“Italian Beauty”, il mondo di Bellini [di Luca Gibello]
Il Giornale di Architettura 15 gennaio 2017. Intervista a briglia sciolta con Mario Bellini in occasione della mostra retrospettiva alla Triennale: tra allestimenti, progetti, magistero, longevità, sostenibilità, futuro, Milano, cultura e informazione… L’energia non gli manca, la lucidità tanto meno. Mario Bellini è un giovanotto alla soglia degli 82 anni, passato in quasi 60 anni di carriera internazionale attraverso il design, gli allestimenti, le architetture, i progetti urbani alla grande scala. Ora, dopo tante mostre allestite per altri, a trent’anni dalla retrospettiva dedicatagli dal MoMA – che nel 1972 lo aveva consacrato alla ribalta internazionale con la provocatoria “Kar/a/sutra” all’interno dell’indimenticabile rassegna “Italy. The New Domestic Landscape” – si trova alle prese con la messa in scena del suo mondo di riferimenti, pensieri, progetti e opere negli oltre mille metri quadri al piano terra del Palazzo dell’Arte. Lo incontriamo per un’informale chiacchierata in cui l’architetto mischia accortamente pragmatismo e idealismo. Non si può non partire dall’omaggio tributatogli dalla Triennale, in una mostra che è sì retrospettiva ma, nel finale, anche prospettiva. Perchè Bellini, con il suo studio milanese, ha tanti progetti che lo attendono… Essere allestitore e al contempo protagonista di una retrospettiva, per di più curata da una figura di prim’ordine come Deyan Sudjic, direttore del London Design Museum, può ingenerare conflitti, invasioni di campo o confusioni di ruolo. In realtà non c’è stato un dibattito in opposizione sulle scelte di selezione. Dopo tanti anni, mi trovo davanti a un corpus stratificato e storicizzato del mio lavoro di architetto, tra progetti di varie scale, dagli oggetti agli arredi, agli allestimenti di mostre, ad architetture e ad interi pezzi di città. Certo che, com’è noto, il dilemma di una mostra di architettura è che non la si può appendere ai muri, come avviene per quelle di pittura. In alcuni dei precedenti allestimenti che ho curato (come per il “Rinascimento” o per “Il Barocco”) ho sempre cercato di far “vivere” le planimetrie collocandovi sopra gli storici modelli tridimensionali. Guardando il layout, la mostra sembra la metafora di uno spazio abitato – tra Portale, Galleria, Piazza e quattro Stanze –, dove tutto è presentato in maniera caleidoscopica piuttosto che non monografica, con intrecci e sovrapposizioni di messaggi… Gli approfondimenti ci sono ma, in effetti, sono tra loro mescolati. I video di alcune delle principali architetture avranno grande rilevanza, proiettati su grandi schermi e completati dal sonoro dell’ambiente circostante. Le opere, se viste solo attraverso le pagine di un libro, richiedono un grande sforzo di trasposizione per immaginare la realtà. Così, invece, la grande scala della proiezione favorisce il coinvolgimento e l’emozione, ponendo i piedi del visitatore “sul” pavimento dell’opera ritratta. Ho viaggiato moltissimo tentando sempre di esperire lo spazio degli edifici, captarne la “scala”, la luce, i suoni, gli echi e perfino gli odori. A proposito, Lei è solito tornare sul “luogo del delitto”, ovvero laddove ha realizzato, magari molti anni prima, l’opera? Che sensazioni ne ricava? Talvolta può succedere di avere delle recriminazioni. Anche perché, a differenza di quando si lavora sugli oggetti, rispetto ai quali si producono dei prototipi, con l’architettura “si dispone di una pallottola sola”, con l’unica fase intermedia del modello. Oggi con un software come SketchUp possiamo progettare direttamente in 3d su uno o più schermi… Ma occorre sempre fare attenzione al rapporto di scala: lì, l’esperienza diretta dell’architettura è altra cosa. Non simulabile. E guai a non capire l’enorme differenza che passa tra una sedia ed un edificio; alcuni progettisti non se ne rendono sempre conto. Nel caso del progetto per il Louvre, ad esempio, nelle visite successive sono rimasto davvero soddisfatto, in quanto in fase di cantierizzazione abbiamo effettuato molte sperimentazioni, insieme ai