Quarant’anni di Orientalismo [di Luciano Forlani]
Prismo, 30 gennaio 2017. Sono passati quasi quarant’anni dall’uscita di Orientalismo, il saggio scritto dall’intellettuale di origine palestinese Edward W. Said e pubblicato negli Stati Uniti nel 1978. Non sono molti i testi che mantengono intatta la loro attualità a quasi mezzo secolo dalla loro uscita: ai tempi, quello di Said è stato un grimaldello fondamentale nella comprensione di quell’“orientalismo” che dà il titolo al saggio, e che altro non sarebbe che il modo in cui l’Occidente narra e rappresenta un non meglio precisato “Oriente” che va dall’Asia al mondo arabo. Da allora però, non molto sembra cambiato: specie per quanto riguarda l’Islam, la narrazione mediatica mainstream sembra rimasta prigioniera di assunti e luoghi comuni legittimati da secoli di studi, anche accademici. Anzi: alcuni eventi, dall’11/9 alla comparsa dello Stato Islamico, hanno contribuito al loro rafforzamento. Tutti i tentativi di denunciare gli stereotipi e le dicotomie sul mondo islamico devono qualcosa all’opera polemica di Said, la cui densità – trecentocinquanta pagine di testo più una ventina di bibliografia – ha scatenato accesi dibattiti nonché diversi fraintendimenti, anche nello stesso mondo islamico. Said da parte sua scrive chiaramente che la sua critica non è un attacco all’Occidente, e che la risposta al “discorso orientalista” non può e non deve essere un “discorso occidentalista”. Si limita alla descrizione di un modus operandi della tradizione orientalista istituzionale sopratutto dal 1700 in poi, per decostruire miti e stereotipi orientalisti senza per questo semplificare un’entità eterogenea come l’Oriente. In effetti, Orientalism è tante cose insieme: è anzitutto un saggio sulla rappresentazione – europea prima, americana poi – dell’Oriente; é, di riflesso, la critica a un approccio essenzialista alle realtà, che tende a descrivere le culture altre come immobili e monolitiche, anziché come processi negoziali in continuo divenire, la cui liquidità è oggi acuita dalla globalizzazione; infine, è un’analisi del rapporto ambivalente tra conoscenza e potere, e nello specifico tra tradizione orientalista istituzionale e imperialismo (colonialismo prima, neocolonialismo poi), con la prima che lavora al servizio del secondo. Al tempo stesso, Said non nega un certo grado di eterogeneità dell’orientalismo in quanto “disciplina”, che tuttavia a suo parere non ha minato l’unità del discorso orientalista dominante. Ma cos’è un “discorso orientalista”? Secondo Foucault, un discorso è “un’area di significato” prodotta attraverso rappresentazioni concepite in base a interessi ideologici, politici e scientifici; in questo senso, l’orientalismo si definisce come un insieme di discorsi su una “alterità culturale” localizzata in uno spazio immaginario (l’Oriente, per l’appunto) caratterizzato in base a criteri parziali e spesso mistificatori: l’orientale – non importa se arabo, persiano o turco – è sempre considerato nella sua diversità ontologica rispetto all’occidentale; questo a sua volta implica alcune caratteristiche quasi naturali, immutabili e immanenti, che caratterizzano l’orientale in quanto tale: fatalismo, dispotismo, irrazionalità, fanatismo, passività, arretratezza… Il discorso orientalista secondo Said è quindi di logica binaria, ed è sorretto da quella che chiama geografia immaginaria: esiste un “noi” (l’Occidente) ed esiste un “loro” (l’Oriente islamico). Ed è proprio la definizione statica dell’altro che aiuta a definire se stessi: l’Oriente è ciò che l’Occidente non è. Ma come è stato costruito questo discorso? Said ci ricorda che tra il 1815 e il 1914 la percentuale di terre emerse sotto il controllo coloniale europeo passa dal 30% all’85%. Nello stesso periodo, vengono scritti quasi cinquantamila libri sul Vicino Oriente. Secondo Said, la tradizione orientalista assume un carattere quasi scientifico (e si mette sistematicamente al servizio di interessi