Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente [di Giovanni Fornero]
MicroMega.it 21 marzo 2017. Ci sono stati mutamenti nella bioetica cattolica dopo l’elezione di Papa Francesco? Se lo chiede Luca Lo Sapio nella recente edizione (UTET, 2017) di Bioetica laica e bioetica cattolica nell’era di Papa Francesco. Che cosa è cambiato?. La questione si trova impostata anche nell’introduzione al testo di Giovanni Fornero, che ringraziamo, insieme all’editore, per averci concesso la pubblicazione del testo. 1.Significato della dicotomia.Sebbene qualcuno lo neghi (o minimizzi) che esista una diversità e, su taluni temi di fondo, una contrapposizione fra la bioetica di area cattolica e la bioetica di area laico-secolare è qualcosa di storicamente e concettualmente documentabile. Soprattutto se per bioetica “cattolica” si intende la bioetica cattolica ufficiale. Con questo non si intende alludere, come talora avviene, a una semplicistica contrapposizione tra fede e ragione, bensì, più profondamente, alla distinzione fra due modelli o paradigmi etici che, pur facendo entrambi appello alla ragione, hanno una diversa fisionomia teorica. Quando si parla di “paradigmi” si pensa subito – e talora esclusivamente – a Thomas Kuhn. In realtà, pur essendo stata adoperata da questo studioso per descrivere la storia della scienza,1 l’idea di paradigma possiede ormai un’autonoma valenza concettuale, che va oltre la sua accezione strettamente epistemologica. Tant’è che oggigiorno si parla non solo di paradigmi scientifici, ma anche di paradigmi metafisici, etici, teologici ecc. Da ciò la necessità, a mio giudizio, di un lavoro di riconcettualizzazione che, pur partendo da Kuhn, sappia procedere oltre Kuhn e permetta di applicare proficuamente tale nozione anche in altri ambiti del sapere e, nella fattispecie, in bioetica. Lungi dallo “scimmiottare” il noto filosofo e storico della scienza, mi propongo quindi di delineare una nozione riveduta di paradigma che, pur accogliendo talune suggestioni di Kuhn non coincide con quella di Kuhn (anzi, per certi aspetti, si allontana da essa). Dei “paradigmi” ho trattato in diverse occasioni.2 In questa sede mi propongo di offrire una sintesi aggiornata delle mie idee sull’argomento, con l’aggiunta di alcune nuove considerazioni e precisazioni, volte a esplicitare meglio il mio punto di vista in proposito. 2.Una nozione “postkuhniana” di paradigma. In senso lato per paradigmi intendo i modi complessivi con cui vediamo e concettualizziamo la realtà, ossia gli schemi o i quadri teorici di fondo tramite cui interpretiamo l’esistente e formuliamo i nostri pensieri. Configurandosi come altrettante “finestre sulla realtà”, ossia come altrettante mappe cognitive (o griglie di lettura dell’esistente) i paradigmi funzionano quindi da “orizzonti globali di senso”, cioè da apriori epistemici e background ermeneutici dei nostri discorsi intorno al mondo.3 “Orizzonti” che riguardano l’ambito conoscitivo, ma che in certi casi, lungi dal coinvolgere solo la testa, influenzano anche la parte emotiva del nostro essere.4 L’importanza di queste note è evidente. Tuttavia, fermarsi a questa accezione generale del concetto di paradigma – come avviene quando lo si usa come sinonimo di “immagine” o “visione” del mondo – significherebbe mantenersi (ancora) nel vago. Da ciò la necessità di scavare più a fondo, in vista di una caratterizzazione più precisa. A mio giudizio, non basta dire che i paradigmi sono dei modi complessivi di vedere e concettualizzare l’esistente. Ai fini di una delucidazione adeguata bisogna aggiungere che, nella fattispecie, si tratta di «insiemi strutturati di credenze che ruotano attorno a determinate idee-guida».5 Idee-guida o idee-madri (come le chiamo nei miei scritti) che costituiscono il nucleo o il cardine (= lo “zoccolo duro”) del paradigma. Si pensi, a titolo di esempio, a due idee-guida del paradigma astronomico di Tolomeo: 1) la Terra è immobile al centro dell’universo; 2) i corpi celesti girano attorno a essa. Oppure a due idee-guida del paradigma fisico di Einstein: 1) la scelta di un sistema di riferimento, indispensabile per effettuare misure, può influenzare i risultati di queste misure; 2) non esiste, a differenza di quello che pensava la fisica classica, un sistema di riferimento privilegiato o assoluto. Oppure a due idee-guida del paradigma psicoanalitico di Freud: 1) i processi psichici sono in gran parte inconsci e i processi cosci sono soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale; 2) i processi inconsci sono in buona parte dominati da tendenze che possono essere qualificate “sessuali” nel senso stretto o largo del termine. Di solito tali tali “idee-guida” o “idee-madri” (o “assunti” o “principi”) paradigmatici sono relativamente pochi, anche se la loro importanza epistemologica è massima. Tant’è che il contrasto tra paradigmi dipende dal conflitto tra le rispettive idee-guida e l’affermazione di un paradigma coincide, di fatto, con