I doveri di un cittadino ligio alla legge [di Hanna Arendt]

ANA

Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così sta vano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto.

I logori temi degli “ordini superiori” oppure delle “azioni di Stato” furono discussi in lungo e in 1argo: essi già avevano dominato tutti i dibattiti al processo di Norimberga, per la semplice ragione che davano l’illusione che fatti senza precedenti potessero essere giudicati in base a precedenti e a criteri già noti.

Eichmann, con le sue doti mentali piuttosto modeste, era certamente l’ultimo, nell’aula del tribunale, da cui ci si potesse attendere che contestasse queste idee e impostasse in altro modo la propria difesa. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini – preoccupandosi sempre di essere “coperto” – , e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’“obbedienza cieca”, ossia dell’“obbedienza cadaverica”, Kadaver gehorsam, come la chiamava lui.

La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.

L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’imputato.

E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta  dell’imperativo categorico: «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali» (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli).

Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vi vere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era piú «padrone delle proprie azioni», che non poteva far nulla per «cambiare le cose».

Alla Corte non disse però che in questo periodo «di crimini legalizzati dallo Stato» – cosi ora lo chiamava – non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: «Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese», ovvero, come suonava la definizione che dell’imperativo categorico nel Terzo Reich aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: «Agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe» (Die Technik des Staates , 1942, pp. 15 -16).

Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la «ragion pratica» ciascuno trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant «ad uso privato della povera gente».

In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare ualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la volontà del Führer.

Buona parte della paventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce.

Da qui la convinzione che occorra fare anche di più di ciò che impone il dovere. Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità dell’“uomo qualunque” in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemrne egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui «ottanta milioni di tedeschi» avevano ciascuno «il suo bravo ebreo»: aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo “zio”.

Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e cosi durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver «confessato le sue colpe» ai suoi superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie “inclinazioni”, fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva sempre fatto il suo “dovere”.

*Da La banalità del male (Feltrinelli, pp. 142 -144) Capitolo VIII

One Comment

  1. mara

    Grandissimo libro!

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