Come deve cambiare il Partito Democratico? [di Giovanni Scano]

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Il Partito Democratico per sopravvivere deve diventare un partito aperto, trasparente e partecipato. Ciascun iscritto, simpatizzante, cittadino dovrebbe poter comunicare su qualsiasi tema riguardante la vita pubblica. Sarebbe nostro interesse, se vogliamo essere quello che abbiamo detto di voler essere. Cioè, il partito del cambiamento. Ma non quello  che ripeteva Renzi fino a un minuto prima di conoscere il risultato del referendum. E che continua a ripetere.

A proposito: l’ho sentito solo io quando disse che se il risultato non fosse stato quello da lui auspicato si sarebbe ritirato dalla politica attiva?

Dobbiamo proporre un nuovo modello di sviluppo, basato sulla compatibilità ambientale, (non dobbiamo consumare più risorse di quante la natura sia in grado di rigenerare), basato sulla qualità piuttosto che sulla quantità e sul riutilizzo attraverso una più efficiente raccolta differenziata e la produzione di quelle che vengono chiamate materie seconde. Dobbiamo proporre anche un nuovo modello di società, basato sulla solidarietà tra persone, che non lasci nessuno indietro.

Il PD è oggi un partito blindato, chiuso alla partecipazione dei non conformisti, di coloro, cioè, che non osannano il leader, ma anche semplicemente alla partecipazione di quella che chiamiamo base. L’Unità è un bollettino di partito. Della maggioranza del partito. Ha smesso di essere un giornale a pieno titolo, come invece era stato in passato, persino quand’era Organo del Partito Comunista Italiano.

Il sito nazionale del Partito ospita solo le posizioni della maggioranza (fanno eccezione solo gli interventi nella Direzione e nell’Assemblea Nazionale). La comunicazione e l’informazione avvengono a senso unico, dal centro verso la periferia, come se si dovesse comunicare il verbo, e mai dalla periferia verso il centro, come se i nostri dirigenti nazionali non avessero bisogno di sapere nulla, non avessero da imparare nulla.

Ricordo che con la segreteria Bersani si poteva comunicare col vertice, e persino criticare o polemizzare, su qualsiasi argomento. Faccio l’insegnante e si poteva interagire con i responsabili del settore. Adesso non è più possibile e le riforme calano dall’alto. Manca una visione d’insieme. Si agisce per settori, nel migliore dei casi.

Si prenda la sedicente buona scuola. Non ha cambiato lo stato dell’istruzione in Italia. Mentre in Europa si parla di Learning to learn, imparare a imparare, da noi si continua a pensare che i discenti siano semplicemente dei baskets (cestini). Non si adempie al dettato costituzionale che dice che compito primario dell’istruzione è la formazione del cittadino responsabile e partecipe perché l’apprendimento è un’attività interattiva. Non può essere a senso unico o qualcosa di statico e di totalmente predefinito.

Altra riforma calata dall’alto è stata quella istituzionale, bocciata dagli elettori il 4 dicembre. Si trattava di un insieme pasticciato e inadeguato rispetto alle problematiche che si proponeva di risolvere. Comprese  la semplificazione e la diminuzione dei costi della politica. Ma se l’obiettivo era davvero questo, bastava abolire il Senato e diminuire il numero dei deputati fino a 300, massimo 400? Perché non portare i loro emolumenti a 3000 euro netti mensili più rimborsi spesa riguardanti l’adempimento della loro funzione rigorosamente rendicontati? Perché non discutere subito e portare rapidamente all’approvazione proposte di legge tra cui quella di Matteo Richetti?

Se vogliamo farle, le cose si possono fare. Se non le abbiamo fatte, finora, vuol dire che non le abbiamo sapute o volute fare. O anche entrambe le cose.

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