coloniali) con l’invasione napoleonica dell’Egitto nel 1798: in questo senso, fondamentale diventa un’opera come Description de l’Égypte, pubblicata in ventitré volumi tra il 1809 e il 1828, che proprio da quell’invasione deriva. Abd al Rahman Al Jabarti, cronista del tempo, fu testimone dell’invasione napoleonica, e definì per primo la conquista di Napoleone come “epistemologica oltre che militare”. Al seguito dell’Armée d’Orient partirono in effetti circa 160 orientalisti: esploratori e scienziati che – nel realizzare la Description de l’Égypte – da una parte lavoravano per facilitare l’addomesticamento delle future colonie, dall’altra si rifacevano a nozioni sull’Oriente vecchie di secoli, per cercarne una conferma sul campo. Si trattava insomma di “fare l’Egitto”: liberarlo da uno stato tenebroso, salvarlo dal decadimento (come dice J.B.J Fourier nella prefazione della Description) per poi annetterlo sostanzialmente all’Europa, e cioè alla Francia. Ai tempi dell’invasione napoleonica (e a dirla tutta ancora per buona parte del ‘900), l’Islam veniva visto non in se stesso, ma come ciò che aveva rappresentato per il Medioevo cristiano, quando i due mondi si minacciavano a vicenda e vivevano in uno stato di perpetua tensione o guerra. Uno dei limiti (diffuso ancora oggi) dei pensatori cristiani del Medioevo che tentarono di comprendere l’Islam, ha una natura analogica: poiché Cristo sta a fondamento della fede cristiana, si partì dall’assunto (sbagliato) che Muhammad fosse per l’Islam ciò che Cristo è per il Cristianesimo. Da questo deriva l’idea che il fondatore dell’Islam fosse un impostore, capostipite di una falsa religione che voleva sostituirsi a quella cristiana. Non è un caso che che alla voce “Muhammad”, all’interno della Bibliotheque orientale di Barthelemy d’Herbelot (1697), si legga:“Si tratta del famoso impostore Maometto, autore e fondatore dell’eresia maomettana”; o che, molto più indietro nel tempo, Muhammad compaia nel ventottesimo canto dell’Inferno di Dante, nella categoria dei “seminatori di scandalo e scisma”.La tradizione orientalista inaugurò discorsi con l’essenzialismo culturale come comune denominatore, perpetuando assunti immanenti sulla cultura e religione islamica, una realtà mutevole e riadattata a migliaia di tradizioni locali. Eppure Gesù è un profeta menzionato più volte nel Corano, riconosciuto come tale dai musulmani, che pongono Muhammad come sigillo della Profezia monoteista iniziata con l’Ebraismo. Per i musulmani è semmai il Corano a essere paragonabile a Cristo, ad essere parola di Dio sotto forma di libro anziché reincarnata. Muhammad è solo un messaggero, ed è per questo che essi non credono a concetti come resurrezione o trinità. Il che non ha impedito che nel mondo cattolico, almeno fino al 1930 i musulmani venissero chiamati “maomettani” in qualunque sede, accademica e non: una definizione che nessun musulmano utilizzerebbe, ma anche un errore semantico che nasconde un’ostilità di fondo. È la stessa ostilità che nel 2017 trova il suo corrispettivo nell’uso disinvolto della parola “islamici” per definire le persone di fede musulmana (che sono invece “musulmani”, mentre “islamico” si attribuisce a tutto ciò che non designa degli esseri umani: architettura, pensiero, fede, arte, ecc). Come detto, al tempo di Napoleone gli orientalisti recuperarono il sapere accademico e letterario di epoca medioevale – che vedeva appunto l’Oriente come una minaccia – e compirono in parte le loro ricerche con l’obiettivo di confermarne la validità, producendo testi che erano frutto di un contatto coloniale e si basavano quindi su rapporti egemonici: erano cioè tentativi di “assimilare” un Oriente che, per dirla con le parole di Anwar Abdel Malek, era marchiato da una alterità costitutiva e quindi diventava oggetto di studio passivo, non partecipe. Da quel momento in poi, pur tra differenze metodologiche, la tradizione orientalista (francese e poi quella britannica) inaugurò