La percezione dell’ambiente nella cultura agropastorale [di Nicolò Migheli]

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Pubblichiamo l’intervento tenuto al Convegno organizzato dal FAI Sardegna Venerdì 17 Febbraio Il paesaggio, la bellezza, l’ambiente aiutano il cuore. Il cuore li salva. Palazzo De La Vallée Via Torino 21, Cagliari (N.d.R.)

Già il concetto stesso di percezione implica difficoltà di lettura. Se non altro perché per percezione si intende un’attività cognitiva dove intervengono motivazioni personali, la cultura del gruppo di appartenenza, le proprie esperienze in relazione con il mondo e il vissuto. Da aggiungere che, a mia conoscenza, non esistono ricerche specifiche che ci raccontino del rapporto dell’allevatore e del contadino con l’ecosistema e come quello spazio venga percepito. Un’analisi che voglia essere attendibile deve per forza di cose partire da un’ indagine sul linguaggio e su come esso costituisca rappresentazione del mondo e relazione con esso.

Il termine ambiente applicato all’ecosistema è di recente introduzione in italiano. Lo è ancor di più in sardo. Lo si usa ma è un prestito che ci viene dalla lingua italiana. Maria Antonietta Mongiu, ricordava che il termine natura in sardo definisce l’organo genitale femminile, il luogo in cui si nasce. I sardi però per definire quel che si  intende per natura in italiano, usano un prestito castigliano: naturalesa. A differenza dello spagnolo, in sardo è un sostantivo che ha bisogno di una aggettivo o di una specificazione, non vive in solitudine.

Ecco perché diciamo sa naturalesa de su logu, per descrivere l’ambiente di quel luogo, oppure attribuito ad una persona od a un animale per indicarne il carattere. L’uso della parola indica che la definizione stessa di natura, è frutto di una relazione, di un rapporto, il mondo esiste perché io, soggetto, lo definisco. Nessuna novità se si pensa alle migliaia di anni di speculazione delle scienze umane, però resta sempre sorprendente scoprirlo nell’uso quotidiano del linguaggio.

Se la percezione è rapporto con l’esistente e i luoghi, è bene indagare sui quattro ambiti dove l’attività agropastorale si è esercitata nei secoli ed oggi. Quindi: la selva, il coltivato, il terreno privato e quello pubblico. Per selva è da intendersi il bosco fitto. In sardo la si chiama padente, buscu, monte. Però il termine silba, letteralmente fronda, è anche connotazione di luogo di scarsa antropizzazione. Ad esempio Silbanis è il toponimo di un bosco fitto tra Santu Lussurgiu e Scanu di Montiferro, dove esiste tutt’oggi il bosco di agrifogli più grande d’Italia.

La selva è il luogo del non civilizzato, in cui ci si addentra con timore, è natura animata, patria degli spiriti e dei selvatici. La selva nella società tradizionale, veniva utilizzata con cautela, luogo di pascolo dei maiali, capre e bovini, si raccoglievano i frutti, si faceva provvista di legna per il fuoco, per le costruzioni, ma sempre con grande rispetto. O almeno è stato così prima che lo sfruttamento intensivo operato dai piemontesi cambiasse in certa misura il rapporto. Nonostante ciò, nel fondo culturale è rimasto una sorta di timore per un luogo reputato sacro che la modernità sta progressivamente cancellando. Il coltivato: la parola italiana non rende la complessità del rapporto tra il contadino e la terra.

Meglio il termine sardo contivizu, e il verbo contivizare che all’attività della coltivazione associa quella di cura. Anche in questo caso la parola può essere usata per la terra così come per una persona, òmine sena contivizu, è individuo trascurato, ignorante, che non adempie al suo farsi uomo, un processo che implica una intera esistenza. Bi nde cheret a facher òmine. Un modo di dire che più che nell’obiettivo da raggiungere, trova il suo completamento nel viaggio, in una educazione, nel domare le proprie passioni negative. Allo stesso modo contivizare un terreno esprime il dominio, la possibilità di utilizzarne sa naturalesa, in modo da usarla per il proprio vantaggio.

