Anche la lingua è un monumento [di Maria Antonietta Mongiu]

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Cosa sarebbe Cagliari se non la associassimo a quel parlare strascicato quanto indolente, sempre sull’orlo del disincanto e della beffa che si sente, come sottofondo in tram o facendo la fila per un ticket?  Cosa sarebbero i suoi mercati, luoghi intatti nel loro senso profondo, specie quelli del pesce, che spodestati dal centro della città se la sono ripresa tutta.

La restituiscono in un corale caleidoscopio di grida dalla fonè fantasiosa  “perché la lingua non è completa in ciascuno; essa non esiste perfettamente se non nella massa” scrisse Ferdinand de Saussure. E’ la stessa lingua che connota con tanta evidenza Cagliari e che oltrepassa il tempo e lo spazio socialmente organizzato per farsi forma stessa della città. Di conseguenza questa come la sua lingua deve essere necessariamente preservata ancor più delle singole tessere da cui è composta, per quanto rilevanti e preziose.

Ne era pervicacemente convinto Pier Paolo Pasolini che nella costruzione della forma della città, come in quella della sua lingua, intravvedeva persone e generazioni che si era incessantemente succedute nel costruire un capolavoro. Non un simulacro di monumenti ma di anonime storie stratificate su questi come sui cocci senza firma.

Il racconto della forma urbis non può dunque essere solo un affare di topografie e di ubicazioni. Più spesso è vicenda di assenze e di interstizi insignificanti; di periferie e di esclusioni. Questo di Cagliari Sergio Atzeni aveva iniziato a dire. Maestro era stato Pasolini, più di urbanisti e progettisti che dall’Ottocento hanno intrapreso a stravolgere Cagliari dimenticando il primato della forma. Complici molti amministratori.

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