l’affermazione delle sue idee-guida. Inoltre, i paradigmi hanno come prerogativa quella di essere tesi condivise, in grado di fungere, come tali, da criterio di riconoscimento di una certa comunità intellettuale. Infatti, se ogni comunità religiosa si riconosce dalle credenze o dai dogmi specifici in cui crede, così ogni comunità scientifica, filosofica, politica, artistica ecc. si riconosce dalle idee-madri che la ispirano. Secondo taluni studiosi l’idea dei paradigmi come di qualcosa di unitario, ossia come delle trame condivise di pensiero, sarebbe contraddetta dal fatto che, all’interno dei (presunti) paradigmi troviamo spesso una molteplicità di posizioni diverse, che sembrano refrattarie a qualsiasi reductio ad unum. Tant’è che in certi casi essi giungono alla (drastica) conclusione che l’esistenza dei paradigmi non trova conferme a livello empirico. In altri termini, sembrerebbe che i paradigmi, per essere tali, debbano configurarsi come delle unità rigide, pena la loro non esistenza. In realtà, fra la tesi della non esistenza dei paradigmi e la tesi dei paradigmi come unità in senso forte, esiste una terza via, che è quella dei paradigmi come unità differenziate, ossia come totalità che non escludono necessariamente, al loro interno, una certa molteplicità. Su questo punto, Kuhn non sembra essere di molto aiuto. Anzi, secondo taluni critici, uno dei limiti del suo pensiero consisterebbe proprio nel suo tendenziale monolitismo, o, per lo meno, nella sua incapacità di dare coerentemente ragione di quest’aspetto (che sta a cuore soprattutto agli studiosi di scienze umane e agli storici della cultura). In ogni caso, a parte Kuhn e le annose discussioni su Kuhn (che in questo contesto non sono rilevanti) l’idea di paradigma, a mio giudizio, non è necessariamente sinonimo di uniformità rigida. Tanto più che lo stesso paradigma può essere interpretato e atteggiato, dai suoi seguaci, secondo modalità differenti,6 sino a dar luogo, in certi casi, a una pluralità di sottoparadigmi. In altri termini, l’esistenza di un paradigma – e quindi di una piattaforma comune – non esclude l’esistenza di articolazioni intra-paradigmatiche. Allo stesso modo che l’esistenza di un indirizzo o di una scuola non esclude l’esistenza di una molteplicità di sottoindirizzi e di sottoscuole. Il fatto, difficilmente contestabile, che il marxismo costituisca un “paradigma”, cioè un determinato modo complessivo di vedere e di concettualizzare la realtà storico-sociale, non significa che tutti i marxisti abbiano interpretato il marxismo allo stesso modo. Tant’è che accanto a marxisti “umanisti” troviamo marxisti “antiumanisti” e accanto a marxisti “rivoluzionari” troviamo marxisti “riformisti” (divisi a loro volta in tendenze e scuole diverse). Analogamente, il fatto che la psicoanalisi costituisca un “paradigma”, cioè un determinato modo complessivo di vedere e di concettualizzare la realtà psichica, non significa che tutti gli psicoanalisti, anche quelli più legati al verbo freudiano, interpretino la psicoanalisi nella stessa maniera (si pensi a figure come Anna Freud, Melanie Klein e Jacques Lacan). Il fatto che i paradigmi non siano delle unità monolitiche e quindi possano ospitare in loro stessi una pluralità di tendenze spiega l’esistenza di possibili conflitti intraparadigmatici, cioè chiarisce come sia possibile che all’interno dello stesso paradigma esistano lotte “intraparentali” (o “fratricide”) tra indirizzi e scuole diverse. Lotte che in certi casi, proprio come avviene in taluni conflitti intraparentali, sono non meno violente di quelle interparadigmatiche, ossia di quelle condotte contro paradigmi rivali. A conferma del fatto che, pur essendo “parenti” e pur combattendo una lotta comune contro altri paradigmi, le varianti del paradigma possono trovarsi in endemico conflitto tra loro. Per esempio, che Lenin e Korsch fossero entrambi marxisti e quindi pensassero all’interno di un paradigma comune non esclude l’esistenza di un conflitto teorico (e politico) fra loro. Lo stesso succede per gli psicoanalisti sopra citati. Analogamente, che Croce e Gentile fossero entrambi neoidealisti e quindi fossero uniti da talune idee-guida, sintetizzate dal principio dello Spirito come fondamento ultimo del reale (principio che essi difendevano contro i paradigmi rivali) non toglie che fra loro vi fossero profonde divergenze filosofiche (e politiche). In sintesi, il conflitto intraparadigmatico non è inconciliabile con un’idea critica (e duttile) di paradigma. Per cui, contro lo “strabismo” teorico e storiografico di coloro che in nome dell’unità vorrebbero cancellare la molteplicità e in nome della molteplicità vorrebbero eliminare l’unità, occorre ribadire che i paradigmi non vanno pensati alla stregua di unità che al loro interno escludono la molteplicità, bensì come delle unità differenziate, che, nella loro capacità di unificare la molteplicità e di articolare l’unità, risultano in grado di spiegare sia quel tanto di