Violenza tra passato e futuro. Il pesante fardello della Storia [di Sebastiano Mariani]

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Ho ascoltato e letto quanto  è stato pubblicato  del convegno sulla “Violenza tra passato e futuro” tenutosi recentemente ad Orune e vorrei aggiungere qualche considerazione personale, visto che Orune è il mio paese natale e sul fenomeno ho fatto una ricerca storica che abbraccia circa due secoli e mezzo. Ho potuto registrare ben oltre  300 morti violente  e di molte  di esse ho potuto  esaminare lunghi e articolati fascicoli processuali dai quali si possono rilevare utili elementi di giudizio su un fenomeno, il delitto di sangue,  che ciclicamente sconvolge non una ma tante Comunità barbaricine.

Negli elenchi degli assassinati  si trovano da sempre non solo maschi adulti ma anche  donne, bambini e  bambine. Non è vero che nel passato la donna veniva rispettata a tutti i costi. Gelosia, scatti d’ira, tentativi di aggressione sessuale, raptus alcolico e non ultimo dissidi patrimoniali e inimicizie radicate erano i fattori scatenanti dei  delitti, che talvolta si manifestavano con autentiche stragi di innocenti. I suicidi, derivati o indotti, erano frequentissimi.

I delitti di sangue non esauriscono i loro effetti negativi con la commissione del fatto e, nella migliore delle ipotesi,  con la condanna del responsabile, ma continuano a produrre tossine sociali sotto forma di odio, di vendetta, di  paura, di sfiducia esistenziale nei soggetti interessati. Se consideriamo che il periodo medio per “dimenticare” una offesa di sangue e quindi ripulire le coscienze e i relativi comportamenti va alle nostre latitudini da 50 ai 150 anni, si può ben capire quale peso sociale si porti dietro una Comunità  che deve ammortizzare, “biodegradare”, gli effetti di centinaia e centinaia di omicidi, ciascuno dei quali ha prodotto riflessi negativi su decine o centinaia di persone.

E’ facile dedurre che una Comunità viaggi con un fardello pesantissimo  che rallenta,  se non ferma del tutto, il suo sviluppo sociale. Quel fardello è dentro l’inconscio dell’individuo e si trasferisce man mano all’intera Comunità. Difficile allora fare una analisi dell’oggi che non tenga conto anche del passato e dei meccanismi che lo hanno regolato.

E’ sempre attuale  il tema storico mai completamente svolto   della discrasia esistente nel rapporto tra individuo e Stato  e in particolare con la giustizia. Analizzarne – per la ennesima volta – le origini e i fattori della sua persistenza credo sia purtroppo  indispensabile se si vuole in qualche modo arrivare a codificarne il DNA attualizzato,  per poi tentare di curarla e portarla ai limiti fisiologi in una società ormai non più solo pastorale ma in gran parte post-industriale.

In Sardegna e in particolare in Barbagia non ci sono solo due entità  giuridiche, Stato e Cittadino,  ma ce n’è un terza, non meno importante e non meno influente nei rapporti tra le prime due : la Comunità.   Si potrà obbiettare che la comunità esiste dappertutto,  più o meno formalizzata, più o meno condizionante, ma in Barbagia il suo ruolo è del tutto speciale. Assume vero e proprio ruolo giuridico con un suo codice non scritto ma vincolante. Che sia essa la famiglia, s’ereu, il clan, il paese o persino la regione geografica,  la Comunità  è  la cinghia di trasmissione tra Stato e Cittadino e il suo ruolo può essere di olio lubrificante dell’ingranaggio di trasmissione ma può anche trasformarsi in granello di sabbia che rallenta o addirittura interrompe il rapporto tra Cittadino e Stato.

La Comunità è colei che coagula  il sentire comune, il giudizio di approvazione o di condanna sia verso il singolo che verso lo Stato.  Mentre nei confronti del singolo il suo parere è immediato e tangibile sia con azioni di solidarietà e di appoggio o  di rifiuto e di isolamento, verso lo stato può solo mostrare sfiducia, disistima, a volte ribellione, ma quasi sempre  senza alcun beneficio concreto. In Barbagia la Comunità ha finito per sentirsi quasi totalmente controparte dello Stato, non abdicando però al suo ruolo di giudice severo verso il singolo ma con un codice che non coincide più con quello dello Stato.