responsabili del museo e con le imprese; realizzammo anche un prototipo al vero di alcuni moduli della copertura appena fuori Milano. Così, quando ci torno, mi piace ancora scattare delle fotografie per cogliere atmosfere, dettagli e sfumature prima visti sotto una luce diversa. E in questo caso si tratta anche proprio di luce, sole e nubi… Nel lavoro in studio, come trasmette il Suo magistero, “l’eredità”, a coloro che l’affiancano? Trascorro molto tempo seduto accanto ai vari giovani collaboratori. Molto comunico anche verbalmente, attraverso la parola, ma certamente anche attraverso i numerosi schizzi che eseguo. Per il Museo dell’Antiquarium a Roma ho fatto molti sopralluoghi, per percepire gli spazi preesistenti ma anche per avere informazioni sui reperti da esporre; poi, quasi improvvisamente, pensando alla messa in scena, scaturisce un’idea in grado di far rivivere quei reperti. Ma gli architetti non vanno mai in pensione? È una domanda che mi sono posto anch’io. Pare di no; magari cadono in cantiere – o vengono colti di sorpresa in piena attività, lontano da casa, o mentre di notte stanno disegnando ad occhi chiusi… Quindi si va ad oltranza? Direi di sì. A febbraio compio 82 anni ma abbiamo davanti molti progetti. La mostra, infatti, non è solo retrospettiva ma è anche prospettiva. È la forza del pensiero. In questo campo, la creatività dipende dalla testa la quale, se si ha fortuna, non s’inaridisce e permette di far arrivare il pensiero alle mani. Dando per assodato che un edificio debba essere ecocompatibile, energeticamente efficiente e attento all’uso dei materiali, che cosa significa per Lei l’inflazionato e sdrucciolevole termine “sostenibilità”? Da questo non si può prescindere; oggi c’è tutta una cultura trasversale, una sensibilità che pervade la filiera degli operatori, entro la quale non si può non operare. La sostenibilità è semplicemente l’intelligenza delle proprie opportunità progettuali. Come vede il futuro del progetto? Non bisogna pensare al futuro come qualcosa di… futurista. Il futuro è la continuazione consapevole della nostra cultura umana di abitanti di una casa, cittadini di una città ed esseri viventi sulla terra: la triade di tali legami continui è fondamentale. Ecco perché è imbecille disegnare un’architettura come un oggetto. Ciò che ancora arricchisce l’Italia è proprio l’invenzione della civiltà urbana, a partire circa dall’anno Mille. Qual è lo stato di salute di Milano? Direi abbastanza buono. Milano è una città dinamica, piena di relazioni, che sta nell’occhio del mondo, pur non essendo una megalopoli. Non sarà la più bella città d’Italia ma, con la sua struttura radiale, è chiaramente connotata. Inoltre, lo sanno in pochi, è una delle più verdi d’Europa. Un luogo piacevole dove vivere. Lei è stato direttore di «Domus». Qual è lo stato del dibattito culturale attraverso la pubblicistica di settore, anche alla luce dei nuovi media? Sta sempre meglio, grazie alla diffusione a rete e trasversale delle informazioni attraverso il web. Vale anche per la capacità di comunicare da parte dei produttori di materiali; cosicché l’architetto ha molte più opportunità di “reagire” creativamente e responsabilmente. Tuttavia, sul fronte degli strumenti interpretativi, non ritiene che siamo diventati tutti tendenzialmente più superficiali? Ciò dipende dai singoli individui. Occorre avere la capacità di guardare l’orizzonte senza compiacersi degli spruzzi dell’onda. Tuttavia, l’architetto ha un ruolo di grandissima responsabilità; e la sfida si gioca nel confronto con la committenza, che dev’essere molto preparata ad interpretare al meglio il suo ruolo decisivo… Non condivido l’atteggiamento di chi fluttua sganciato dal reale, senza saper basare i propri progetti anche sulla comprensione critica del passato e delle sue stratificazioni. M’interessa ragionare sulle continuità e sulle radici della storia come forma di arricchimento culturale, sebbene ciò non significhi avere un atteggiamento passatista. In tal senso, le nostre città sono emblematiche nelle loro stratificazioni. Dimenticare quello che abbiamo