unità senza di cui non sarebbero pensabili i movimenti culturali, sia quel tanto di molteplicità che caratterizza ogni corrente di idee. Un’ultima, non meno importante, osservazione. Discorrere di paradigmi non significa necessariamente sposare l’idea (rinvenibile in alcune interpretazioni di Kuhn e in certa vulgata kuhniana) della loro natura extrarazionale o fideistica. Anzi, penso che tale prospettiva sia discutibile e, in ogni caso, non connoti necessariamente la nozione di paradigma, bensì una possibile – e non obbligatoriamente condivisibile – interpretazione di essa. Interpretazione che personalmente respingo, osservando come identificare x o y come paradigma non significa eguagliarlo a un insieme di opzioni o di preferenze extrarazionali – e quindi trasformarlo in un insieme di tesi inattaccabili – bensì assimilarlo a una costellazione teorica le cui ideeguida possono essere oggetto di approvazione o di contestazione razionale. Tant’è che queste ultime vengono presentate, dai loro fautori, non come delle opzioni prive di giustificazione, ma come delle tesi razionalmente motivabili su base logico-argomentativa. 3.Paradigmi e bioetica. Come in tutte le discipline, anche in bioetica esistono dei paradigmi e quindi degli schemi o modelli generali condivisi «in grado di fungere da parametri di giudizio e da schemi di valore, ossia da principi ispiratori e referenti ultimi (in senso criteriologico e normativo) del discorso bioetico».7 Schemi o modelli che possono essere di varia estensione e grandezza e quindi più o meno inclusivi. Con la connessa possibilità di incorporare determinati modelli in modelli più ampi. Per Kuhn, date le premesse del suo pensiero, non potevano esserci più paradigmi simultaneamente, in quanto la scienza normale implicava la presenza del solo paradigma dominante e la scienza rivoluzionaria il contemporaneo sorgere di un solo paradigma alternativo. Tant’è che pur sembrando riconoscere talora la presenza di paradigmi multipli, la storiografia di Kuhn li confinava a una situazione provvisoria o “preparadigmatica”, destinata a durare fino all’avvento di un paradigma in grado di imporsi. A differenza del monismo epistemologico di Kuhn, ritengo invece che nei vari settori dello scibile e, nella fattispecie, in bioetica, i paradigmi siano molteplici. Ciò non mi impedisce di credere, in parziale sintonia con Kuhn, che ai massimi livelli di generalità si possa discorrere, almeno in certe situazioni, di due macroparadigmi epocali in conflitto fra loro, uno attualmente dominante e uno che aspira a diventarlo. Questo è accaduto per esempio in astronomia (con il conflitto fra geocentrismo e copernicanesimo), in biologia (con il conflitto tra fissismo ed evoluzionismo) e per certi versi succede oggi in bioetica (con l’epocale conflitto fra la prospettiva indisponibilista e quella disponibilista). Di conseguenza, ritengo che in bioetica – come in altri campi disciplinari – il termine “paradigma” possa essere legittimamente usato in due maniere di fondo interconnesse, ma distinte.8 In un primo senso, può essere usato per indicare ogni insieme teorico strutturato e qualificato da talune idee-madri. In un secondo senso può essere usato per indicare le due posizioni generali rivali che attualmente si contendono il campo. Posizioni di cui una (quella della indisponibilità della vita) risulta “in fase difensiva” e l’altra (quella della disponibilità della vita) “in fase di attacco”. A mio giudizio, queste due occorrenze bioetiche del termine paradigma (quella di tipo dicotomico e “kuhniano” e quella di tipo pluralistico e “postkuniano”) sono entrambe legittime e quindi non ritengo opportuno “abolire” una di esse. Tanto più che, a mio avviso, le due accezioni non si escludono necessariamente. Infatti è possibile dire che in bioetica esistono diversi paradigmi o modelli e, nello stesso tempo, sostenere che a loro volta essi rientrano, o possono rientrare, in quei due macroparadigmi o macromodelli rappresentati dalle dottrine della indisponibilità e disponibilità della vita. 4.Caratteristiche del paradigma cattolico ufficiale. Chiariti questi aspetti della nozione di paradigma e del suo uso in bioetica, passiamo alle caratteristiche salienti del modello cattolico ufficiale e del modello laico-secolare. Ovviamente, discorrere di queste due forme di bioetica non significa, come continua a ipotizzare qualche studioso, che si voglia ridurre il paniere dei paradigmi bioetici disponibili a due soltanto. Infatti, un appunto ricorrente alla mia impostazione è che essa si farebbe portavoce di un “bipolarismo bioetico” incapace di riconoscere il carattere pluriforme del dibattito biomorale e quindi di cogliere ciò che fuoriesce dal paradigma cattolico e da quello laico. Ribadisco, per contrastare ogni perdurante equivoco, che questi paradigmi non sono gli unici della bioetica e che, accanto a essi, esistono altri paradigmi. Tuttavia, la constatabile presenza, in bioetica, di una pluralità di paradigmi non esclude la validità di una tesi su cui insisto in tutti i miei lavori e che reputo difficilmente contestabile: ossia che la bioetica cattolica ufficiale e la bioetica laico-secolare rappresentano i due paradigmi emblematici in cui si è storicamente incarnata la contrapposizione, propria della nostra epoca, fra le dottrine della indisponibilità e disponibilità della vita. Per bioetica cattolica “ufficiale” intendo il punto di vista bioetico contenuto nei documenti del Magistero. Infatti, mi sembra indubbio:
