In margine all’articolo “Il paesaggio, i borghi e le periferie” di Maria Antonietta Mongiu [di Mariano Cocco]
In sintesi, secondo la Convenzione europea del Paesaggio (2000) ed il D.L. 22 gennaio 2004, n. 42, le caratteristiche del paesaggio derivano dalle interazioni dei fattori naturali e/o umani. Ed il paesaggio Sardo, come riconosce il PPR è frutto delle “interazioni della naturalità, della storia e della cultura delle popolazioni locali”. Sul piano teorico penso che ci sia una larga convergenza sui concetti sopra riportati, mentre sulle modalità pratiche della sua conservazione sono inevitabili gli attriti, a causa delle diverse opinioni delle diverse parti sociali. Il braccio di ferro fra diverse opinioni, non solo porta il rischio che il termine paesaggio si “trasformi in un guscio vuoto”, ma espone il paesaggio stesso al rischio di essere trasformato in qualcosa di diverso da quello che viene percepito dalle popolazioni ad alla perdita delle caratteristiche identitarie. Per quanto riguarda i paesaggi agro-forestali, le cause degli attriti sono tante: le incomprensioni dovute a divergenze di percezione fra chi vi lavora e chi ne usufruisce per il tempo libero; l’incomprensione delle interazioni uomo-ambiente e delle diverse fasi dinamiche che hanno condotto ad un determinato risultato visivo; l’incomprensione delle pratiche di lavoro necessarie alla sua conservazione; l’ambiguità del linguaggio decontestualizzato che può portare ad interpretare in modo diverso il significato delle parole; l’insidia dilagante della tuttologia a buon mercato favorita dal web. Per avere un’idea di quanto, fra le parti sociali, possa essere ampio lo spettro della divergenza di opinioni ed il livello di fantasia che porta alla loro formulazione, è di aiuto considerare che le incomprensioni sono tutt’altro che rare anche in abito scientifico, che è lo strumento di indagine più oggettivo a disposizione dell’uomo. Infatti anche fra studiosi dell’ambiente, come per esempio il dottore naturalista ed il dottore forestale, possono nascere divergenze anche sul significato dello stesso termine. Prendiamo la parola “autoctona”, riferita ad una determinata specie vegetale presente allo stato spontaneo in aree limitate del territorio regionale: il primo, rifacendosi al concetto di “vegetazione potenziale” che esclude l’interferenza dell’uomo, individuerà un sub-areale ben circoscritta, al di fuori della quale riterrà che la specie sia alloctona, mentre il secondo, che vede maggiormente l’aspetto pratico e funzionale, allargherà le maglie e riterrà che la specie sia da considerare autoctona per l’intero territorio regionale. Hanno tutti e due ragione in base al loro metro di giudizio, eppure corrono il rischio di accapigliarsi per affermare la loro posizione. Forse è necessaria un evoluzione del modo di rapportarsi e di comprendersi nella diversità di vedute. Pertanto a mio modesto avviso, se non si vuole che, in balia delle opinioni, il paesaggio perda le sue caratteristiche, è necessario partire dalle origini, ovvero dalla preservazione del lavoro e delle pratiche colturali che hanno dato luogo allo specifico paesaggio da tutelare. Ben vengano i convegni e le disquisizioni filosofiche, ma se non si considera che nel concreto è necessario anche il lavoro, i vincoli ed i divieti non saranno in grado di garantirne la conservazione. Penso che tutti abbiano avuto modo di constatare che un edificio storico abbandonato è destinato a diventare una rovina e che quasi tutti possono comprendere facilmente che, per mantenerlo in buono stato, è necessaria la manutenzione ordinaria e straordinaria. Invece mi pare meno avvertito che, senza il perpetuarsi del lavoro tradizionale che ha caratterizzato il paesaggio agro-forestale, non sia possibile la sua conservazione . Può darsi che la scarsità di risorse che vengono messe a disposizione per la conservazione degli elementi del paesaggio derivi dalla sottovalutazione di questo aspetto. Mentre in passato erano economicamente sostenibili le meticolose operazioni di sistemazione (terrazzamenti, muri a secco, ecc.), funzionali alle produzioni necessarie per il sostentamento delle popolazioni rurali (fruttiferi, pascoli, prodotti animali, legna e ghiande del bosco), che abitavano anche le zone più impervie, ora non lo sono più. Senza un aiuto al reddito, le produzioni nei territori svantaggiati, sono diventate insufficienti al sostentamento e questo sta conducendo all’abbandono, con il conseguente inselvatichimento, e c’è chi plaude, nell’illusione del ritorno ad una mitica naturalità, che va evidentemente nella direzione opposta alla conservazione del paesaggio. |