare il proprio potere, due ribelli hanno richiamato l’attenzione mondiale sull’Asia Orientale. Uno è Rodrigo Duterte, eletto a maggio presidente delle Filippine: figura di rottura nel suo paese, vorrebbe essere altrettanto dirompente negli equilibri geopolitici del quadrante est-asiatico. A prescindere dai rapporti commerciali con Pechino, Manila è legata militarmente agli Stati Uniti da oltre sei decenni e rinunciare all’assistenza di Washington non è così facile; il disgelo con la Repubblica Popolare Cinese anche sulle isole contese) può essere una pedina negoziale, ma Duterte stesso sembra consapevole dei limiti del suo raggio d’azione.

L’anno ribelle è iniziato con il quarto test nucleare nordcoreano. La ribellione in questo caso è contro lo status quo: l’isolamento internazionale in cui il regime di Kim Jong-un è stato (auto)confinato e il mezzo per romperlo è l’ingresso di P’yongyang nel ristretto club delle potenze atomiche. Con la Bomba, Kim punta a garantirsi la sopravvivenza e a costringere al dialogo gli Stati Uniti, anche in virtù dell’impazienza della Cina verso le intemperanze del giovane despota. Dalla penisola coreana arriva anche una delle ultime crisi dell’anno: riguarda però il Sud, la cui presidente Park è sotto impeachment.

Dal Galles a Manila, dal Michigan ad Ankara, da Caracas a P’yongyang, l’anno ribelle ha aggiunto instabilità alle difficoltà strutturali vissute dalle principali potenze del pianeta, aprendo scenari inimmaginabili a fine 2015.

Si annuncia interessante, l’anno che verrà. Il 2011 era stato indimenticabile; il 2012, di transizione; il 2013, rivoluzionario; il 2014, l’anno delle divisioni; il 2015, l’anno del terrore. Con questa puntata, Il mondo oggi va in ferie sino al 9 gennaio 2017 (a differenza dei suoi autori). Anche a nome di Federico Petroni e di tutti i collaboratori di Limesonline, grazie di cuore per l’attenzione e tanti

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