Pd, un partito nato fuori tempo massimo [di Tommaso Nencioni e Giaime Pala]
il manifesto, 5 marzo 2017. La crisi che sta attraversando il Pd riguarda e interroga tutte le forze progressiste: non tanto per continuare a coltivare l’illusione che l’ennesima diaspora di gruppi dirigenti sia di per sé sufficiente a garantire un riscatto dei subalterni. Ma perché è lo specchio nazionale della più generale crisi istituzionale che sta attraversando tutto l’occidente. Il Pd è fallito perché è fallita la cornice dentro la quale era stato costruito, quella della governance neoliberale. La costituzionalizzazione cioè dell’idea che all’interno delle società, finalmente pacificate in seguito alla caduta del muro di Berlino, non ci siano conflitti, e quindi interessi da elevare e altri da reprimere, ma “problemi” a cui dare risposte “tecniche”. Risposte magari da trovare anche attingendo dal calderone radicale, purché rimangano all’interno del perimetro di ciò che da noi si attendono “i mercati”. Il “centrismo radicale”, insomma, che può prosperare sia in regime di grande coalizione (Germania) che bipolare (paesi anglosassoni) che tecnico (l’Italia ha sperimentato tutte e tre le versioni), ma che sottende comunque l’esistenza di un meta-partito unico delle classi dominanti. Il peccato originale del Pd non è stato quello di essere il prodotto di una fusione a freddo tra culture differenti (e già allora fortemente diluite), ma di essere nato fuori tempo massimo. In un’epoca, cioè, nella quale ancora si pensava che la “globalizzazione reale” era – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui il partito guardava come al perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto. Il Pd, dunque, si presentò ai cittadini come un partito post-ideologico, post-nazionale e post-classista, che avrebbe efficacemente guidato l’inserimento dell’Italia nel villaggio globale, assicurando al tempo stesso per le classi lavoratrici il mantenimento di livelli di welfare accettabili per resistere alla crescente precarizzazione dei loro impieghi. Lo stesso europeismo era considerato non tanto un progetto volto alla creazione di un’entità politica continentale con una forte identità sociale (e autonoma dagli interessi geopolitici statunitensi), ma come una via privilegiata per inserire il paese nella rete delle interdipendenze globali, rompendo le rigidità che rendevano difficile questa operazione. Finché ha avuto senso l’antiberlusconismo militante, che assicurava un’identità progressista, e, d’altra parte, si manteneva un clima sociale accettabile, il progetto pareva andare incontro ad un futuro promettente. E’ stata la crisi del 2011 a far saltare il banco. La segreteria di Bersani non seppe (o non volle) vedere che la crisi degli spread, che lo Stato non poteva arginare – privo com’era di una Banca Centrale che sostenesse il debito pubblico -, rappresentava una grave torsione nel funzionamento della nostra democrazia; e che, a causa delle condizioni imposte dalla Bce e dal governo tedesco (Fiscal Compact, pareggio di bilancio), i poteri pubblici non potevano realizzare le politiche anticicliche necessarie a tenere a galla il paese. Mentre un’esigua élite nazionale si avvantaggiava dello stato d’emergenza per imporre drastiche misure di svalorizzazione del lavoro come via più rapida e più comoda alla ripresa dei profitti. Insomma, la tanto decantata «Europa» si era trasformata in una gabbia le cui imposizioni peggioravano i conti pubblici, i livelli occupazionali e la vita dei cittadini in generale. Ormai abbandonata, con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, la retorica sugli Stati Uniti d’Europa e l’unione fiscale continentale che avrebbero reso sostenibile l’adozione della moneta unica, il Pd si è limitato a rafforzare la sua immagine di “partito della responsabilità” di fronte ad uno stato permanente di emergenza economica e di avanzata dei “populisti”. Un partito che, senza mai precisare in che maniera e con quali strumenti, avrebbe lottato per riorientare la politica economica della zona euro verso l’agognata “crescita”. Naturalmente, dato il rigido controllo imposto dall’ex area del marco sulla costituzione gerarchica europea, Renzi non ha potuto ottenere niente più di un lieve margine negli obiettivi di rientro dal deficit, largamente insufficienti per far uscire l’Italia dalla deflazione e la stagnazione, ma pagati utilizzando la svalutazione del lavoro come merce di scambio. Il Pd non è così in condizione di tornare ad assicurarsi un consenso maggioritario nel perimetro del suo vecchio elettorato, che poco a poco prende coscienza che gli appelli all’Europa della crescita e del lavoro si stanno convertendo in un programma buono per le calende greche, i giorni cioè destinati a non arrivare mai. La crisi generalizzata della governance neoliberale, e di quelle sinistre moderate che ne erano state i più coerenti alfieri, non apre tuttavia automaticamente le porte ai progetti di emancipazione popolare. Una nuova destra aggressiva ed esclusiva affila le armi e pesca nel consenso e nelle paure dei subalterni, un tempo rappresentati dal movimento operaio organizzato. Il fallimento del Pd sta lì a dimostrare che non serve abbarbicarsi attorno alle certezze di ieri, se non a farsi travolgere dal loro tramonto. Nell’interstizio che si apre tra il vecchio che muore ed il nuovo che non sa nascere tocca inventare la democrazia di domani, prima che appaiano i mostri.
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