La lettera a Sinistra italiana [di Rossana Rossanda]
il manifesto, 19 febbraio 2017. Quando ieri al congresso di Sinistra Italiana un giovane compagno ha terminato di leggere questo messaggio inviato da Rossana Rossanda tutti si sono alzati in piedi e hanno intonato l’Internazionale, il pugno alzato nel saluto comunista. Cari compagni, vi ringrazio per la vostra lettera e l’invito a partecipare al vostro dibattito congressuale. È evidente che mi interessa. Ho letto i documenti che avevate da qualche tempo preparato, ma potete comprendermi se mi riguardano come materiale di riflessione piuttosto che come decisione di schieramento. Vi prego di tenere presente, oltre alla mia età e al mio stato di salute, il lungo percorso che ho fatto. E con non poche sconfitte. Non me ne rincresce. Ma mi obbliga – a quanto sembra diversamente dalla maggior parte dei fermenti che si sono sviluppati intorno alla crisi del Partito Comunista Italiano, prima e, poi, del Partito democratico – a uno sguardo e a un bilancio su quella che è stata la storia passata del movimento operaio italiano e, almeno, europeo. Si tratta di un secolo di elaborazione teorica e di lotte. Di vite, insomma, rispetto alle quali mi pare eccessivamente disinvolto passare senza soffermarsi. Tanto meno sono disposta a seguire gli eredi di Berlinguer quando hanno pensato di poter ripartire da zero. In realtà, mi pare che la loro sia stata una resa senza condizioni alle opinioni di quello che chiamavamo «avversario di classe». L’ammissione, cioè, che fosse inutile rivedere testi ed esperienze, sia del partito comunista e del movimento operaio italiano, sia dei cosiddetti «socialismi reali», per rimontare senz’altro a Marx e dichiararlo liquidato. Siamo ancora all’interno di un sistema capitalista. In che misura e dentro quali limiti si è andato modificando? E, soprattutto: è ancora il terreno sul quale, nel «lavoro», si materializza il soggetto che non ne sopporta lo stato di soggezione – peggio: di alienazione – in cui è tenuto? Oppure è questo elemento che si è venuto modificando, a causa di quella che chiamiamo tecnologia e che un tempo, in più diretto collegamento col rifiuto del sistema, chiamavamo «lavoro vivo» e «lavoro morto»? Certamente è cambiato il punto di aggregazione del lavoro dipendente, cioè la fabbrica (almeno in Occidente, perché altrove resta come forma residuale). E la scomparsa della fabbrica implica o no la scomparsa del proletariato come zona immensa della società non proprietaria? Mi è capitato di leggere di molti attuali pensatori che dubitano del concetto di «classe». Ma dubitarne, senza sostituirvi un concetto fondatore diverso, significa dubitare della possibilità di una materializzazione del soggetto politico del cambiamento. E, allora, a che servirebbe un partito comunista riveduto e corretto, o, ancor meno, un partito democratico? Perfino una teoria di «compromesso sociale» – come sono state, subito prima della guerra, le teorie di Keynes e di Minski – presuppone l’esistenza di un disagio di fondo che divide le nostre società, e di qui il bisogno di cambiare i rapporti sociali. E infatti, non per caso, anche questi nomi, già pilastri di una certa socialdemocrazia, sono oggi coinvolti, senza una spiegazione, nella crisi finale dell’organizzazione capitalistica dominante. È che su questa crisi sembrano lavorare piuttosto studiosi di provenienza diversa da quella del movimento operaio (come Luciano Gallino che ripeteva, negli ultimi scritti: «La lotta di classe esiste ancora e l’hanno vinta i capitalisti»). Questa domanda non la ritrovo nei tentativi della maggior parte di chi si propone di dare un esito all’attuale, tormentosa vita delle sinistre italiane. Un ragionamento analogo vale a proposito del «soggetto politico del cambiamento», che è, anzi, un aspetto dello stesso problema, rimasto irrisolto dal secolo ventesimo: quello sulle o sulla libertà. Con il voto del 4 dicembre, è stata ribadita l’importanza della Costituzione. Ma la Costituzione imposta il problema di una convivenza dell’intera società, comprese, anzi garantite, le sue dialettiche di classe (guardate in proposito al ragionamento di Mario Dogliani nel sito del Centro per la Riforma dello Stato). Non si tratta, però, dello stesso discorso che può valere come orizzonte di una parte essenziale e conflittiva della società, specialmente quella che riguarda il soggetto del cambiamento. Vale a dire come questione relativa al lavoro, quale è stato ed è. E delle nuove questioni antropologiche – come quella posta dalle donne – sviluppatesi alla fine del secolo scorso. Di fatto, mi sembra che non si sia andati oltre al dilemma reale del Novecento: fra garanzia dei diritti civili e nessuna garanzia dei diritti sociali, oppure, all’opposto, garanzia dei diritti sociali e nessuna garanzia dei diritti di libertà. A ben vedere, si ripropone, anch’essa come irrisolta, la questione che nel secolo scorso era stata posta soprattutto da Louis Althusser: se il marxismo, teoria e lotte, debba essere visto come una filosofia o una scienza. Da cui consegue il problema di come debbano organizzarsi i soggetti del cambiamento, se attraverso un partito o diversamente. La risposta, che sembra venga data da una larga maggioranza in Italia, è che di partito non si possa più parlare. Il che ha prodotto – con il consenso di nuovo di una maggioranza – una disarticolazione che ha di fatto assegnato il potere decisionale a una organizzazione semi-privata come il Movimento Cinque stelle (al quale non a caso hanno aderito diverse persone che eravamo abituate a chiamare «compagni»). Non voglio farla lunga e neppure affronto i problemi che ci pose il leninismo. I socialismi reali e i partiti comunisti si sono dissolti senza neppure affrontare le domande che avevano lasciate irrisolte. Desideravo solo indicarvi sommariamente, almeno attraverso qualche esempio, quali, e di quali dimensioni, siano le questioni che il Novecento ha lasciato aperte e sulle quali non mi sembra si possa passare oltre senza tentare di impostare risposte fino ad ora non date. Vi ringrazio ancora per l’amicizia che mi avete dimostrato e vi auguro buon lavoro. Parigi, 16 febbraio 2017 |