discorsi che per duecento anni avranno il comune denominatore nell’essenzialismo culturale, perpetuando assunti immanenti su una cultura e su una religione, quella islamica, che è in realtà mutevole e che si riadatta a migliaia di tradizioni locali, abbracciando centinaia di popoli diversi tra loro. Sono discorsi che getteranno le basi per un duplice e generalizzato atteggiamento: da una parte, specie a sinistra, il paternalismo (“gli orientali vanno guidati/aiutati”); dall’altra, soprattutto a destra, il razzismo (“gli orientali sono selvaggi”). Basti la descrizione che compare nel capitolo 34 di Modern Egypt, un testo uscito nel 1908 e scritto dal politico inglese Evelyn Baring (Lord Cromer): “L’europeo è un ragionatore lucido; egli è spontaneamente logico, anche quando non ha nozioni di logica formale; è per natura scettico, e pretende prove prima di accettare come vera una asserzione; la sua intelligenza funziona come un insieme di raffinati ingranaggi. Al contrario, la mente dell’orientale manca di simmetria. I suoi ragionamenti sono come descrizioni abusive, che non offrono appigli sicuri. L’arabo è carente di facoltà logica, spesso incapace di trarre le più ovvie conclusioni da premesse semplici. È ingenuo, propenso a una stucchevole adulazione, all’intrigo e alla calunnia”. Come scrive Said, nei primi anni del ventesimo secolo uomini politici come Baring potevano dire ciò che dicevano perché una tradizione orientalista già consolidata aveva messo loro a disposizione vocaboli, immagini e figure retoriche di sicuro effetto. L’orientalismo rafforzava – e a sua volta veniva rafforzato da – la consapevolezza che l’Europa dominava gran parte delle regioni del mondo; la metamorfosi a questo punto è completa: da discorso accademico finalizzato a un’appropriazione teorica, ecco che l’orientalismo si trasforma in istituzione imperiale al servizio di interessi nazionali di questo o quel paese, diventando quindi strumento di un’appropriazione effettiva. A partire dal 1920 e ancor più dopo la seconda guerra mondiale, quando si sancisce la preminenza degli Stati Uniti rispetto a Francia e Inghilterra, l’orientalismo entra per certi versi in crisi: il mondo cambia con velocità crescente, e nelle ex colonie nascono movimenti di liberazione nazionale sorretti da impalcature ideologiche autoctone e incompatibili con l’idea che i popoli sottoposti siano intrinsecamente passivi, fatalisti, irrazionali. Ciononostante, nel suo Modern trends in Islam, uscito nel 1947, il celebre orientalista britannico H.A.R Gibb sostiene che: “La mente araba, sia in relazione col mondo esterno sia con i processi di pensiero, non sa liberarsi della sua intensa percezione della separatezza e individualità degli eventi concreti. Questo spiega l’avversione dei musulmani per il processo di pensiero del razionalismo”. Secondo Gibb, per comprendere l’evoluzione del mondo islamico nel 1900 non è necessario considerare fattori come la situazione mondiale, il colonialismo, i diversi sviluppi storici di ogni società musulmana, gli interessi e i conflitti di classe, le circostanze politiche ed economiche: basta e avanza l’Islam. Ancora nel 1964 Gustave Von Grunebaum, uno dei più influenti orientalisti del tempo, scrive che “è essenziale comprendere che la civiltà musulmana è un’entità che non condivide le nostre aspirazioni fondamentali. Non ha interesse per lo studio scientifico delle altre culture. (..) Ciò va connesso al fondamentale antiumanesimo di questa civiltà, la sua tenace opposizione ad accettare l’uomo come arbitro e misura di ciò che lo circonda”. E nel suo The return of Islam, pubblicato nel 1976, Bernard Lewis sostiene che l’opposizione dei palestinesi agli insediamenti illegali israeliani è frutto, per l’appunto, di un “ritorno dell’Islam”, della “opposizione delle genti islamiche a quelle non islamiche”, dell’“odio intrinseco dei musulmani per i non musulmani”. Un giudizio che sembra più adatto a descrivere il settimo secolo dopo