Si può parlare sul sardo, da sinistra? Certo che sì [di Giovanni Scano]

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Sviluppo e progresso non sono sinonimi, come diceva Armando Cossutta negli anni Settanta. Se per sviluppo si intende la semplice crescita degli indicatori economici. Perché vi sia progresso ci deve essere anchemiglioramento della qualità della vita. Per un po’ di tempo, con la politica dei piani di rinascita, questo in Sardegna c’è stato.

Poi però i nodi sono venuti al pettine. Non poteva durare a lungo un’industria basata su materie prime di importazione. E per di più con l’abbandono o quasi di quei settori che fino ad allora avevano costituito l’economia della Sardegna: agricoltura e pastorizia. L’attività mineraria è stata redditizia finché si era in regime di autarchia, in parte forzata, a causa delle sanzioni contro l’Italia da parte della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Dopo la guerra è diventata antieconomica.

La soluzione poteva essere, e ancora è, secondo me, nello sviluppo razionale, programmato dell’agricoltura e di un’industria agroalimentare ad essa collegata. Tutto dovrebbe avvenire nel rispetto dell’ambiente e della natura. Non dobbiamo chiedere alla terra più di quanto la natura è in grado fisiologicamente di riprodurre. Se si riuscisse anche a organizzare la commercializzazione dei prodotti, sarebbe un’ottima cosa. Ciò dovrebbe costituire la base economica strutturale per poi allargare il discorso al turismo, all’artigianato, alle attività culturali e a tutto ciò di cui ha bisogno una società sviluppata e progredita.

Negli anni Sessanta e Settanta il sardo era la lingua dei ceti popolari. L’italiano lo usavamo solo a scuola e anche a scuola solo per parlare con gli insegnanti. Non ci si vergognava affatto di esprimerci in sardo. Un po’ avveniva il contrario. Quei pochi che erano stati fuori dal paese per qualche tempo per vari motivi, magari in collegio, in seminario, … quando tornavano parlavano in italiano. Ma era sufficiente qualche giorno perché riprendessero a parlare in sardo. Altrimenti sarebbero stati emarginati. Magari qualche genitore avrebbe voluto che i figli parlassero solamente italiano, abbandonando il sardo. Per distinguersi dagli altri. Questi pensavano che ciò fosse indice di progresso e di modernità. Ma anche allora i figli non sempre facevano la volontà dei genitori.

Ricordo il caso di un bambino che era nato in Belgio, a Charleroi, da genitori sardi: il padre del mio paese, la madre della Gallura, mi pare. Arrivato in paese che aveva sette/otto anni, parlava un miscuglio di italo-franco-belga. Io ero allora in prima media e cominciavo a studiare francese. Così ogni tanto gli chiedevo qualcosa. Ne sapeva comunque più di noi. Dopo qualche tempo parlava perfettamente in sardo come tutti noi.
Coi miei genitori ho sempre parlato sardo, senza eccezione alcuna. Ciò non vuol dire che non mi incoraggiassero a studiare, senza assillarmi troppo, per la verità. Loro proponevano, nei limiti, molto ristretti, delle loro possibilità: la decisione spettava a me, anche quando non ero ancora maggiorenne.

Si limitavano a spiegarmi che saper leggere e scrivere, allora si diceva ancora così, significava essere liberi, non dover pregare nessuno per leggere o scrivere una lettera, per esempio. Mio padre in particolare mi diceva che così sarei stato meglio in grado di conoscere i miei diritti e di poterli difendere. Lui faceva su giorrunnaderi e si occupava un po’ di sindacato. Così credo di aver imparato bene l’italiano, come lingua veicolare, in pratica. Ma tutte le lingue un po’ lo sono. Il sardo è rimasto, ovviamente, la mia lingua materna.

Il sardo è una lingua come tutte le altre. Né migliore, né peggiore. A noi piace di più perché è la nostra. Ma la stessa cosa può dire chiunque, quale che sia la sua lingua.

In campo linguistico non possono esserci verità rivelate. Le regole non possono essere che convenzionali. La legittimazione è data dall’uso. Ci sono parole che nascono e parole che muoiono. Lingue che nascono e lingue che muoiono. Anche la definizione terminologica tra lingua e dialetto è alquanto arbitraria. È anch’essa una verità convenzionale. Anche a tale riguardo vi sono delle contraddittorietà. Per esempio: se ci basiamo sull’opinione prevalente tra gli studiosi del settore, il sardo (inteso come l’insieme delle parlate logudoresi e campidanesi) è una lingua e l’olandese no, è un dialetto tedesco; se ci basiamo sul fatto che sia la parlata di uno stato nazionale, l’olandese è una lingua e il sardo no. Per cui, entro certi limiti, tutto può essere discutibile.

La funzione fondamentale della lingua è la comunicazione. A tutti i livelli. Tutto il resto è secondario. Il messaggio è al centro della comunicazione. La lingua è lo strumento, il veicolo. Naturalmente, progressivamente a scalare, anche tutti gli altri aspetti della lingua hanno la loro importanza. Riguardo al sardo scritto, ritengo che sia ancora tutto, o quasi, da inventare. Per quanto ne so io. Come si è fatto in passato per tutte le lingue, credo si debba partire dalla trascrizione della lingua orale.

All’inizio i due codici, quello orale e quello scritto, coincideranno. Poi, piano piano, come è avvenuto per tutte le lingue, tenderanno gradualmente a differenziarsi. In quanto la lingua orale tende a evolversi più rapidamente mentre la lingua scritta è tendenzialmente più conservatrice e segue maggiormente le regole. È per questo che l’inglese scritto ci appare molto diverso rispetto alla pronuncia e la stessa cosa possiamo dire del francese. In maniera differente tendono ad apparirci l’italiano e il russo di cui spesso diciamo, noi soprattutto per l’italiano, che si leggono come si scrivono.

Le trascrizioni che abbiamo dei secoli passati sono state influenzate (troppo) dal catalano, dal castigliano e dall’italiano. Per cui hanno valore come documenti storici ma non possono costituire, secondo me, una base per il futuro ipotetico sardo scritto. Per questo, bisogna partire dalla lingua orale.

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