Nella società tradizionale lo sfruttamento intensivo era precluso non solo dalla mancanza di mezzi moderni, ma anche da una cultura che conosceva il limite. Quindi alternanza delle colture, divieto di pascolamento per rispettare la ricostituzione del manto erboso, taglio delle macchie infestati di rovo, spietramenti superficiali, concimazioni organiche con il letame, arature dolci, le sole che la forza animale poteva permettere; lavorazioni attente di orti, frutteti, vigne ed oliveti, dove il fatto bene assume valenze del bello, dell’ordinato, del civile. Basti pensare a quell’agricoltura d’azzardo che sono i terrazzamenti, dove la sfida alla naturalesa, si traduceva in un piegare il suolo per permetterne la conservazione. Coltivazione, cura e mantenimento nello stesso tempo.

I due macro-ambienti descritti trovano modalità d’uso nella proprietà della terra sia essa pubblica o privata. Però le due categorie influiscono, non poco, nella percezione dell’ambiente e dell’ecosistema. Proprietà pubblica che le comunità hanno in concessione. La consuetudine ne ha permesso l’utilizzo dei singoli a seguito di contratti, spesso non scritti, che regolamentavano il taglio del bosco, il pascolamento e la semina. Contratti che avevano inscritto un principio di uso limitato, non più di una certa quantità di legna per famiglia, di are di terreno seminate, di un numero di animali immesso al pascolo.

Ogni trasgressione veniva considerata come appropriazione di risorse comunitarie, in questo principio trova spiegazione l’abigeato. Il furto di animali come sistema auto regolativo delle risorse comuni. Finché il controllo sociale era alto, l’uso della terra era sostanzialmente accurato, benché i casi di iperpascolamento e degrado fossero presenti anche in altri tempi. Ora con l’abbassamento del controllo sociale, con la diminuzione degli operatori spesso le terre pubbliche sono diventate una sorta di res nullius, un luogo di deresponsabilizzazione, in cui si può fare tutto perché non vi è controllo e quindi sanzione. Ben altro invece l’atteggiamento rispetto alle terre di proprietà privata.

Intanto bisogna sfatare una leggenda: la privatizzazione delle terre in Sardegna è ben più antica dell’Editto della Chiudende. Una proprietà limitata a frutteti, vigneti, orti e oliveti, di cui si ha testimonianza già nei Condaghes. Una proprietà di pochi. L’editto savoiardo operò una privatizzazione della maggioranza delle terre che erano in concessione alle comunità. Ma il senso de su meu, della proprietà della terra, è antecedente a quel vulnus degli usi comunitari. Ed una società rurale che vive la proprietà della terra come libertà dagli affitti da pagare, come primo sostentamento della famiglia concepisce quel diritto come assoluto. Una sorta di proprietà perfetta non soggetta ad obblighi terzi. Est su meu e bi fatzo su chi cherzo.

Se per alcuni questo atteggiamento ha significato protezione e cura, per altri invece è stato il permesso per sfruttamenti eccessivi. Però la società tradizionale aveva un senso storico del valore della risorsa terra; era consapevole che doveva essere tramandata agli eredi e quindi il sovrasfruttamento, un negare risorse a chi verrà. È pur vero che erano società povere, che non producevano rifiuti, dove il riuso degli oggetti avveniva fino a distruzione totale di questi. Un atteggiamento virtuoso nonostante incendi e danneggiamenti delle proprietà altrui. La rottura di questi usi e costumi, dei percorsi di lunga durata in rapporto con l’ecosistema, avviene con la modernità che agisce come rottura delle pratiche colturali e con una diversa concezione del valore della terra.

Grande responsabilità hanno i tecnici in agricoltura dei decenni scorsi, che spingendo gli operatori agricoli verso la quantità, hanno permesso e a volte consigliato, spietramenti profondi, arature pesanti in crinali che a mala pena sopportavano l’arato a chiodo, generando smottamenti e instabilità dei suoli durante i temporali. La natura presentata come dominabile, stravolgibile secondo le esigenze umane, ignorando che lei prima o poi avrebbe presentato il conto. Il guasto però è di tipo culturale, perché induce una sorta di superficialità sulle eventuali conseguenze, tanto ci sarà sempre la tecnica che verrà in aiuto risolvendo il problema. Un atteggiamento fideistico che però non tiene conto del prezzo da pagare sia oggi che nel futuro.