La Comunità si è organizzata in funzione di supplenza e di alternativa allo Stato creandosi un suo codice autonomo,   riconosciuto e accettato perché immediato ed efficace  nel regolare i conflitti, sia nel bene che nel male. L’elemento periferico di questa trasmissione che è il cittadino non ha più un solo interlocutore ma due, Stato e Comunità e di volta in volta viene attratto o obbligato sia dall’uno che dall’altro  a stare dalla propria parte. Il cittadino si affida a quello che in quel momento ritiene più affidabile o più conveniente, non a quello che ritiene più giusto. La scelta avviene, non solo sulla base della convenienza contingente ma anche sulla base del “sentimento” che si nutre nei confronti dei due poli.   La paura funge da elemento complementare a tutto il resto.  Nella gestione delle dinamiche delittuose il codice comunitario in Barbagia è ancora dominante.

Lo Stato, la Comunità e il Cittadino, nonostante questa intrusione e confusione dei ruoli, non esitano a “usarsi” a vicenda secondo la convenienza e non sempre secondo le regole.  Nel pregoni del 1700 era previsto che ad arrestare il reo di un delitto fosse il Majore de Villa, il sindaco di oggi,  e qualora questi non ottemperasse  al suo dovere era lui che veniva punito con l’esilio o altre sanzioni. Il Majore de Villa rappresentava e garantiva per la Comunità, con un ruolo dunque non passivo ma attivo nella composizione dei conflitti e la sua autorità era riconosciuta sia dal singolo che dal sovrano e aveva dunque potere di dirimere le vertenze sia con la interlocuzione tra le parti sia con la forza.

Il conflitto nasceva dentro la Comunità e dentro la stessa Comunità si amministrava la giustizia, nessuno dei soggetti era estraneo all’altro e la sopravvivenza reciproca imponeva ad ognuno comportamenti virtuosi che non lo delegittimasse nel suo ruolo.   Lo Stato unitario ha avocato a sé tutte le funzioni di pubblica sicurezza ma non sempre ha agito con limpidezza,  imparzialità e lungimiranza.  La norma ancora presente a fine 1800 che a chi denunciava e favoriva la cattura di un reo era per questo perdonato ogni suo reato ha favorito il fenomeno della delazione interessata e del “tradimento”, che a sua volta produceva vendette in misura esponenziale creando ex-novo e moltiplicando,   non eliminando,  i fenomeni criminosi.

La parola traditore, spia, delatore, che per lo Stato rappresentavano strumenti positivi (utili) della macchina della giustizia, per il cittadino sono uno strumento di corruzione delle coscienze da condannare e da eliminare con la forza e la violenza.  Spesso e volentieri sono stati gli stessi esponenti dello Stato e delle sue articolazioni a cercare pericolose e dannose scorciatoie di repressione gratuita e violenta. Ricordiamo ancora gli elenchi dei confinati e delle persone con porti d’arma e patenti ritirate solo in quanto presunti simpatizzanti di latitanti difficili da catturare. Il desiderio di una onorificenza e di uno scatto di grado talvolta faceva scattare un grilletto assassino.

Anche tutto questo va ad appesantire quel fardello e se per alleggerirlo ci vogliono tempi lunghissimi, basta un nuovo episodio per ricaricarlo in misura esponenziale.  La giustizia giusta non sta nei codici ma nei fatti e quando questi non sono coerenti con le norme che li regolano allora queste  vengono ignorate, il Cittadino torna a contare solo sul perimetro affettivo della sua persona, che trova soddisfazione nella sicurezza che riesce  ad auto-assicurarsi o nella violenza per eliminare i pericoli esterni. Omertà, falso, solidarietà e supporto al reo in quanto anche lui nemico dello Stato, come contropartita di una pur precaria sicurezza che le strutture dello stato non riescono a dare.

Il testimone reticente sa bene che si sta facendo tre nemici, la parte offesa, lo stato e anche il reo dal quale forse riceverà le minacce peggiori. La sua incapacità di scegliere non dipende solo dal suo inadeguato sentire civile ma anche dalla incapacità di chi dovrebbe aiutarlo e decidere e non lo fa.

Questo sentire individuale che si tramanda da secoli diventa coscienza collettiva e dunque sentimento negativo di sfiducia verso lo stato. Tra Stato e Cittadino, chi ha gli strumenti e i mezzi per rimediare alla discrasia non può che essere il primo, ma nei fatti questo risultato che tanto si attende ancora non si vede. Il progresso delle scienze giuridiche ha oggi quasi del tutto eliminato dal proprio vocabolario il concetto di espiazione di pena, sostituendolo con il più civile concetto di recupero del condannato per essere reinserito a pieno titolo nel circuito della vita civile.

