Intervista a Silvia Mei [di Roberta Vanali]

mei

E’ una realtà brutale e spietata, quella dove convivono gli inquietanti protagonisti dell’immaginario di Silvia Mei (Cagliari, 1985. Vive e lavora a Milano). Ibridi antropomorfi, freak in preda alle proprie ossessioni, agli incubi più terrifici che costellano l’esistenza umana, si stagliano incombenti sulla superficie pittorica. Al di là di facili compiacimenti estetici, l’artista si lascia dominare da una istintività primigenia e perversa che affonda le radici nel disagio fisico e mentale laddove il gesto pittorico diventa catartico. La violenza di un’umanità selvatica, al limite del bestiale, si pone in antitesi al tentativo quasi decorativo di alcuni particolari arabeschi che emergono a rievocare ricordi d’infanzia. Attraverso un’espressività ambivalente generata dalla destrutturazione formale e dalla trasfigurazione della realtà che attinge all’Art Brut per rendere visibile l’invisibile.

Da dove origina la tua ricerca pittorica e in quale direzione si sviluppa?

Nasce dall’osservazione della pittura e del disegno infantile e dall’arte outsider, in ogni caso mi riferisco a quella che è più spontanea possibile, gestuale e viscerale. Non so mai di preciso dove si sviluppa, so solo che si svilupperà al passo con ciò che sarà la mia necessità pittorica.

Descriviti con tre aggettivi

Eterogenea, insicura, determinata.

Qual è la tua formazione e a quali artisti guardi?

Ho frequentato il Liceo Artistico di Cagliari e successivamente mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti di Sassari e recentemente (sempre in pittura) all’Accademia di Brera. Guardo più che altro gli artisti del Novecento, quelli che hanno dato vita ai nostri contemporanei come Picasso, Matisse, Van Gogh, Gauguin, gli espressionisti, Munch, Kahlo, Basquiat, ma anche Otto Dix, Ensor, Julian Schnabel, Cy Twombly, Cornell, Vedova, Ligabue, Baselitz, Rauchemberg, Beuys, De Kooning, De Pisis, Hockney e tanti altri.

Definisci brevemente il concetto di “bellezza”

E’ qualcosa di talmente personale e senza regole che non so se posso definirlo. Senza dubbio mi piace il brutto nel bello e vedo bello il brutto. Ma non è solo questione estetica, credo che sia più che altro un qualcosa legato allo spirito e così è anche nei miei dipinti: bello e pulito sarebbe  regolare e stabile quindi finto. Mi spiego meglio, quello che nei miei dipinti solitamente viene visto esteticamente come brutto, per me, rappresenta il disagio, il malessere, la malattia, la deformità, la solitudine, quindi è il ritratto soprattutto di un disagio psichico che emerge attraverso il corpo o viceversa (una malattia fisica che si protrae all’interno, alla psiche). Ma i miei personaggi – non belli – vogliono anche richiamare una realtà primitiva, più animalesca e quindi più autentica, scevra da tutte le sovrastrutture create dalla nostra società.

Qual è stato l’evento o la mostra più importante per il tuo percorso?

Penso che ogni passo che ho fatto sia stato fondamentale per quello successivo, a partire dalle mostre personali nella mia terra all’ultima che ho fatto a New York. Ogni evento è stato fondamentale e stimolante per quello successivo.

Da dove è nata l’esigenza di spostarti a Milano?

Avevo bisogno di guardarmi attorno, (anche se sento sempre questa necessità) perciò decisi che una volta conclusi gli studi a Sassari avrei preso la specialistica a Brera in modo tale da poter vivere in un altro contesto artistico e possibilmente vivere di sola pittura.

Il gesto pittorico segue un istinto liberatorio o di esplorazione?

Si equivalgono.

Hai fatto del ritratto il tuo mezzo espressivo, perché?

E’ dal volto che emergono i sentimenti ma è anche con esso che li reprimiamo. A volte, anche se frenati emergono comunque e il mio è un invito a non ignorarli. Credo sia un modo per richiamare l’attenzione verso la sensibilità delle persone, verso determinate emozioni.

Quanto è introspettiva la tua ricerca?

Parecchio introspettiva, anche quando trattasi di vicende altrui che “ovviamente”, prima di arrivare al supporto, devono passare attraverso il mio corpo.

I tuoi gusti cinematografici e musicali

Ascolto tantissima musica e ho gusti molto diversi in base all’umore e alla giornata, oppure cambio totalmente per bilanciare l’atmosfera creata dalle musiche precedenti (dal classico all’hardcore ma ascolto credo di tutto a parte i neomelodici). Per il cinema invece sono più esigente, non amo i film d’avventura, d’azione, i fantasy e non mi piacciono quando hanno effetti speciali irreali. Amo quando ripenso al film che ho visto anche per settimane intere.

Qual è ultimo libro letto?

Un libro su William Kentridge.

L’Art Brut in quale modo si differenzia da quella Naif?

Nel Naif autodidatta si percepisce che vi è una ricerca armonica del dipinto, mi sembrano più controllati rispetto agli artisti dell’Art Brut. Quest’ultima invece rappresenta le opere di persone totalmente estranee al mondo dell’arte, in particolare dei pazzi e le loro opere sembrano più dei raccoglitori delle loro anime. Molto viscerali, senza filtri, ma siccome dipende comunque dagli artisti potrei dire che si distinguono come artisti “coscienti” e artisti “non coscienti”.

A quale progetto lavori in questo momento e quali sono i futuri?

Ora sto dipingendo per una mostra che dovrei avere a febbraio, penso poi di realizzare nuovi dipinti-canzoni e, anche se credo fra tanti mesi, ho in mente di riprendere la scultura.

*Critica d’Arte contemporanea

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