Perdere la dimora: la povertà estrema ci riguarda [di Sabina Licursi]
Le persone senza dimora sono fra noi ma non sempre riusciamo a vederle; quando ci accorgiamo della loro presenza (non di rado perché coinvolte in fatti di cronaca) ripetiamo a noi stessi che sono poche-povere-sfortunate. Probabilmente, però, va crescendo il sottile e pungente timore di poter fare anche noi quella fine, di entrare a far parte dei più poveri tra i poveri. Un incubo, che diventa sempre più ricorrente per quanti si ritrovano magari a non avere un lavoro o ad averlo perso, a non poter più contare sul sostegno della famiglia o a vivere l’esperienza di una separazione coniugale e di uno tsunami relazionale.
Anche nell’immaginario collettivo accade, quindi, che l’homelessness venga percepita sempre più come esito di un processo, di uno scivolamento verso forme estreme di impoverimento. Perdere tutto, trovarsi da soli e senza una dimora ad affrontare un quotidiano che in ogni suo attimo conferma la precarietà esistenziale, erode la dignità dell’individuo e lo avvia verso un deterioramento interiore che in un tempo breve ne cambia il volto e le aspettative, inducendolo a strategie di coping che mai avrebbe pensato di saper praticare (elemosinare, passare la notte in un dormitorio, mentire sulla propria identità, compiere piccoli furti e simili).
A dare maggiore visibilità al fenomeno e a delineare un profilo comune del senza dimora contribuisce la ricerca condotta da fio. PSD (la federazione che raccoglie molte organizzazioni che si occupano dei senza dimora in Italia), Ministero della Solidarietà Sociale, Caritas Italiana e Istat, i cui dati sono stati resi noti a fine 2012. Da questa prima indagine sulla condizione delle persone senza dimora in Italia, non solo emergono interessanti dettagli sulle caratteristiche dell’homelessness, ma ne deriva la demolizione di molti pregiudizi.
Le persone senza dimora nel nostro Paese sono circa 45 mila (e si tratta sicuramente di un dato sottostimato perché conteggia solo quanti si sono rivolti a servizi di mensa o dormitori durante il mese in cui è stata condotta la rilevazione e non tiene conto dei minori), la loro incidenza sulla popolazione non è diversa da quella che si registra nella maggior parte dei paesi sviluppati (lo 0,2% della popolazione residente), non sono tutti stranieri (lo sono meno di 60 homeless su 100), fra loro ci sono anche le donne (il 13% del totale) e solo il 9,3% non è riuscito a rispondere alle domande del questionario. Sebbene siano presenti persone anziane e con un periodo medio-lungo di vita in strada (con tutte le conseguenze che questo comporta sulle condizioni fisiche e psichiche), i senza dimora sono soprattutto giovani (italiani e stranieri): circa 33 su 100 hanno tra 18 e 34 anni, 25 su 100 tra 35 e 44 anni. Fra gli italiani, oltre il 70% prima di diventare un homeless viveva nella propria casa. Fra gli stranieri la percentuale si abbassa, ma solo 20 su 100 vivevano una condizione di homeless prima di arrivare nel nostro Paese. Soprattutto, gli eventi critici che segnano lo scivolamento verso questa forma di povertà estrema sono la perdita del lavoro (circa 62 su 100 hanno perso un lavoro stabile), la separazione coniugale e/o dai figli (sperimentate da poco meno di 60 intervistati su 100) e la malattia (precarie condizioni di salute sono dichiarate dal 16% del totale); eventi che si presentano spesso insieme e conferiscono anche a questa forma specifica di impoverimento un carattere multifattoriale.
Non sempre, inoltre, la condizione di homeless si lega ad una rottura e/o ad un allontanamento dai principali circuiti di inserimento nella società: oltre un quarto degli intervistati lavora (si tratta chiaramente di attività saltuarie, di occupazioni a termine e di lavori a bassa qualifica e con scarsa redditività), più della metà riceve aiuti in denaro da familiari, amici o associazioni di volontariato e una percentuale analoga di intervistati si è allontanata dalla città in cui aveva l’abitazione.
La condizione di homelessness si presenta, insomma, molto meno eccezionale di quanto si creda, così come il frame non è più il deserto relazionale in cui si definiva l’esperienza del clochard. Ancora, includendo nella condizione di senza dimora, come fa appunto la definizione Ethos (European Typology of Homelessness and housing exclusion), anche le persone che vivono in abitazioni insicure (ad esempio sotto sfratto esecutivo) e inadeguate (ad esempio in roulotte), l’homelessness diventa una componente dell’esclusione grave non trascurabile, che non è definita solo dalla fisicità dell’abitazione ma anche dal significato relazionale e giuridico della dimora.
Cosa si fa per gli homeless? Le politiche per i senza dimora nel nostro Paese non hanno un passato; l’unico tentativo innovativo è stato rappresentato dall’articolo 28 della legge 328 del 2000, ma tagliate le risorse che avevano consentito sperimentazioni interessanti, tutto è tornato immobile per anni. Un cambiamento rilevante potrebbe derivare dalle strategie di intervento presenti nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”, che il ministro Fabrizio Barca ha presentato a fine 2012. In esso la condizione delle persone senza dimora o con varie forme di disagio abitativo viene presentata come la situazione di maggiore criticità all’interno della popolazione a rischio di esclusione e povertà e si ribadisce che gli interventi dovranno realizzarsi promuovendo servizi integrati e utilizzando i fondi Fse e Fesr. Possibilità sostenuta anche dalla fio.PSD e che consentirebbe di andare oltre i servizi esistenti, insufficienti, tradizionali e di tipo essenzialmente emergenziale.
Ovunque si pongono due questioni. La prima è quella di distinguere fra i senza dimora che hanno bisogno di interventi rieducativi e di sostegni lunghi e gli homeless che, adeguatamente supportati sul piano delle risorse (materiali e relazionali), possono rendersi protagonisti della loro esistenza. L’esperienza dell’Housing First in diversi paesi europei prova che, a partire dalla casa, il rientro nella società per molti homeless è possibile, è veloce ed è meno costoso degli interventi socio-sanitari che si rendono necessari quando la condizione di senza dimora diventa cronica.
La seconda questione è quella della prevenzione, possibile anche per l’homelessness, se si supera l’idea che essa sia figlia del fato e si riflette sulle più gravi sofferenze in termini di risorse culturali e relazionali dei senza dimora; se si interviene sulle persone che sperimentano eventi come la perdita del lavoro e/o la dissoluzione del nucleo familiare; se si individuano forme di sostegno efficaci per gli stranieri e per quanti provengono da esperienze di istituzionalizzazione (servizi di accoglienza residenziale per minori allontanati dalla famiglia o senza famiglia, carceri, case di cura) che costituiscono il 13% della popolazione dei senza dimora; se si lavora sulla povertà minorile, per ridurre il rischio di impoverimento delle generazioni future, che fra i suoi peggiori esiti ha anche una diffusione dell’homelessness.
*da: www.slega.net
|