L’altro aspetto, visibile quanto l’altro, è la tradizione del riuso che importa negli ovili oggetti estranei che diventano inquinanti. Quando è cominciato? Probabilmente negli anni ’50 quando le coperture in sughero e canne de sos pinnetos, vennero sostituite con sos lamones, che altro non erano che dei fusti di benzina aperti ed appiattiti. Il risultato fu che quei ricoveri pastorali, un tutt’uno con il paesaggio e l’ambiente, vennero trasformati in manufatti di bidonville. Da quel varco non solo estetico ma concettuale, passarono i pneumatici di camion e di trattore tagliati a metà ed usati come mangiatoia, le reti di letto come cancelli, le vasche da bagno come abbeveratoi, i frigoriferi dismessi come dispense.

Alcuni ovili in questo modo si trasformarono in semi discariche a cielo aperto. Queste osservazioni non vengano viste come rimprovero perché non lo sono, sono solo la constatazione che il valore ambientale va conquistato nel tempo. È una acquisizione culturale. Eppure a volte basta poco, quattro pietre e un po’ di terra che nascondono la vasca da bagno, trasformano un oggetto da inquinamento visivo in un abbeveratoio frutto di un riuso virtuoso. In realtà però quanto scritto prima è già il passato, perché nel frattempo sono intervenuti fatti nuovi. Il primo è il Piano Paesaggistico Regionale della  Sardegna che, nonostante il suo percorso accidentato e la difficoltà nell’accettazione di quelle norme, ha portato ad una nuova consapevolezza.

Il paesaggio è un valore non negoziabile. Già il termine paesaggio è una acquisizione recente, ma non lo è quello di panorama. La lingua sarda che potrebbe usare il cultismo greco, ha una sua definizione, quella di acradu, che indica un luogo alto da cui potersi affacciare e nello stesso tempo la vista che si può godere da quel posto. Un termine di totalità che fa scorgere il limite. Ad esempio una torre eolica, nonostante il poco reddito che dà al proprietario del terreno che ne ha accettato l’installazione, viene vissuta dallo stesso come una imposizione del suo bisogno di reddito ed un vulnus alla bellezza del luogo. Quanto dico non è una affermazione teorica, ma il frutto di alcune confidenze ricevute.

Il PPR ha favorito un processo di ri-conoscibilità, quel che prima non aveva valore, lo assume perché una fonte autorevole lo dice. L’altro aspetto, per nulla secondario, è che la produzione delle materie prime agricole come il latte e la carne, sono state equiparate recentemente dalle leggi alla produzione di cibo. L’atto legislativo si è tradotto in un controllo non solo del benessere animale, della pulizia di stalle e sale di mungitura, ma anche dell’ambiente circostante, con conseguente scomparsa nel tempo di quegli arredi di recupero.

Va tutto bene quindi? Purtroppo no. Perché l’inquinamento si è trasferito dalle aziende alle strade, ai boschi comunali. Di questo però è ingiusto accusare gli operatori agricoli, o almeno non solo loro. Un fenomeno che si è allargato in dismisura con la raccolta differenziata, che evidentemente in molti non accettano. Il paradosso è che gran parte di questi paga il servizio di ritiro dei materiali ingombranti e dei rifiuti solidi urbani, ma nel contempo si sottopone  al rischio di pagare sanzioni pesanti, alla fatica e al costo del trasportare un rifiuto ai bordi di una strada o in una foresta.

Oltre al danno la beffa. In conclusione si può dire che la consapevolezza del valore ambientale, come molte sensibilità umane, non è valore dato per sempre. È un processo di maturazione, un’acquisizione culturale che ha bisogno di tempo per sedimentarsi e diventare un corretto atteggiamento verso il mondo e la natura. La speranza è che la noncuranza verso l’ecosistema sia solo una parentesi dell’illusione industrialista che ha dominato la Sardegna negli ultimi sessant’anni. Speranza però che ha bisogno di azioni di sostegno continue, di scoperta e riscoperta del senso e del valore dell’ecosistema. Cose che il FAI Sardegna fa in maniera ottima. Grazie.

 

2 Comments

  1. Paolo Numerico

    Percezione, natura, naturaleza de su logu e così via. Imparo il Sardo e imparo la storia dell’ambiente sardo. Grazie Nicolò. Paolo Numerico

  2. Cristina Cometti

    Molto interessante il percorso espositivo dal lessico al PPR, nell’ appassionata bellezza del testo. Grazie.
    Cristina Cometti

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