Cristo che il ventesimo. Tuttora, nel 2017, è possibile sentir parlare in sede accademica e mediatica di ‘mentalità araba’ o islamica: un’espressione che se usata nei confronti di altri risulterebbe irricevibile. Poco insomma era cambiato. L’islam di Gibb, Grunebaum e Lewis continua a essere immutabile, incurante della quotidiana esperienza umana. Di nuovo nel 1976, sulla rivista americana Harper’s, Emmett Tyrrell scrive con disinvoltura che “gli arabi sono degli assassini, la violenza e l’inganno fanno parte del loro codice genetico”. E dopo la presa degli ostaggi in Iran (1979-81) di cui era stato una delle vittime, il diplomatico Bruce Laingen non si pose nemmeno il dubbio che gli iraniani potessero essere stati mossi da motivazioni razionali, o da timori concreti di un sabotaggio americano della rivoluzione, memori dei tempi di Mossadeq: quello che fecero gli studenti iraniani, secondo Laingen, era semmai frutto della “psiche persiana” e dell’inclinazione a “rigettare il concetto di negoziato razionale”. Racconta ancora Laingen: “Noi possiamo essere razionali. I persiani no, perché sono egoisti; la realtà per loro è malevola; la ‘mentalità da bazar’ gli impone di ottenere vantaggi immediati anziché di lungo termine; il Dio onnipotente islamico gli rende impossibile la comprensione della causalità, per loro parole e realtà non sono correlate”. È indicativo come tuttora, nel 2017, è possibile sentir parlare tanto in sede accademica quanto in quella mediatica di “mentalità araba” o islamica: un’espressione che se usata nei confronti di altri – “mentalità ebrea” o “mentalità negra” – risulterebbe irricevibile per chiunque. Un altro episodio fondamentale nel cementificare il discorso orientalista, lo gioca nel 1970 la pubblicazione in due volumi della Cambridge History of Islam, un’opera che, avendo accettato acriticamente i dogmi orientalisti dei secoli precedenti, omette completamente una descrizione dell’Islam come fede, dottrina e sistema di pensiero. Il risultato è che, per centinaia di pagine del primo volume, l’Islam è presentato come un succedersi ininterrotto di battaglie, regni, decessi, ascese, declini eccetera. Un esempio tra i tanti: è noto che il periodo Abbaside sia stato uno dei più fiorenti dal punto di vista culturale per la civiltà islamica, paragonabile a ciò che fu il Rinascimento per la cultura italiana. Baghdad, la capitale del califfato, ospitava ai tempi uno dei centri di studio più importanti della storia umana, la Bayt al Hikma (casa della saggezza): fu qui che gli scienziati musulmani adattarono e tradussero la filosofia greca, furono pionieri nella logica e nell’astronomia, resero la medicina una scienza, e inventarono l’algebra (parola che proviene dal nome del libro Al-kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa’l-muqābala, conosciuto come Kitab al Jebr, il libro dei calcoli, scritto attorno all’820 d.c da al Khwarizmi, al cui nome latinizzato si deve invece la parola “Algoritmo”). Eppure, in quaranta pagine su questo periodo, nella Cambridge History of Islam c’è poco o nulla di tutto ciò. Solo dopo milleduecento pagine, nella seconda metà del secondo volume, appaiono capitoli che parlano di “ambiente geografico”, “origini della civiltà islamica”, “religione e cultura”. L’essenzialismo culturale degli orientalisti ha infine conosciuto il suo apogeo nel 1993, con l’uscita del saggio di Samuel P. Huntington Lo scontro di civiltà. Huntington in realtà si ispira a una tesi di Bernard Lewis – che qualche anno più tardi diventerà consulente sul Medio Oriente per l’amministrazione Bush jr., durante la quale si decideranno le invasioni di Iraq e Afghanistan – che ancora una volta sostiene con forza l’idea di una differenza ontologica del mondo islamico rispetto a quello occidentale; differenze che porteranno inevitabilmente a uno scontro tra due civiltà percepite come uniformi, che avrebbero “visioni diverse sulla relazione tra Dio e uomo, individuo e gruppo, marito e