La Post Verità. Oggi i social offrono a tutti la possibilità di veicolare bugie [di Gherardo Colombo]

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La Collina Anno X. N.1 Gennaio-Marzo 2017. Prima la Brexit, poi la sfida Trump-Clinton: mai come nel 2016 si è tanto parlato di una politica dominata dalla post verità. Ossia, di una comunicazione fondata sull’arte della menzogna dove la verità ha un’importanza secondaria. Nulla di nuovo, in realtà. Anzi: tanto di vecchio. E allora sfugge il motivo per cui il dibattito sia deflagrato negli ultimi mesi.

In tempi passati sono scoppiate guerre che avevano cercato una legittimazione in notizie false. Basti pensare all’attacco in Iraq, giustificato dall’Occidente col possesso di armi chimiche che, invece, Saddam Hussein non possedeva affatto, come successivamente è stato provato. Ma, andando a ritroso, si trovano anche  altre vicende analoghe.

Del resto, la prospettazione di situazioni diverse dalla realtà (parola impegnativa, meglio sarebbe parlare di ricostruzione dei fatti e descrizione delle persone in modo diverso) è stata spesso sfruttata nel corso della Storia, addirittura preordinata per giustificare certi comportamenti. Come non ricordare il processo a Gesù, oltre duemila anni fa? Però: una novità rispetto al passato oggi c’è, ed è questa: in generale la propagazione di notizie infondate per rappresentare una falsità come verità, in un’epoca storica in cui –  formalmente- si era tenuti a dire la verità, era nelle possibilità di pochi che avevano i mezzi per veicolare la menzogna.

Oggi quella possibilità è nelle prerogative di tutti. Perché tutti hanno il mezzo – la rete, internet, i social network – per divulgare la propria bugia. Trump mente durante la campagna elettorale descrivendo Obama come il fondatore dell’Isis e la sua rivale nella corsa alla Casa Bianca come un’assassina, ma non posso dire se Hillary Clinton sia stata sempre veritiera.

La rete non ha fatto altro che moltiplicare all’infinito le falsità di una sfida politica tra le più importanti al mondo. Allo stesso modo, però, la rete è in grado di moltiplicare all’infinito le bugie  di un perfetto sconosciuto.  Dunque, la novità, sta nel mezzo che diffonde la menzogna: l’arte di mentire  è stata denunciata perfino dai classici latini e greci, Fedro, Esopo, la  favola della volpe e l’uva.

Non solo: a prima vista la politica della post verità sembrerebbe perfino incoraggiata dai social media che consentono la diffusione velocissima di ogni informazione, senza filtro. Ma anche prima di internet i potenti avevano la possibilità di divulgare false verità. E allora la differenza è un’altra: quella che fino a pochi anni fa era una prerogativa di una parte della società, quella che deteneva il potere, ora è di tutti. E così si consolidano false verità attraverso la ripetizione massiva sui social. Basta scrivere una cosa che viene rilanciata. Insomma: la menzogna è sempre stata di tutti, quel che è cambiato è la possibilità di diffonderla. Prima era di pochi, ora è di tanti.

E sono pure tanti quelli disposti a credere alle bufale: questo succede perché chi naviga in rete ha più fiducia verso gli altri internauti rispetto ai media tradizionali. C’è oggettivamente un pregiudizio diffuso nei confronti dei giornali e dei mezzi di comunicazione di massa che non è  sempre infondato. Quel che sorprende, piuttosto, è la grande fiducia nella comunicazione diretta. E se è vero che anche  i giornali a volte propagano le notizie più improbabili, la rete celebra il festival dell’improvvisazione. Risultato: uno scollamento tra obiettività e impressione molto più visibile e percepibile rispetto al passato.

Come uscirne?  E’ abbastanza difficile. Anche qui: è una questione di cultura, di educazione, di relazione, con se stessi e con gli altri. Fintanto che siamo indirizzati ad avere un rapporto di sfiducia nei confronti degli altri verso i quali siamo prevenuti, perché il pensiero dominante è che la finalità altrui sia sempre e solo quella di danneggiarci, finché insomma non si praticherà la dialettica del riconoscimento sarà difficile superare l’impasse. Ci vuole impegno. Impegno educativo. Ecco perché  è ormai imprescindibile l’educazione digitale nelle scuole. E’ addirittura banale: tutte le volte che un mezzo è facilmente utilizzabile bisogna insegnare a usarlo.

Perché non solo le menzogne  corrono veloci sul web ma anche la violenza. L’episodio accaduto a Muravera, in provincia di Cagliari, all’inizio dell’autunno, è solo l’ultimo caso: una ragazzina ha freddamente insultato, minacciato, picchiato, umiliato una sua compagna all’uscita da scuola davanti a decine di coetanei che hanno assistito senza dire né fare nulla. Anzi: hanno ripreso la violentissima scena col telefonino per poi postare il video su Facebook. In un giorno quel video ha totalizzato oltre 4 milioni di visualizzazioni.  Ossia: la rete ha comunicato un messaggio di umiliazione  a 4 milioni di persone. E i giornali?

Con le sacrosante regole a tutela dei minori  hanno schermato i volti e omesso i nomi. Ma i loro articoli hanno raggiunto alcune centinaia di migliaia di persone. Cinquecentomila lettori ai quali la notizia è stata portata senza che la vittima subisse evidente violenza ulteriore, contro i 4 milioni che hanno visto tutto in rete senza filtri.  Ha un senso, purché i giornali prendano posizione. Ma, attenzione: non con un predicozzo, che non serve a niente, bensì con la costruzione di un messaggio che porti a condividere, a sentire come proprio il dolore inferto alla vittima.

Quel che è passato attraverso quei 4 milioni di utenti Facebook non è un racconto per parola  ma per immagini. I media tradizionali, giornali e tv,  devono attrezzarsi e saper fare la stessa cosa per veicolare il messaggio contrario, che la violenza, invece di essere qualcosa di cui vantarsi, è qualcosa di cui vergognarsi.

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