In vita e in morte del Partito democratico [di Tommaso Cerno]
L’Espresso 17/02/2017. La sola domanda che ci faremo dopo questo brutto film sarà: “Mentre il mondo esplodeva, di che cosa parlava la sinistra italiana?” Partiamo da una citazione talmente celebre che finisce per essere sottovalutata, fino a quando – a forza di provarla sulla nostra pelle – si dimostra l’archetipo dell’essere italiano. Nel Principe, Nicolò Machiavelli scrive che il successo di un regnante – si direbbe oggi di un leader – dipende per metà dalla fortuna e per metà dalla virtù. Significa che non c’è al comando mai la pura casualità, né la pura follia, né la pura capacità. Quel che sta succedendo al Pd è, dunque, l’epilogo di una storia. Cominciata con una classe dirigente inadeguata, simboleggiata dalla figuraccia di Pier Luigi Bersani alle politiche 2013. E terminata con una classe dirigente altrettanto inadeguata. Simboleggiata da un Matteo Renzi irriconoscibile. E dalla nostra copertina che incide la data di nascita e di morte non della sigla “Pd”, ma del sogno che essa aveva animato. Perché il Partito democratico non perde elettori o dirigenti, cosa che capita in politica, ma perde peso e credibilità agli occhi di tutta la parte laica e progressista del Paese. Si scioglie nell’anima, non nella struttura. Poco importano le beghe fra correnti e la frattura, prima personale e solo poi politica, che si sta rapidamente consumando in queste ore, di fronte a ciò che resta: “Il fu Partito democratico”. Da quel 2007 a oggi sono passati dieci anni. E ora sappiamo che, comunque vada, ciò che uscirà dal congresso non è più ciò che ci era entrato: il Pd come l’avevamo conosciuto. Sulla crisi dei democratici è stato scritto e detto di tutto. Politologi, militanti, blogger, editorialisti e mezzi busti da talk show. Eppure c’è qualcosa di atavico, qualcosa di interiore di cui ti vergogni, c’è un riflesso automatico che cerchi di occultare e che invece si manifesta più nitido di tutto. Quando, fra dieci anni, lontani dai riflettori e dalle polemiche della cronaca, fuori dai tatticismi e dalle giravolte politiche, analizzeremo questo momento storico, dove sta cambiando “l’uomo” e il suo modo di stare al mondo, ci chiederemo: di cosa stava discutendo la sinistra italiana? Di cosa, mentre milioni di donne e uomini urlavano la propria rabbia e il proprio no al modo in cui abbiamo concepito la politica dalla caduta di Hitler e Mussolini in poi? Di cosa lor signori mentre un miliardario saliva sull’Air Force One con il plebiscito della classe più povera d’America? E di cosa mentre nel cuore dell’Europa democratica risorgevano gli spettri del nazionalismo e della xenofobia? Di mozioni, tessere, conferenze programmatiche, regole, documenti fotocopia e ancora mozioni. Di nulla. La parola d’ordine che nel 2007 aprì al sogno di una sinistra maggioritaria nel segno del Pd era “fusione”. A freddo magari. Tenuta insieme con lo scotch dell’antiberlusconismo, se vogliamo. Ma adesso la parola più pronunciata a sinistra è diventata “scissione”. Non è un caso. È un’inversione di polarità, un ribaltamento del processo culturale che ha tentato di archiviare le vecchie ideologie e di traghettare il cattolicesimo sociale e l’ex comunismo, pentito, nel socialismo europeo. E invece niente. Renzi sì, Renzi no, prigionieri di un referendum interiore che condanna la sinistra a perdere per i prossimi anni le elezioni. A vantaggio, deciderà il Paese, di un grillismo che – nemesi vuole – nasceva proprio nello stesso anno del Pd, nel 2007, con un grido “Vaffa” che si sta mutando in desiderio di governo. Dentro un processo, pur incidentato, di parlamentarizzazione che va nella direzione opposta ai democratici di nome, ma non di fatto. Oppure alla destra neo-berlusconista, guidata da chi saprà mostrarsi a ciò che resta del Cavaliere quel modello di “italiano medio” che Berlusconi, piaccia o no, ha saputo decifrare meglio del campo avverso. Diverte che in questa Chernobyl politica ci si diletti con le virgole e gli apostrofi. Diverte che la domanda sia: quanto durerà il governo? Come se un brutto film fosse più o meno brutto perché dura un quarto d’ora in meno o venti minuti in più. Nello spettatore elettore, ciò che lascerà sarà il medesimo senso di estraneità, di fastidio, di lontananza. E alla domanda: quanto è durato? La risposta sarà: che me ne importa. Ma la sinistra no. Lei sa come si fa. Sa ripetere il mantra dei tempi nuovi, quello che dice «dobbiamo ritrovare la fiducia dei nostri elettori, dobbiamo parlare a quella gente che ci ha voltato le spalle». Retorica. E pure di bassa lega. La verità è che l’Italia, soprattutto la sinistra italiana, vive un eterno 8 settembre. Abbiamo dentro l’archetipo che demolisce ogni progetto includente. Non possediamo l’anticorpo del governo. Quello che consente di distinguere fra un’idealità che deve volare sempre più alta e la responsabilità del compromesso, tale solo in virtù di un fine, chiudendo sulla citazione machiavellica: materializzare (almeno in parte) le promesse fatte.
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Io direi che Renzi e’ riconoscibilissimo nel suo essere attaccattissimo alla poltrona, come i suoi illustri colleghi, ormai cadaveri politici. Lui non ancora conclamato, chiede le elezioni subito per uscire dal dubbio se farsi imbalsamare subito o dopo la prossima sconfitta elettorale…
Per quanto riguarda la fine del PD, credo che interessi solo a lui e ai suoi compari…