Se Sant’Avendrace è periferia [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 22/02/2017. La città in pillole. L’espansione a occidente ha poco modificato la dimensione di “borgo”. Bisogna ammettere che il sindaco di Cagliari ci ha provato a rimediare e c’è quasi riuscito. Rasenta lo sproposito la definizione di “periferia” per Sant’Avendrace. Pecunia non olet, si dirà. I bandi pubblici talvolta, piuttosto che riconoscere la città nella sua complessità, costringono chi amministra a compartimentarla ulteriormente. Ce ne stupiamo per i luoghi che conosciamo grazie al vissuto ed ancora di più se la loro identità è arricchita da narrazioni di scrittori, poeti, studiosi, fotografi, cineasti che hanno costruito un vocabolario difficilmente superabile. Tanto da stratificare una percezione che oltrepassa la matericità per diventare pura immaterialità. Quella che il “Codice dei Beni culturali e del paesaggio” recepisce come un valore paesaggistico. Periferia è parola antica, ma oggi è metafora di marginalità e di povertà. L’inurbamento ne ha moltiplicato la dimensione di esclusione. Ma non per Sant’Avendrace. Persino l’espansione verso occidente dei Piani Regolatori di Giuseppe Sbressa (1842) e Gaetano Cima (1858), ne ha poco modificato la dimensione di “borgo”. Accezione più urbana della definizione “castellum” data alla rocca. Standoci a Sant’Avendrace, dagli spalti di Villa Mulas alla Strada Reale fino alla laguna, se ne coglie la densità storica e soprattutto la centralità. Chi lavorò alla Strada Reale, negli impianti di calce, nella ferrovia, a Santa Gilla sapeva che Sant’Avendrace era erede dell’urbano profondo che spazia dalla città fenicia alla giudicale. Abitava minute case che, raccontano, la regina madre di Inghilterra nella visita del 29 aprile del 1961 confuse con stalle di cavalli. Ad ognuno il suo sproposito. |