Del resto, come ha ribadito di recente la Dignitas personae, pronunciandosi su una serie di argomenti bioetici, il Magistero cattolico «nel proporre principi e valutazioni per la ricerca biomedica sulla vita umana, attinge alla luce sia della ragione sia della fede»,9 rivolgendosi quindi non solo ai fedeli, ma «a tutti coloro che cercano la verità».10 Tant’è che il cattolicesimo romano – questa è una delle sue tesi caratteristiche – ritiene che il vangelo della vita, oltre che sulla base della Scrittura, possa «essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana».11 Ne segue che la bioetica cattolica ufficiale, la quale trova il suo approfondimento (e omologo) “specialistico” nelle opere degli autori che pensano in sintonia dottrinale e paradigmatica con il Magistero,12 non è riducibile, come si afferma talora – non solo in ambito laico ma anche cattolico13 – a una bioetica “fideistica”, in quanto essa (proprio in virtù del “duplice registro”14 che la caratterizza: quello della fede e quello della ragione) si presenta anche come una riflessione basata su principi antropologici ed etici di natura razionale e filosofica (tipici, tra l’altro, di una millenaria tradizione speculativa). Certo, tale bioetica non è l’unica bioetica esistente in ambito cattolico. Tant’è che accanto a essa – o in certi casi in alternativa a essa – esistono altre proposte bioetiche e altri tipi di personalismo. Ma questo non annulla né la realtà né l’importanza di quella “catholic bioethics” per antonomasia che è la bioetica cattolica ufficiale. Dal punto di vista storico-epistemologico tale bioetica è costituita da una serie di idee-guida interconnesse, che costituiscono il cardine e lo sfondo (cioè la base ultima) delle prese di posizione della Chiesa cattolica in ambito biomorale. Idee che, con un apposito costrutto idealtipico,15 possono essere sintetizzate nei punti seguenti:
Ovviamente, a monte di questa costellazione di idee-madri, che costituiscono un ben preciso “paradigma” di pensiero presente de facto nei documenti del Magistero e negli autori in sintonia con esso, vi è sia ciò che Francesco Bellino ha denominato con l’espressione paradigma biofilo21 sia la convinzione antisoggettivistica e antirelativistica che la verità esiste e che – anche in sede etica e bioetica – risulta conoscibile dall’uomo. 5.Caratteristiche del paradigma laico-secolare. Come esiste una bioetica “cattolica”, così esiste una bioetica “laica”, o meglio, una bioetica che a scanso di equivoci e per evidenziarne meglio i nessi con la forma mentis che ne sta a monte sarebbe meglio definire “bioetica laico-secolare”. Considerata la natura polisemica del termine “laico”, è indispensabile premettere alcune precisazioni di ordine linguistico e concettuale. Come sostengo sin dall’aggiornamento del Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano22 nel linguaggio ordinario e in quello colto il termine laico, dal punto di vista semantico-descrittivo, possiede due significati di fondo: uno più debole e l’altro più forte.23 In un primo senso, di tipo metodologico-formale, la laicità allude a una procedura che fa appello ai valori della razionalità, della criticità e della libera discussione. “Procedura” che nell’ambito delle varie attività umane, a prescindere dal fatto di essere credenti o meno, può essere fatta propria da chiunque. In un secondo senso di tipo filosofico-sostanziale, la laicità allude alla visione del mondo dei non credenti, cioè alla dottrina comprensiva di coloro che – agnostici o atei – vivono e pensano a prescindere da Dio e dall’adesione a un determinato credo religioso.24 Per analogia, il concetto di bioetica laica può avere due significati di fondo. In senso largo e metodologico per bioetica laica s’intende ogni forma di biomorale basata sulla ragione e sull’autonomia discorsiva. Da questo punto di vista anche la bioetica dei credenti, nella misura in cui fa appello alla ragione e alle sue tecniche, è una bioetica “laica”. In senso stretto e forte per bioetica laica s’intende invece un modo di fare bioetica che si ispira ai principi tipici dell’umanesimo secolare. Princìpi che, nel loro insieme, configurano un ben preciso “paesaggio concettuale”, diverso e per certi aspetti antitetico a quello di stampo cattolico. Del resto, è noto come accanto a una cultura di matrice religiosa (nella fattispecie: cristiana) nell’Occidente moderno si sia progressivamente affermata una cultura “laica” o “secolare” di matrice non religiosa. Tale cultura non è un’invenzione storiografica, ma risulta constatabilmente presente dal 1500 a oggi, sotto forma di quella che Rawls chiama ragione secolare («per ragione secolare intendo […] il ragionare in termini di dottrine comprensive non religiose»).25 Tant’è che Charles Taylor, in quell’opera monumentale che è The Secular Age,26 ne ha magistralmente ricostruito la genesi27 e gli sviluppi, individuandone i tratti tipici in ciò che egli chiama umanesimo “esclusivo” o “autosufficiente” ossia in quella prospettiva che si può sintetizzare con la celebre espressione usata da Sartre quando dichiara: «siamo su di un piano dove ci sono solamente degli uomini (précisément nous sommes sur un plan où il y a seulment des hommes)».28 Prospettiva che risulta ben presente a Benedetto XVI, quando alludendo a ciò che Taylor chiama ipotesi di «un mondo senza Dio»29 ed egli «autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore»30 scrive: si parla oggi di pensiero laico, di morale laica, di scienza laica, di politica laica. In effetti, alla base di tale concezione c’è una visione areligiosa della vita, del pensiero e della morale: una visione, cioè, in cui non c’è posto per Dio, per un mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente in ogni tempo e situazione»).31 Prospettiva a cui allude anche Elio Sgreccia quando osserva: «il fenomeno della secolarizzazione […] non si è arrestato a quel livello accettato anche dal Concilio, e cioè, la giusta considerazione e il riconoscimento del valore delle realtà temporali, delle scienze e delle loro specifiche competenze e metodologie di ricerca […] ma è diventato secolarismo cioè cultura e visione della vita che prescinde dall’esistenza di Dio, dall’esistenza della legge morale naturale, nonché dalla rivelazione»).32 Niente da stupirsi, quindi, che gran parte della bioetica elaborata nell’ambito dell’orizzonte culturale “secolarista” presenti alcuni tratti sostantivi specifici – e strutturalmente differenti – rispetto a quella elaborata in ambito cattolico e si muova in un orizzonte di pensiero dominato dalla “mentalità” e dalle categorie dell’umanesimo secolare. “Orizzonte” di pensiero sta sullo sfondo di autori disparati (da Kuhse a Singer, da Tooley a Rachels, da Harris a Scarpelli, da Lecaldano a Mori ecc.) e che viene emblematicamente esplicitato da Singer, quando si fa portavoce di una nuova rivoluzione copernicana scaturita da: una ribellione contro un complesso di idee che noi abbiamo ereditato dall’età in cui il mondo intellettuale era dominato da una prospettiva religiosa.33 Per bioetica laica in senso stretto intendo quindi uno specifico movimento storicoteorico qualificato da un insieme di principi antropologici ed etici maturati in ambito secolare, ossia all’interno di un orizzonte generale di pensiero che, a monte, presuppone un umanesimo autosufficiente di matrice agnostica o atea. Tale orizzonte di pensiero si concretizza in un paradigma incarnato da una serie di idee-guida che rappresentano il cardine e lo sfondo (cioè la base ultima) delle prese di posizione della bioetica laica standard. Idee che, con un apposito costrutto idealtipico,34 possiamo sintetizzare nei punti seguenti:
Convincimento il quale ha fatto sì che la bioetica laico-secolare si sia storicamente presentata come un’etica della “disponibilità” della vita;
Il fatto che queste idee-guida – le quali attestano come il fenomeno storico e culturale della bioetica laica non sia solo una questione di metodo (o di valori connessi a determinate procedure) ma anche di specifici contenuti teorici e filosofici – rappresentino tratti fondamentali del paradigma laico significa che, pur potendo avere, su determinati temi, impostazioni diverse, i bioeticisti di area laica tendono a condividere, a vario titolo, taluni principi e valori di base. Questo significa che l’assenza di un “Magistero laico” non esclude la fattuale presenza di taluni principi condivisi, cioè l’esistenza di una soglia minima di idee-madri comuni. Soglia che rende concettualmente e storiograficamente fondato il concetto di una bioetica laico-secolare alternativa rispetto a quella cattolico-ufficiale. 6.Due precisazioni di rilievo. Alcuni studiosi contestano l’esistenza di una bioetica “cattolica” o “laica” (come di una bioetica “protestante”, “valdese”, “islamica” ecc.). Infatti, essi credono nell’esistenza di una bioetica tout court e quindi negano la correttezza epistemologica di qualsivoglia aggettivazione di tale disciplina. Per esempio, si afferma che la bioetica «non è religiosa né laica: è semplicemente “bioetica”»44 e che «le aggettivazioni (in particolare: laica e cattolica) che usualmente vengono adoperate per qualificare la bioetica denunciano esplicitamente la perdurante immaturità epistemologica della disciplina».45 In realtà, sembra lecito chiedersi:
Nella fattispecie, per quanto concerne una disciplina con forti componenti filosofiche e assiologiche come la bioetica, ritengo incauto discorrere di una “bioetica senza aggettivi”, poiché l’esperienza ci insegna che esistono declinazioni diverse del discorso bioetico, le quali risentono dei sottostanti background dottrinali e valoriali. Come osserva Uberto Scarpelli: nell’affrontare i problemi bioetici noi ci portiamo dietro tutta la nostra etica, e la visione del mondo in cui ciascuna etica s’inquadra.46 Del resto, l’esistenza di una molteplicità di bioetiche era già implicita, a nostro parere, nella definizione classica della disciplina riportata nella prima edizione della Encyclopedia of Bioethics. Infatti, posto che la bioetica coincida con «Lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali»,47 poiché i principi e i modelli valoriali presenti nel panorama culturale odierno sono molteplici e fanno riferimento a concezioni antropologiche ed etiche differenti, non c’è affatto da stupirsi – come la realtà inconfutabilmente attesta – che esistano impostazioni bioetiche paradigmaticamente diverse. Per usare le parole di uno studioso di area protestante come Leonardo De Chirico: Di per sé, una bioetica punto e basta non esiste.48 O meglio, c’è la bioetica in quanto campo interdisciplinare più o meno delimitato, ma appena entrano in gioco i valori di riferimento il discorso inevitabilmente si pluralizza e dà luogo a un ventaglio diversificato di comprensioni, prospettive, itinerari. Infatti, a meno di astrarsi dall’esistente, non si può non ammettere, come scrive uno studioso di area cattolica come Dionigi Tettamanzi, che: le diverse antropologie, e conseguentemente i diversi modelli antropologici, danno origine a diverse bioetiche. Già per questo motivo, ed è un motivo ovviamente fondamentale, si deve preferire il plurale quando si parla di bioetica: di fatto si danno molteplici bioetiche, diversificate o addirittura contrastanti fra loro.49 Analogamente Palma Sgreccia, pur dichiarando che «La bioetica è una», rileva come in essa vi siano «più paradigmi che si basano su visioni della realtà diverse».50 Con la precisazione che: Sottolineare la distinzione dei paradigmi della bioetica significa far appello alla dimensione filosofica di questa, non poter prescindere dalla questione generale di senso.51 Sull’esistenza di una molteplicità di modelli bioetici dalle differenti radici filosofiche e antropologiche ha insistito recentemente anche un altro studioso di area cattolica come il giurista Antonio Tarantino.52 Del resto, se ogni bioetica «è colorata idealmente, culturalmente, storicamente e socialmente», in quanto è «all’interno di uno specifico e complesso impasto umano che si dà la bioetica», quest’ultima «non può che essere aggettivata da un elemento o più elementi che ne definiscono la specifica curvatura ideale».53 La concezione di una bioetica tout court è epistemologicamente e storiograficamente implausibile poiché ogni discorso bioetico è manifestamente connesso a “visioni” (gli ermeneutici direbbero: “precomprensioni”, i postmoderni: “narrazioni”) della realtà diverse: La bioetica non accade in astratto rispetto al vivo della discussione plurale che è popolata da racconti di vita “competitivi”, che si incontrano, scontrano, sovrappongono, giustappongono, confondono ed incrociano in un processo osmotico, a volte crescendo, intrecciandosi, altre volte scontrandosi o registrando la reciproca distanza.54 Questo significa che non esiste la bioetica, ma una pluralità di bioetiche specificamente connotate che presuppongono, a monte, determinate concezioni etiche e antropologiche. Perciò non è affatto strano o insensato che essa – essendo una quanto all’intersezione disciplinare cui si riferisce ma essendo molteplice quanto alle sue realizzazioni – dal punto di vista concettuale possa essere “aggettivata” in determinate maniere, ossia in riferimento alle concrete modalità storiche con cui viene istruita e configurata nel tempo. In sintesi, a meno di identificare, come fanno taluni studiosi, la propria biomorale con la biomorale tout court si è condotti ad ammettere il volto pluralistico della bioetica, ossia il fatto che non esiste “la” bioetica, ma una molteplicità di “paradigmi” bioetici in competizione fra loro, fra cui spiccano, per la loro importanza storica e teorica, il paradigma cattolico-ufficiale e quello laico-secolare. Altri studiosi cercano di invalidare l’interpretazione della bioetica cattolica e laica in chiave “paradigmatica” affermando:
In realtà, questo duplice e incontrovertibile dato – ossia il fatto che alcuni cattolici convergono (in modo più o meno accentuato) su determinate idee della bioetica laico-secolare e alcuni laici convergono (in modo più o meno accentuato) su determinate idee della bioetica cattolica – non costituisce affatto una “prova” della inesistenza dei due paradigmi in questione. Esso attesta semplicemente che non tutti i cattolici si riconoscono (o si riconoscono completamente) nella bioetica cattolica ufficiale e non tutti i laici si riconoscono (o si riconoscono completamente) nella bioetica laica standard. 7.Dal vecchio negazionismo alle nuove ammissioni della realtà di fatto delle due bioetiche. Un’altra obiezione ricorrente alla teoria dei due paradigmi è che essa approderebbe a una visione conflittualistica del dibattito bioetico, finendo per “fomentare” lo scontro. In realtà, dovrebbe essere (ormai) chiaro a tutti che non è il riconoscimento del conflitto fra bioetica cattolica e bioetica laica a generare o ingigantire il conflitto (precisamente come non è la diagnosi di una malattia a generare o ingigantire la malattia) ma la realtà del conflitto a produrre il riconoscimento – o la coscienza riflessa – di esso. Anzi, poiché il conflitto è nelle cose stesse, cioè nell’opposizione teorica e pratica di due modi differenti di fare bioetica, il suo (lucido) riconoscimento dovrebbe configurarsi come la precondizione di ogni (reale e non fittizio) tentativo di dialogo fra le parti. Tant’è che oggi esistono parecchi studiosi, anche fra i cattolici, i quali non solo non faticano ad ammettere l’esistenza dei due paradigmi in questione, ma dichiarano in modo esplicito che ogni tentativo di attenuare i conflitti bioetici presuppone – a monte – il preliminare riconoscimento (anziché camuffamento) della realtà e diversità dei paradigmi. Per esempio, Maurizio Faggioni ha sostenuto che sottolineare «l’esistenza di modelli alternativi, mostrarne la struttura logica e studiarne criticamente i caratteri» non significa, come spesso si afferma, proporsi «di alimentare tensioni e di alzare steccati». Al contrario, significa offrire «un contributo di chiarificazione che rende il dialogo più franco e realista».55 A sua volta, Tommaso Scandroglio sostiene che non si deve essere ostili a chi si sforza di chiarire con «onestà intellettuale» i confini che dividono due paradigmi di pensiero, aggiungendo che uno dei pregi dei nostri lavori è «di aver sintetizzato – e quindi prima individuato – alcune “idee-madri” che caratterizzano in ambito bioetico da una parte la posizione del Magistero cattolico e del pensiero autenticamente cattolico che al primo si rifà e dall’altra la posizione di una serie di studiosi che nelle loro riflessioni si pongono non di rado in rapporto antitetico con il paradigma cattolico e che possono venire inseriti in un insieme concettuale denominato “laico”».56 Fra gli autori che non faticano ad ammettere l’esistenza dei due paradigmi in questione vi è anche un bioeticista cattolico che con il suo Manuale di bioetica ha fatto scuola in Italia e nel mondo, ossia il cardinal Elio Sgreccia, il quale si è ultimamente dichiarato propenso a riconoscere la realtà di fatto dei due paradigmi. Infatti, dialogando con chi scrive,57 lo studioso rileva come non sia epistemologicamente scorretto discorrere di un paradigma bioetico “cattolico” presente nei documenti del Magistero e nelle opere degli autori in sintonia con essi («Non vedo come e perché si dovrebbe disconoscere questa classificazione, se intesa in modo descrittivo»).58 Inoltre, accennando alla bioetica “secolare”, intesa come una specifica costellazione storico-teorica di dottrine antropologiche ed etiche, inequivocabilmente scrive: «Che di fatto esista un modo di vedere le questioni di bioetica, un paradigma bioetico, che si differenzia nei confronti del paradigma cattolico e che risulta caratterizzato da una sua logica – a partire dal rifiuto della creazione come causa e origine della realtà e della vita umana – è qualcosa che, sul piano descrittivo e storico, può essere difficilmente contestato».59 L’esistenza di una distinzione di fatto fra le due bioetiche viene francamente ammessa anche da un altro studioso di spicco come Salvino Leone: «La querelle tematizzata da Fornero in realtà ripropone un vecchio e irrisolto interrogativo divenuto, oggi, di urgente attualità. È da ritenersi artificiosa e immotivata la manichea dicotomia tra bioetica cattolica e bioetica laica, stante l’accettata distinzione tra cattolici e “laici”? Dico subito […] che, se una distinzione non dovrebbe esserci de iure, cioè in linea teorica o di principio, essa è presente de facto cioè nella prassi e nel pensiero corrente della maggior parte di laici e cattolici».60 Queste considerazioni, che si oppongono al vecchio “negazionismo” cattolico, costituiscono un dato che merita di essere debitamente sottolineato, in quanto testimoniano come il dibattito sui concetti di bioetica cattolica e bioetica laica non sia rimasto sempre lo stesso, ma abbia prodotto nuove e articolate posizioni. Un’ultima, non meno importante, precisazione. Quando si parla di un contrasto paradigmatico fra bioetica cattolica e laica non si intende asserire che tali forme di bioetica siano in opposizione su tutto e che fra loro esista sempre e soltanto una situazione di conflitto. Questa sarebbe una versione semplicistica e banalizzata della teoria dei paradigmi. Infatti, è noto come su alcuni punti fra cattolici e laici ci sia – o possa esserci – convergenza. Si pensi per esempio al comune rifiuto dell’accanimento terapeutico. Tuttavia, il fatto che essi possano essere d’accordo su questo (e altri punti) e che in taluni contesti, come per esempio nei comitati locali e nel cnb, cattolici e laici «lavorino fianco a fianco» giungendo a, proposito di taluni argomenti, a «raccomandazioni condivise» non significa – secondo l’equivoco ragionamento di certi teorici – che il conflitto non ci sia o sia «un’invenzione del punto di vista laicista». In altri termini, quando si parla di un’opposizione fra la bioetica di area cattolica e la bioetica di area laica e nella fattispecie di un contrasto fra la bioetica cattolica ufficiale e la bioetica laica standard – non s’intende asserire che il dissidio sia così onnicomprensivo da escludere l’esistenza di possibili e locali convergenze, bensì che sulle questioni decisive e cruciali della disciplina, in particolare su quelle concernenti l’inizio e il fine vita, tali forme di biomorale, in virtù delle loro differenti antropologie di riferimento e delle loro antitetiche idee-madri, si trovano – di fatto e di diritto – su fronti teorici contrapposti. 8.La “novità” di Francesco e l’analisi di Lo Sapio. Posta la distinzione e, su certi punti nodali, la contrapposizione “paradigmatica” fra la bioetica cattolica ufficiale e la bioetica laico-secolare nasce il problema di un suo possibile superamento. “Problema” che negli ultimi anni ho cercato di studiare a fondo, sforzandomi di offrire un prospetto ragionato delle principali ipotesi percorribili. Chiaramente, lo sfondo storico dei miei scritti – da Bioetica cattolica e bioetica laica a Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto – era rappresentato dai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Di conseguenza, considerati i cambiamenti in atto nella Chiesa, è logico domandarsi se oggigiorno le categorie di base utilizzate in tali lavori siano ancora valide, e, in caso di risposta positiva, in quale misura lo siano. Luca Lo Sapio muove dalla convinzione, condivisa con chi scrive, della realtà storico-concettuale dei due paradigmi, ma pone il nuovo e interessante quesito se, nell’età di Francesco, qualcosa sia cambiato. Certo a differenza di quanto avveniva nei due precedenti pontificati, la bioetica, con l’avvento di Bergoglio, non svolge più un ruolo di primo piano. Ma questo non significa che l’insegnamento di Francesco, come documenta questo libro, non abbia – o possa avere – ripercussioni anche in ambito bioetico. Accostandosi alla tematica con rispetto ed equilibrio critico, Lo Sapio cerca di riportare le varie interpretazioni di ciò che sta avvenendo, comprese quelle fuori dal coro o con meno visibilità mediatica. Questa programmatica apertura alle diverse voci non gli impedisce tuttavia di prendere apertamente posizione in merito alla questione affrontata. Lo studioso si oppone sia a coloro che insistono unilateralmente sul cambiamento sia a coloro che insistono unilateralmente sulla continuità. Se da un lato – questa è l’impressione che si trae dal suo lavoro – non si può dire che tutto sia cambiato, dall’altra non si può nemmeno dire che tutto sia rimasto come prima. Questo significa, in concreto, che pur attirando l’attenzione sui mutamenti, Lo Sapio non minimizza, anzi documenta, gli elementi di continuità. Precisamente come, pur registrando gli elementi di continuità, non minimizza, anzi si sforza di mettere a fuoco in modo dettagliato, gli elementi di novità. E alla fine, senza avventurarsi in profezie, anzi lasciando programmaticamente aperti gli scenari futuri, sostiene che le novità emerse con Francesco, se da un lato potrebbero configurarsi come “sentieri interrotti” (analogamente a quanto è avvenuto per talune idee suscitate dallo spirito di apertura del Concilio Vaticano II) dall’altro potrebbero offrire spunti per l’avvento di ulteriori novità anche in ambito bioetico. Novità in grado, se non di annullare, per lo meno di accorciare le distanze fra i due paradigmi. NOTE
14.Cfr. M.P. Faggioni, Da Donum vitae a Dignitas personae, in G. Russo (a cura di), Dignitas personae. Commenti all’istruzione sulla bioetica, Cooperativa S. Tommaso-Elledici, Messina-Leumann (To) 2009, pp. 69-81:72.
19.Veritatis Splendor, 96.
24.Atteggiamento a-religioso che, come ho chiarito in Laicità debole e laicità forte (Bruno Mondadori, Milano 2008) non implica necessariamente un atteggiamento anti-religioso.
26.Ch. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.
46.U. Scarpelli, Bioetica laica, cit., p. 19.
51.Ivi, p. 1012.
53.L. De Chirico, Può la bioetica essere evangelica?, cit., p. 104, corsivi aggiunti. 54.Ibid. 55.M. Faggioni, Bioetica laica e bioetica cattolica. Paradigmi a confronto, testo dattiloscritto di una relazione tenuta in Co-lombia il 6 settembre 2013.
58.E. Sgreccia, Bioetica cattolica e bioetica laica: a proposito dei “paradigmi”, cit., p. 288. 59.Ibid., p. 289.
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