moglie, genitori e figli, cittadini e Stato, libertà e autorità”. Quelle di Lewis e Huntington a posteriori sembrano profezie autoavveranti, ma in realtà non sono altro che posizioni che ignorano – forse volutamente, forse in virtù di un disegno politico – l’andamento della storia recente, del colonialismo e della globalizzazione. È concettualmente sbagliato elevare a dogmi le differenze culturali che pure possono essere registrate, perché le culture – sopratutto nell’era globale – sono invece permeabili, impure, contaminate, in grado di sopravvivere nel tempo proprio grazie alla commistione e allo scambio reciproco. Del resto, anche l’anticolonialismo che nel secondo ‘900 si diffuse in tutto il mondo islamico è stato bollato dagli orientalisti come un fenomeno irrazionale, un insulto ai principi democratici dell’Occidente. Nei giornali e nella mentalità popolare si diffonde l’idea che gli arabi siano potenziali terroristi, oppure personaggi lascivi la cui ricchezza – ad esempio quella petrolifera – è disonesta, frutto di estorsione ai danni delle nazioni civili. Dopo lo shock energetico del 1973, si fa largo la nozione secondo cui, pur essendo una minoranza, i consumatori occidentali abbiano un diritto incontestabile a possedere le risorse mondiali: è quello che Abdel Malek chiama “egemonismo di minoranze privilegiate”. E quando i dogmi immutabili attorno all’Islam iniziano a rivelarsi inutili per l’effettiva comprensione della realtà, si inizia a ricorrere a concetti come quello di “stabilità”, che per inciso conoscerà grande fortuna fino ai giorni nostri: si pensi al sostegno dei paesi occidentali nei confronti delle dittature mediorientali in nome di quella stabilità politica (ed economica) che assicurerebbe il contenimento di popolazioni per definizione fanatiche e irrequiete. È la riproposizione del concetto – tipicamente orientalista – di dispotismo orientale, della cui forza evocativa abbiamo ampia testimonianza ancora oggi, soprattutto in riferimento alla narrazione mediatica delle primavere arabe: lo sviluppo controverso, tormentato e non immune da ingerenze esterne dei processi rivoluzionari in Medio Oriente, ha riportato in voga l’idea che “gli arabi amino l’uomo forte”, che non siano adatti alla democrazia e che non sappiamo autogovernarsi; insomma che “stavano meglio quando c’erano i dittatori”, laddove questo benessere (ancora in pieno stile orientalista) è inconsciamente riferito al benessere dell’occidentale che in quei paesi poteva andare in vacanza, oppure a quello di ristrette élite privilegiate. Altro tratto tipicamente orientalista, è l’immaginario di tipo sessuale che sottende il processo di dominio dell’Oriente. Sopratutto nelle opere letterarie (Burton, De Nerval, Flaubert…) all’Oriente si sono sempre attribuite caratteristiche tipicamente “femminili” – sensualità, seduzione, mistero, vulnerabilità, fecondità – come se la conquista passasse metaforicamente per un soggiogamento sessuale ad opera dell’occidentale maschio. Gli studiosi dei postcolonial studies, stimolati dal lavoro di Said, hanno sviluppato molto questo aspetto, e nello specifico la relazione tra imperialismo e gender. A questo si lega evidentemente il tema della condizione della donna nel mondo islamico, diventato negli ultimi anni un tema ricorrente della narrazione occidentale.. La studiosa di origini indiane Gayatri Spivak ha sottolineato come anche i movimenti femministi in primo luogo europei (soprattutto britannico e francese), nel rivolgersi alle donne non occidentali, abbiano essenzialmente riprodotto la rappresentazione colonialista del 1800, con implicita appropriazione della coscienza orientale. Questo è oggi evidente nelle descrizioni dei media, quando ad esempio il velo viene additato come massimo simbolo di donna musulmana subalterna, incapace di indipendenza e autorealizzazione. Si tende insomma a ignorare, come scrive Leila Ahmad, che in molti contesti il velo è uno strumento identitario e di