John Berger. Guardare scrivere resistere [di Marco Belpoliti]

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la Repubblica, 3 gennaio 2017. La sua ultima opera pubblicata in Italia s’intitola “Smoke” (Il Saggiatore) ed è un libretto che contiene una sola lunga frase accompagnata dai disegni di Selçuk Demirel, dove John Berger, accanito fumatore, tesse le lodi del fumo quale gesto condiviso, comunitario e non (come accade oggi), passione solitaria e individualista.

Niente può essere più politicamente scorretto di un libretto così in tempi di proibizionismo, niente fa meglio capire immediatamente chi sia stato John Berger morto ieri poco più che novantenne. Un intellettuale controcorrente, prima di tutto. Ma anche un autore poliedrico, appartenuto alla generazione di Pier Paolo Pasolini e Roland Barthes, che si è interessato di arte, letteratura, poesia, filosofia, che ha praticato la pittura e il disegno, che ha scritto opere narrative come saggi sulla fotografia, su Picasso su Giacometti, su tutto ciò che gli uomini hanno fatto nel corso degli ultimi due secoli.

Ha cominciato come pittore, dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni Quaranta, ma subito ha preso a scrivere recensioni di mostre e a occuparsi d’arte sui giornali, passando poi a opere narrative (come G., 1972, vincitrice del Booker Prize) ed essendo nel contempo un militante di sinistra. Per lui vale una frase di Elsa Morante che una volta ha definito lo scrittore come «un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura».

Nessuno scrittore contemporaneo ha incarnato perfettamente quel “tutto” più di Berger. Se c’è un’espressione che può definire lo scrittore inglese – era nato a Londra nel novembre del 1926 – è “forme d’attenzione”: qualcosa che viene prima ancora dello stile che hanno i suoi scritti o le sue opere visive, perché Berger si è interrogato su tutto ciò che cadeva dal suo sguardo, fosse un quadro o un ritaglio di giornale, un luogo o un oggetto, una persona oppure un albero.

Guardare è stata la sua attività principale, che si è compendiata in un libro straordinario nato da una trasmissione televisiva della Bbc, Ways of Seeing da lui curata nel 1972, da cui nasce il libro Questione di sguardi (Il Saggiatore), opera seminale che ha avuto una grande importanza per la generazione degli scrittori venuti dopo, come ha raccontato Geoff Dyer, a sua volta scrittore, saggista e curatore di un altro volume di Berger, Capire una fotografia (Contrasto).

Berger è stato con Roland Barthes e Susan Sontag il saggista che ha scritto i più importanti testi sulla lettura delle fotografie. Il suo modo di guardare il mondo, gli uomini e le loro opere, qualunque esse siano, da un covone di grano a un quadro a olio, ha la prerogativa di non incagliarsi nei luoghi comuni, ma di fare di continuo critica sociale, mettendo in discussione i presupposti visivi della cultura contemporanea. Berger, che è stato uomo di sinistra, comunista, nel senso marxiano del termine, non è mai stato ideologico, sia quando devolveva i ricavati di un suo romanzo alle Pantere nere, sia quando incontrava il subcomandante Marcos.

Quando negli anni Settanta è andato poi ad abitare a Quincy, il piccolo villaggio alpino di ottanta anime, l’orizzonte della sua visione si è ristretta e insieme allargata. Ha cominciato a guardare le opere che entravano nei suoi libri ( Sul guardare e Sacche di resistenza) con lo sguardo di un uomo nato e vissuto in quello sperduto paesino e insieme con la densità culturale di un grande studioso. Per capire l’atteggiamento assunto da Berger nella sua scrittura sia letteraria che saggistica basta citare un piccolo scritto intitolato Fra due Colmar.

Nel 1963 si reca a Colmar per vedere la pala di Grünewald. Siamo alla vigilia delle rivolte giovanili e operaie che scuoteranno  l’Europa e l’America. Vi torna dieci anni dopo, nel 1973, in un clima che lo scrittore giudica di sconfitta dell’utopia del Sessantotto. Mentre è lì improvvisamente il sole esce da dietro le nubi. Berger coglie in quel momento, grazie a quella luce improvvisa, che l’opera è stata dipinta con «la luce fiammeggiante delle tenebre».

Scrive: «La speranza attrae, irradia come un punto a cui vogliamo essere vicini», mentre «il dubbio non ha centro, è ubiquo». Sono frasi come queste, forme di attenzione suscitate da qualcosa che è fuggevole, a dare alla sua prosa e al suo pensiero una forza straordinaria.
Sia che abbia scritto romanzi come G. del 1972 o Lillà e Bandiera (Bollati Boringhieri) del 1990, sia che abbia composto raccolte di saggi come Sul disegnare (Scheiwiller), l’onestà di Berger è sempre stata la caratteristica principale del suo lavoro, dove “onestà” non ha un significato morale bensì estetico: onestà come onore, che si ottiene nella strenua lotta con se stessi, prima di tutto, con quel mondo che è ogni vero artista.

La sua costanza è stata quella del conflitto, della eterna collisione con il mondo e con le cose, perché solo dalla lotta emerge l’intensità del dire e la coerenza non è mai un punto di partenza quanto di arrivo.

Berger è convinto di aver trovato tutto questo nel disegno, nel “segnare intorno”, come dice l’etimo della parola. Dipingeva e disegnava per essere intenso e coerente, non tanto e non solo per esprimersi, così come amava andare in motocicletta, disegnando strade e percorsi attraverso l’Europa, continente di cui è stato uno dei più importanti intellettuali nell’epoca in cui le persone come lui sembrano in via di sparizione.

 

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