alle spalle pensando così di essere più liberi d’immaginare il futuro è un’operazione ingenua e fallimentare. PER APPROFONDIRE “Mario Bellini. Italian Beauty” A cura di Deyan Sudjic, con Ermanno Ranzani (architettura) e Marco Sammicheli (design) Allestimento: Mario Bellini TRIENNALE DI MILANO Dal 19 gennaio al 19 marzo 2017, Catalogo a cura di Francesco Moschini (Silvana Editoriale) Chi è Mario Bellini (© Albert Greenwood) Nato a Milano nel 1935, dove si laurea in architettura al Politecnico nel 1959. Ha insegnato all’Istituto di disegno industriale di Venezia (1962-65), alla Hochschule für angewandte Kunst di Vienna (1982-83) e alla Domus Academy di Milano (1983-85). È stato direttore della rivista “Domus” (1985-1991). Ha allestito numerose mostre d’arte e d’architettura in Italia e all’estero (la più recente a Palazzo Reale di Milano nel 2015, sui capolavori di Giotto). Ha ricevuto 8 volte il Premio Compasso d’Oro, mentre 25 delle sue opere figurano nella collezione permanente del MoMA di New York, che gli ha dedicato una retrospettiva nel 1987 e per il quale in precedenza, nell’ambito della mostra “Italy. The New Domestic Landscape” (1972), realizzò “Kar/a/sutra”, un prototipo di ambiente mobile. È stato membro della giunta esecutiva della Triennale di Milano, per la cui XVII edizione (1986) ha curato la mostra “Il progetto domestico”.Dopo essersi occupato di design – nel settore arredo domestico, segnatamente per B&B Italia e per Cassina, e nel settore macchine per ufficio con Olivetti, di cui per diversi anni è consulente – dal 1980 si dedica prevalentemente all’architettura. Tra le principali realizzazioni, il quartiere Portello di FieraMilano, il Centro espositivo e congressuale di Villa Erba a Cernobbio (Como), il Tokyo Design Centre (Giappopne), la sede della Natuzzi Americas a High Point (Stati Uniti), la National Gallery of Victoria a Melbourne (Australia), la sede della Deutsche Bank a Francoforte (Germania), il Museo di storia della città di Bologna a Palazzo Pepoli, l’edificio per il Dipartimento delle Arti islamiche al Museo del Louvre a Parigi (con Rudy Ricciotti) e il nuovo Centro congressi di Milano al Portello. I progetti attualmente in corso sono il nuovo Museo del Foro “Antiquarium” a Roma (2014-2017), l’Airterminal internazionale di Roma-Fiumicino (2014-2017), il Parco scientifico e tecnologico di Genova (2006-2017) e la “Generali Academy” di Trieste (2015-2017). Tra i progetti in fase di studio, la nuova “Eco-City” di Zhenjiang (Cina, 2013-2018) e un grande complesso sportivo, culturale e residenziale nei Paesi del Golfo (2014-2022). Nel 2015 la Triennale di Milano gli ha conferito la Medaglia d’oro alla carriera per l’architettura. L’autore dell’intervista: Luca Gibello Nato a Biella nel 1970, presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino si laurea nel 1996 e consegue nel 2001 il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l’Univerdità di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002, mentre dal 2004 è caporedattore e dal 2015 direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato i volumi Francesco Dolza. L’architetto e l’impresa (con Paolo Mauro Sudano, 2002) e Annibale Fiocchi architetto (con Paolo Mauro Sudano, 2007), mentre ha curato Stop&Go. Il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi studio (con Andrea Bondonio, Guido Callegari e Cristina Franco, 2005), 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura contemporanea (con Francesca B. Filippi e Manfredo di Robilant, 2006) e Il Cineporto della Film Commission Torino Piemonte. Un’opera di Baietto Battiato Bianco (2009). Ha svolto il coordinamento scientifico-redazionale del Dizionario dell’architettura del XX secolo (a cura di Carlo Olmo, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003). Con Cantieri d’alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l’interesse per la storia dell’architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito 64 delle 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 fonda e presiede l’associazione culturale Cantieri d’alta quota. |