Concetto e progetto nobilissimo se si tenesse conto anche della natura umana, di colui che quel crimine ha commesso e che è disposto a commetterne un altro nei confronti di chi ha contribuito a condannarlo …..a redimersi. Nelle cronache di centinaia di casi che ho avuto modo seguire nelle mie ricerche ho potuto constatare quanto il condannato abbia aspettato il momento per vendicarsi di colui che aveva testimoniato contro (per !!) di lui.

Per contro, la parte offesa rimane in attesa di un ristoro da una giustizia che sembra invece interessarsi solo del recupero del reo, mentre lui è persino condannato a subire l’onta di vedere il suo aggressore oggetto di attenzioni premurose da parte di Stato e Istituzioni. Tutto questo non fa che gettare i famosi granelli di sabbia dentro l’ingranaggio.

Nel quadro descritto, di uno Stato poco o nulla autorevole, a sprazzi autoritario, della Comunità sempre in bilico tra il più forte e il più debole ma più protesa verso quest’ultima parte e infine il Cittadino,  opportunista,  che sfrutta le debolezze di entrambi o cede alla paura più incombente,  non può che esserci il perpetuarsi dei fenomeni  criminali  che di copertura degli stessi.  Si certifica una società malata.   La natura dei crimini di oggi non è molto diversa da quella arcaica, istinto, pulsioni patologiche, desiderio di ricchezza, vendetta   son sempre gli stessi, i soggetti coinvolti anche, gli strumenti e le motivazioni si adeguano a basta, il crimine è nella natura umana.

Gli elementi che abbiamo analizzato sono soltanto una sovrastruttura del delitto, che finisce  per essere nuovo terreno di coltura dello stesso, ma i  motivi scatenanti del delitto sono dentro il grande calderone della vita e cultura sociale : povertà, emarginazione, ignoranza, disoccupazione, subcultura, mancanza di un orizzonte di vita accettabile,  la stessa natura umana.  Il delitto è un batterio che si moltiplica molto di più nei luoghi degradati e poveri ed è sempre pronto  ad incubarsi e la violenza del futuro ci porterà quasi certamente a ripetere le stesse cose di oggi, come oggi accade per ieri.

Sono tanti i denti dell’ingranaggio che bisognerà revisionare per armonizzare il movimenti dei tre poli e far si che uno sia di perfetto e indispensabile ausilio a tutti gli altri. L’obbiettivo è persino paradossale  se si pensa che tutte e tre le entità sono composte, gestite e regolate dallo stesso soggetto : l’individuo, colui che indossa tutti e tre gli abiti : per regolare, per  uccidere, per punire  se stesso.

Il fenomeno dunque non può essere analizzato prendendo in esame solo  il singolo fatto contingente con le sue specificità e le sue sfumature, ma impone un tentativo nuovo ed originale di riscrivere le regole della convivenza civile in Barbagia.  Spopolamento, azzeramento demografico, regresso economico, evaporazione culturale ci dicono che il delitto è solo la febbre di un organismo malato, ma la sua malattia e le reazioni ad essa sono antiche e ancora molto gravi ed è necessario un rimedio epocale, straordinario, mai tentato prima.

 

 

Ho chiamato “Il dovere di una Utopia”  la mia post-fazione di un lungo racconto della storia del mio paese che  mi ha convinto che Orune, come altre comunità barbaricine,  è sull’orlo del baratro dell’estinzione, ridotto ad un terzo dei suoi abitanti e con un indice di fertilità prossimo allo zero. Quell’Utopia è il suono delle campane per riunire ogni intelligenza e competenza ad elaborare un progetto pilota di rigenerazione della Comunità barbaricina. Pina Ghisu lo ha riportato in altra parte del sito e credo che rileggerlo non sarebbe del tutto tempo perso.

2 Comments

  1. Pina Ghisu

    Testo molto interessante, che ci offre la possibilità di conoscere e riflettere meglio sul nostro passato e stimola tutti , spero in primis i nostri politici , a ideare seriamente ,partendo da Orune, un progetto-pilota che vivifichi le nostre Comunità barbaricine .

  2. Ena

    Bona sera piachere Ena stevene naschidu a or une ma fattu unu grande piachere de légère custu libre de s’ignore Mariani mi cuntentu de de tôt tu custasa cosasa de or une mi presento so nepode de brillinu sono in belgium indiriziu Ena stevene rue conbantans anderlues 615o

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