autolegittimazione, utilizzato da tante donne impegnate in battaglie di giustizia sociale all’interno di contesti islamici. Non sembra avere alcuna importanza, ad esempio, il fatto che ben due primi ministri del Bangladesh siano donne che portano il velo, come l’attuale Sheikha Hasina o Khaleda Zia a cavallo tra i due millenni; e lo stesso vale per Benazir Bhutto in Pakistan, per l’ex capo di Stato dell’Indonesia Megawati Sukarnoputri, così come per ex primi ministri donna di Senegal e Mali o per le iraniane Marzieh Afkham, Masoumeh Ebtekar e Shahindokt Mowlawerdi, tutte con ruoli politici o ministeriali. Lo sguardo occidentale verso le donne col velo, varia all’interno di uno spettro che tende ad andare dal disprezzo (la donna musulmana come fanatica, o esponente di una società islamica arretrata) alla compassione: la donna velata, a prescindere dalla sua posizione nella società, deve essere “liberata”, aiutata a emanciparsi. Una emancipazione che deve passare dall’abbandono della propria cultura nativa, perché, come ricorda la politologa Wendy Brown, secondo il dogma orientalista “gli occidentali hanno una cultura, i musulmani sono una cultura”. Può sembrare strano, ma quando si discute di gender in Medio Oriente, spesso il fattore più importante non è l’Islam, come invece in molti danno per scontato. In Libano ad esempio, alcune leggi dei cristiani sullo statuto personale sono spesso più stringenti nel regolare i ruoli tra uomo e donna. Pochi mesi fa, un parlamentare cristiano maronita ha sostenuto che le donne hanno una quota di colpa nei casi di stupro: parole condannate anche da molti politici musulmani, ma che in Occidente non hanno praticamente trovato eco. Inoltre, ancora per restare al Libano, le leggi civili o penali (come quella che permette allo stupratore di sposare la propria vittima) possono avere effetti molto più ampi, anche in termini di gender, di quelle religiose. Spesso si dimentica poi che l’Islam non è l’unica religione in Medio Oriente, anche se la narrazione mainstream trasmette incessantemente quest’idea: c’è normalmente un’enorme differenza, ad esempio, nel racconto di episodi di violenza domestica quando si verificano in quartieri abitati da ebrei ultraortodossi a Gerusalemme, oppure in quando si consumano a Ryad. È fondamentale non cadere in un ‘essenzialismo al contrario’: l’oppressione delle donne tra i musulmani esiste, ed è un problema. Non è però corretto depurare dalla narrazione dominante tutti gli elementi di disturbo e le complessità. Anche la figura del mullah, del religioso musulmano, è vista come intrinsecamente misogina; e nonostante l’assenza di un clero (e di un Papa) favorisca nell’Islam una certa eterogeneità interna, non viene mai presa in considerazione l’idea che le opinioni dei religiosi possano differire anche in modo rilevante su ogni tema, condizione femminile inclusa. La posizione su un buon numero di argomenti di alcuni ayatollah iraniani, come ad esempio Yusuf Sane’i o il defunto Ali Montazeri, è più progressista di quella di tanti vescovi. Una fatwa di Khomeini del 1988 sancì l’esistenza della disfunzione di genere (dopo la Tailandia, l’Iran è il paese con più cambi di sesso), un concetto nemmeno lontanamente considerato dalle gerarchie cattoliche e non solo. Oppure: Jamaat-e-Islami, principale partito islamista in Pakistan, è stato l’unico partito nazionale ad aver sostenuto la possibilità di avere un presidente donna, al contrario di quanto fecero i militari, che normalmente associamo all’idea di “custodi della laicità”. Il defunto leader islamista sudanese, Hassan Al Turabi, era un sostenitore dell’idea che le donne potessero guidare la preghiera, che dovessero partecipare alla vita politica e che l’obbligo del velo fosse illegittimo; nel racconto della temporanea ascesa della Fratellanza musulmana in Nordafrica, pochissimo è stato dedicato alla sua ala femminista, che ad esempio in Tunisia ha portato delle donne in Parlamento. Come spiega Mahmood