In Sardegna non c’è troppo latte, c’è troppo Pecorino Romano [di Nicolò Migheli]
L’immagine che viene in mente è quella dell’uomo legato ad una ruota di mulino; appena crede di essere salvo e di poter respirare la forza dell’acqua lo costringe ad immergersi. Il settore agropastorale sardo è così da circa cento trent’anni. Da quando gli imprenditori laziali sbarcarono nell’isola per produrre il Pecorino Romano per soddisfare la domanda degli italo-americani che nei piatti della tradizione trovavano il conforto alle dure condizioni di vita negli Usa. Pastorizia e Pecorino Romano un binomio che è stato croce e delizia del settore, sottoposto a crisi cicliche, quest’ultima però corre il rischio di diventare per certi versi strutturale. Una crisi, eccettuati gli ultimi tre anni in cui il prezzo per brevi periodi aveva raggiunto i 10€ a chilo franco stabilimento, che dura dagli anni 2.000, forse da prima, da quando venne abolita l’integrazione comunitaria, per circa 5.000 lire a chilogrammo i trasformatori ne ricevevano altrettante dalla Ue. Gli anni ’90 videro il moltiplicarsi di stabilimenti dedicati alla trasformazione del latte in Romano, soprattutto le cooperative che costruirono strutture rigide, difficilmente adattabili ad altre tipologie. Ancora oggi il 65% della produzione è fatto dalla cooperazione, il resto dagli industriali privati. Un sistema che negli anni ha permesso rendite di posizione, la trasformazione di alcuni protagonisti in intermediari che hanno lucrato sul prodotto e del conseguente prezzo del latte. Nessuno scandalo, è il mercato bellezza, si potrebbe dire citando Bill Clinton. Come sottolinea Maria Cristina Stocchino su queste pagine, le aziende pastorali non sono più quelle della tradizione, hanno fatto i cosiddetti compiti a casa, hanno innovato, si sono razionalizzate. Oggi, come non mai, il latte sardo è ad alti livelli di qualità, di quella che i parametri europei hanno stabilito essere tale. Il nucleo del problema è dunque dentro i meccanismi della trasformazione e commercializzazione, anche se sono i pastori a pagarne lo scotto finale in termini di riduzione di prezzo. Il Pecorino Romano è il 60% circa della produzione complessiva di formaggi da latte di pecora della Sardegna, in Italia il 48% del totale, il più importante formaggio Dop derivante da latte di pecora nell’Unione Europea a 28. La produzione del Pecorino Romano coinvolge 11.000 aziende zootecniche, circa 25.000 addetti complessivi e 37 caseifici di cui solo 2 in Lazio, il resto in Sardegna. Un sistema complesso che assicura reddito ad un indotto vasto. Una piccola FIAT di altri tempi, si potrebbe dire. Il 70% di questo formaggio è destinato all’esportazione, in gran parte negli Usa, dove però l’essere a marchio viene svilito dalla sua trasformazione in materia prima. In gran parte formaggio da grattugia che va ad arricchire nelle preparazioni dell’industria alimentare miscele di formaggi anonimi; questo nonostante nel tempo alcuni produttori abbiano abbassato il tenore di sale dal 7 al 3% rendendolo appetibile come formaggio da tavola. Il suo essere commodities è il suo più grande limite, lo sottopone a alternanze di prezzo tipiche delle materie prime. Basta guardare le oscillazioni di prezzo negli ultimi 6 anni per rendersene conto: 2010, una media di 4, 86 al kg.; 2011, 4,85; 2012, 5,18; 2013, 6,40; 2014, 7,99; 2015, 9,14; 2016, 7,04; gennaio 2017, 5,30, prezzi del formaggio con stagionatura 5 mesi, sulla piazza di Milano. Nel 2016 sono stati prodotti circa 370.000 quintali di formaggio quando il Consorzio di Tutela ne prevedeva solo 270.000 con una eccedenza di 100.000 quintali di invenduto, portando ad una previsione del prezzo del latte intorno ai 65 cent. quando il pareggio e pari a circa 70 centesimi di euro. Nel contempo però si assiste ad una altro fenomeno, la diminuzione e quasi scomparsa di altri formaggi Dop come il Pecorino Sardo ed il Fiore sardo di cui sono stati prodotti rispettivamente 10.414 e 5.550 quintali nel 2015. Il Pecorino Sardo rispetto al 2014 ha avuto una diminuzione del 17,79% rispetto ad un aumento del Pecorino Romano negli stessi anni del 25,09%, fonte CLAL. it. Un esperto del settore mi diceva che nel 2016 è avvenuta una diminuzione dei formaggi delle tipologie citate di altri 12.000 quintali equamente suddivisi. Numeri e quantità che inducono riflessioni. Il mercato del Pecorino Romano non riesce a smaltire una produzione che sia superiore al tetto programmato dal Consorzio di Tutela, quest’ultimo però che strumenti coercitivi ha per farlo rispettare? Peraltro il futuro delle esportazioni in Usa non si prospetta facile. Il protezionismo e la probabile guerra commerciale tra Usa e Ue potranno vedere quel formaggio come vittima. Già oggi negli Stati Uniti si producono succedanei con latte vaccino e sale e nuovi mercati per il Romano non sono facili da conquistare. È possibile che ancora oggi tutto un comparto debba dipendere da una sola tipologia di formaggio? Mentre l’Assolatte, l’associazione degli industriali del settore, stima che la domanda mondiale cresca in modo costante, a tassi del 4,4% annuo, e questo porterà il settore caseario a tagliare nel 2019 il traguardo dei 100 miliardi di dollari di giro d’affari (+32,2%). Si aprono nuovi mercati soprattutto in Asia ed altri potranno avvantaggiarsene. Eppure noi abbiamo formaggi di prima qualità, possiamo dichiarare la loro provenienza da pascolo, hanno un alto tenore di CLA, e in questi tempi salutistici è un atout importante. In questa prospettiva non possiamo perdere un litro di latte, insistere invece sulla diversificazione, mettere in campo campagne di comunicazione che interessino i persuasori come i medici e i nutrizionisti come da anni fa il Consorzio del Parmigiano Reggiano. Abbiamo bisogno di una grande riforma del settore e questa volta non tocca i pastori, bensì tutti gli altri aspetti della filiera. Non farlo significa, al di là della facile retorica del semus totus pastores, far scomparire un settore che nel bene e nel male produce reddito ed esporta. |
Con la presente segnaliamo che la produzione certificata di Pecorino Sardo DOP nell’anno 2015 è stata pari a Q 14.142 e NON a Q 10.414… facendo registrare (e questo dato è corretto) un calo del 17,8% rispetto all’annata 2014.
Un bel problema.
un enorme problema perchè se oggi il governo fissa un prezzo fisso per il latte di pecore sarde, poi domani vorranno fare la stessa cosa altri allevatori e cosi via
poi come se ne esce?