Latte a 60 centesimi, ci risiamo con la crisi del settore agropastorale! [di M. Cristina Stocchino]

latte

Siamo pieni di esperti che riescono a fare analisi dettagliate sulla crisi del settore, sulle tante, troppe, responsabilità degli stessi allevatori, incapaci di comunicare il loro disagio: “l’altro non deve sapere che io sono in difficoltà, non sia mai sia creda di stare meglio di me”. Certo, chi non conosce bene la Sardegna si stupisce di questa intima, atavica e peculiare caratteristica del sardo: il pudore e la vergogna di non farcela, di non essere “il migliore”. In Sardegna non è permesso mostrare la difficoltà, mai: è la più grande vergogna.

Accettare di condividere i problemi con altri, che pure hanno le stesse identiche preoccupazioni, non è pensabile, non è fattibile. “Io devo farcela da solo, io devo essere migliore dell’altro, sempre”; “ Io, che ho bevuto latte e diffidenza, che sono cresciuto a pane e orgoglio; mi hanno insegnato il silenzio”. Queste sono le frasi che, a mio avviso, descrivono meglio la situazione. Badate bene, perlomeno secondo me, non
è perché si provi “invidia” nei confronti del vicino, come molti credono. È, piuttosto, la paura di fare brutta figura.

Mi ricordo che mia nonna diceva: “Mi arracumandu filla mia, candu partis lassa sémpiri sa domu lìmpia e a postu ca chi intrant is ladronis… ‘ta bregungia!”. Sanno sempre tutto loro. E se qualcuno riesce a ottenere dei buoni  risultati, non gli si chiede consiglio, “come hai fatto?”. No, troppo pericoloso dimostrare di sapere qualcosa in meno di un altro… Non invidiano l’altro perché lui è riuscito, si vergognano di non essere al suo posto.

Il problema del settore agricolo e pastorale in Sardegna è un problema complesso, che ha molte cause. Cercare di risolverlo solo affrontando uno degli aspetti, delle facce, non aiuta. Continuare a parlare di assistenzialismo, per esempio, non è corretto. Da almeno un decennio è stato inserito il concetto di “condizionalità”: i contributi vengono erogati a condizione che l’allevatore rispetti determinati impegni; sulla qualità del latte, per esempio, o sul benessere degli animali, o, ancora sulla messa in opera di misure per la profilassi di alcune malattie.

Ci sono poi i contributi alla produzione, necessari per abbattere i costi. Adesso, per esempio, tutti aspettano che la Regione si faccia carico delle giacenze di pecorino romano, perché con questa zavorra i caseifici non possono garantire un prezzo del latte dignitoso. E sarà così fino alla prossima emergenza.

La Sardegna non ha un organismo pagatore regionale, ma fa capo ad Agea, organismo nazionale che si occupa di Sud e Isole. Agea ha un carico di lavoro enorme, le pratiche vengono elaborate con una lentezza esorbitante, anche dopo due anni. E spesso è proprio dopo due anni che rilevano una piccola incongruenza che costringe a ricominciare tutto daccapo. I fondi non spesi vengono ridistribuiti tra le regioni più virtuose, quindi se quelle del Sud non spendono (perché non ne hanno la possibilità materiale) i soldi vanno alle regioni del Nord.

I pastori, e la gestione delle aziende, sono cambiati moltissimo negli ultimi 50 anni e questi cambiamenti, che sono generalizzati, non sono frutto di scelte ma di obblighi man mano imposti, obblighi che l’Italia prima e la Sardegna poi non hanno negoziato, a cui non sono corrisposte politiche e investimenti seri e che ricadono totalmente sui pastori. Tutto il sistema dell’allevamento ovino, dall’inizio del ‘900, è stato spinto verso il conferimento, con una selezione estrema dei capi finalizzata a massimizzare la produzione di latte.

I pastori, anche se si riuniscono, non possono incidere molto sul sistema. Servirebbero politiche mirate, di lungo respiro e investimenti seri. Pensate a quanto è stato speso per i relativamente pochi operai e come decine di migliaia di persone sono sempre state lasciate a se stesse.  Probabilmente andrebbe totalmente rivisto anche l’indirizzo produttivo. Mi chiedo se è ancora valido l’assioma produrre di più per guadagnare di più. Forse è arrivato il momento di produrre meno e meglio, di destagionalizzare, di incentivare il biologico.

Il settore agropastorale, in Sardegna, è vitale per l’economia. Oltre ai lavoratori diretti ha un indotto importantissimo: dai piccoli e grandi caseifici, ai trasportatori, ai commercianti di carne e frutta e verdura, ai rivenditori di farmaci, attrezzature agricole, macchine agricole, concimi e sementi, ai professionisti del settore: agronomi, veterinari, organizzazioni agricole, agenzie agricole (Argea, Laore, Agris) e il comparto costituito dall’apparato burocratico messo in piedi per le domande, gli aiuti comunitari e italiani, la Pac, i primi insediamenti, eccetera, viene gestito da un terziario che, di fatto, esiste perché
esistono gli allevatori e gli agricoltori.

In cambio dei soldi che arrivano a singhiozzo, in ritardo e con rilevanti penalizzazioni, gli allevatori hanno avuto un aumento esponenziale della burocrazia che li tiene legati alle organizzazioni per compilare le domande e gestire la banca dati. I veterinari pubblici non fanno più nemmeno il foglio rosa, lo devono fare gli allevatori al computer e inviarlo on line.Ora, questi sono i fatti.

Il prezzo del latte, ma in generale di tutto il cibo, non è stabilito dal produttore, bensì dal commerciante. In molti settori che producono beni di prima necessità, vitali per la salute e il benessere di tutti, il prezzo del prodotto all’origine non viene fatto tenendo conto dei costi di produzione, mentre se vado a comprare un telefonino, o un bene di lusso come una Ferrari, per esempio, il discorso è diverso.

E gli industriali? Lungi da me pensare che non debbano guadagnare col loro lavoro. Però hanno il rischio di impresa che li fa guadagnare di più. Dovrebbero dunque rischiare, anche di avviare nuove produzioni e proporre innovazioni al mercato. Solo pochi lo fanno, e non diversificano sufficientemente. I piccoli e medi caseifici cooperativi, invece, producono quasi esclusivamente pecorino romano. La sovrapproduzione di pecorino romano che risente troppo degli umori del mercato, condiziona pesantemente il prezzo del latte: se rimane invenduto, il prezzo del latte cala.

Considerando che uno dei maggiori acquirenti è il mercato statunitense non si prevede un futuro roseo. Nonostante tutti i formaggi eccellenti che siamo in grado di produrre, i caseifici non riescono a prendersi nemmeno il rischio di diversificare la produzione, di produrre un formaggio differente, di andare incontro alle esigenze di mercato, anche in termini di pezzatura o, per esempio, usando il caglio vegetale o ancora producendo e pubblicizzando il formaggio stagionato che è naturalmente privo di lattosio. In questo modo andrebbero incontro alle nuove esigenze dei consumatori, sempre più vegetariani e sempre più intolleranti. Per non parlare del formaggio di capra che se non si consuma entro due giorni, diventa immangiabile. Se penso a cosa riescono a fare i francesi con il latte di capra mi viene da piangere.

Pensate ancora che sia davvero tutta colpa degli allevatori? A mio avviso sono proprio gli allevatori le prime vittime del sistema, di un sistema che tappa dei buchi e non investe in una seria programmazione. E allora chiediamoci: chi ci guadagna da tutto ciò? Perché se un problema non si affronta, non lo si vuole risolvere.

*Medico Veterinario

 

 

Lascia un commento