Madani, spesso i tentativi di centralizzazione del potere e secolarizzazione forzata imposti dall’esterno, hanno portato a un irrigidimento delle posizioni sia della società civile che degli stessi religiosi: è per esempio quello che è accaduto in Afghanistan con l’invasione sovietica, che ha contribuito a rendere i Talebani un movimento sempre più misogino e violento. Un altro frequente fraintendimento tipico della narrazione mainstream, è quello relativo alla figura dell’Imam. Nella tradizione sunnita, imam (in arabo “colui che sta davanti”) non è in alcun modo un’autorità ma semplicemente la persona che guida una preghiera: se ci sono tre musulmani in un parco che vogliono pregare, quello che conosce meglio il Corano si porrà davanti agli altri due, volgendogli le spalle, e in quel momento sarà a tutti gli effetti un imam. I media occidentali, alla ricerca della sparata sensazionalistica, di norma tendono a trattare qualunque imam come rappresentativo di questa o quella comunità, spesso sopravvalutando o fabbricando la loro autorità presso i fedeli. Un caso celebre è quello dell’iper mediatico e delirante Anjem Choudary, attivista salafita e imam di una moschea nell’est di Londra, invitato in varie trasmissioni e normalmente definito “l’imam di Londra”, attribuendogli un’importanza che non ha. Ancora più eclatante è il modo in cui i media occidentali reagiscono al grido “Allah akbar” pronunciato dai jihadisti dopo un attentato o un’azione di guerra: l’espressione “Allah akbar” viene considerata un elemento centrale, caratterizzante della notizia, e in molti casi diventa anzi proprio quella, la notizia. Poco importa se i musulmani pronunciano quell’intercalare nelle occasioni più disparate: per una festa di compleanno, la nascita di un figlio, per un bel voto preso a scuola, per una promozione sul lavoro, un gol della squadra del cuore… Niente da fare: per i media occidentali Allah akbar, col suo potere evocativo, resta semplicemente un sanguinario grido di battaglia. Ovviamente, è fondamentale non cadere in un “essenzialismo al contrario”: ad esempio, l’oppressione delle donne tra i musulmani esiste, ed è un problema. Non è però corretto depurare dalla narrazione dominante tutti gli elementi di disturbo, le complessità. Menzionare queste storie, ci ricorda come sia sempre possibile adottare approcci specularmente essenzialisti: chi volesse attaccare l’Islam in modo aprioristico, avrebbe un ampio campionario di esempi da cui attingere; ma lo stesso potrebbe fare chi l’Islam volesse difenderlo altrettanto aprioristicamente. In un certo senso, la posizione essenzialista dell’orientalismo è speculare e funzionale a quella dei cosiddetti fondamentalisti islamici: tanto per un Lewis quanto per un religioso wahhabita, l’Islam è immutabile, letteralista, intollerante, ancorato a un passato tanto disprezzato dall’uno quanto mitizzato dall’altro. Del resto, Said stesso afferma che la risposta al discorso orientalista non può essere un “discorso occidentalista” speculare e inverso. Ugualmente, molti intellettuali del mondo islamico hanno frainteso il messaggio di un testo come Orientalism, salutandolo come una difesa dell’Oriente e un attacco all’Occidente. Ciò ha dato luogo a quello che il siriano Sadiq Jalan al Azm ha chiamato “orientalismo alla rovescia”, riassumibile in due posizioni diverse, che partono dagli stessi assunti. La prima è quella attribuibile alla categoria degli intelectual comprador, come li ha definiti un amico e collega di Said, l’iraniano Hamid Dabashi: si tratta intellettuali provenienti dal mondo islamico che, nel tentativo di farsi “accettare” da un Occidente immerso nei dogmi e pregiudizi orientalisti, hanno finito per interiorizzare questi stessi pregiudizi, recidendo i legami con una parte della loro identità ma continuando a vendersi come loro rappresentanti autentici. Personaggi come Adonis, Ayan Hirsi Ali o Salman Rushdie, devono la loro credibilità al fatto di essere (o essere stati) musulmani, per cui sono tra le voci più ascoltate da una parte dell’Occidente, poiché dicono quel che un certo Occidente vuole sentirsi dire. Come ha scritto Ahsis Nandy, psicologo indiano, “l’orientalismo è dappertutto, nelle strutture e nei ragionamenti, permeando le istituzioni e i sistemi intellettuali delle ex colonie”. Syed Hussein Alatas ha attribuito il perpetuarsi dell’orientalismo e la sua interiorizzazione tra intellettuali delle ex colonie a ciò che ha definito “la mente del prigioniero”. La globalizzazione sembra non esistere quando si parla di mondo islamico, come se non ci fossero già 65 milioni di musulmani tra Nordamerica ed Europa, che concorrono a ridefinire l’Islam stesso e le sue mutevoli identità. La seconda posizione figlia di questo orientalismo alla rovescia, è appunto quella dei fondamentalisti islamici, che possono ricadere sotto l’insieme di quelli che vengono chiamati i nativisti. Specularmente a coloro che ritengono l’Oriente ontologicamente inferiore all’Occidente, il nativista sviluppa il ragionamento opposto utilizzando le stesse categorie mentali del primo. Lo fa, ovviamente, essenzializzando l’Occidente: i vari Abu Al’a Mawdudi, Sayyd Qutb, Muhammad Asad, Maryam Jameelah definiscono l’Occidente come un monolite dall’innata tendenza alla corruzione, all’ateismo, al materialismo, alla degenerazione morale. La differenza tra i fondamentalisti e gli orientalisti descritti da Said sta nell’egemonia: i primi adottano queste posizioni come reazione a secoli di subalternità, i secondi in funzione e come risultato di secoli di dominio. Nel 2000 ancora di più che nel 1800, il timore di essere indefiniti, spinge a classificare l’altro solo nella differenza. Di nuovo: l’Oriente percepito è ciò che l’Occidente percepito non è. La globalizzazione sembra non esistere quando si parla di mondo islamico, come se non ci fossero già 65 milioni di musulmani tra Nordamerica ed Europa, che concorrono a definirne le mutevoli identità, oltre a ridefinire l’Islam stesso. C’è bisogno che l”isteria collettiva nata con la comparsa dell’Isis non prenda il sopravvento, rafforzando i movimenti xenofobi e l’idea di uno scontro con i musulmani, spesso percepiti come colpevoli fino a prova contraria. Non è solo lo spirito di accoglienza a dover guidare questo ragionamento, ma il pragmatismo: l’Islam è già parte dell’Occidente, così come tutto ciò che è finito nel calderone globalizzante. In Italia aumentano non solo i musulmani di seconda generazione ma anche i convertiti, che concorrono alla formazione di un Islam europeo, e che sono europei come chiunque altro. Dovremmo ricordarci che lo studio dell’uomo all’interno della società deve essere basato sulla storia e sull’esperienza umana in un mondo in divenire che è sempre più interconnesso, plurale; non su pedanti e vecchie astrazioni, leggi oscure o sistemi arbitrari. Anche il passato storico, che secondo la teoria dello Scontro di civiltà avrebbe provocato la “sedimentazione di differenze inconciliabili”, e con esso lo stesso concetto di tradizione, può essere reinterpretato nel presente: non si tratta di un elemento “congelato” nei secoli, bensì, come sostiene Said, “vivente nella contemporaneità”. Presente e passato non sono tempi morti o chiusi ma piani di interferenza di linee molteplici. Lo stesso concetto di modernità – che molti osservatori ritengono “incompatibile con l’Islam”, travisando in un colpo solo sia l’una che l’altro – è in realtà un luogo della contemporaneità degli elementi, con tanti ingressi e tante uscite. Non un cammino lineare, teleologico. Il confine immaginario tra un Oriente e un Occidente contrapposti – sia da parte dei musulmani che dei non musulmani – va progressivamente abbandonato, sfumato. Edward Said, nato in Palestina, cresciuto negli Stati Uniti e sepolto in Libano, certamente lo apprezzerebbe.
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vorrei notizie sull’autore Luciano Forlani ( per motivi di studio)