Per Gibilterra si minaccia la guerra [di Nicolò Migheli]

bertuccia

Quando si sostiene che l’Unione Europea nella sua evoluzione come istituzione ha garantito 70 anni di pace nell’Europa Occidentale l’accoglienza è un sorriso di sufficienza – limitiamoci a questa parte del mondo, senza includere i conflitti balcanici e quello greco-turco per Cipro-. Ancora una guerra intra-europea? Ma no, non è possibile!

Troppi i legami economici e culturali tra i popoli e le èlite dei paesi europei. La stessa incredulità si verificò nell’Ottocento dopo il Congresso di Vienna, durante quei 33 anni di pace che vanno dal 1815 al 1848. Stessa illusione dal 1870 al 1914, periodo che venne addirittura definito Belle Epoque. La narrazione odierna esclude una guerra, però con il risorgere dei nazionalismi la si può escludere del tutto? La Brexit si sta dimostrando un banco di prova per i nervi di popoli e governanti. È accaduto che nella lettera che attiva l’art. 50 il governo britannico sia  dimenticato di includere Gibilterra tra i territori che abbandonano la Ue.

Semplice dimenticanza o la conferma dello stato di colonia di quel promontorio a guardia dell’accesso al Mediterraneo e di conseguenza non nominabile perché proprietà privata? Fatto sta che quella dimenticanza non è passata inosservata a Madrid. Gibilterra ottenuta dagli inglesi nel 1713 dopo la Guerra di Successione è costantemente rivendicata dalla Spagna. In questi anni di frontiere aperte il contenzioso però era sceso di tono e la comune appartenenza alla Ue di fatto vanificava le pretese spagnole.

In un documento diffuso venerdì dal Consiglio Europeo si dice che la Spagna opporrebbe  un veto alla possibilità di applicare la Brexit anche a Gibilterra. Se il governo spagnolo si opponesse, rimarrebbero due opzioni: la GB accetta e Gibilterra riamane territorio Ue, oppure la Spagna metterà il veto ai nuovi accordi commerciali tra Unione e Gran Bretagna. Altro aspetto, questo sì di grande novità, la Spagna non metterebbe più il veto ad un eventuale ingresso della Scozia indipendente nell’Unione.

Fino ad ora si pensava che Madrid non avrebbe mai accettato l’ingresso di Edimburgo nel club europeo per non dare speranza ai catalani, ora però il governo spagnolo sostiene che le realtà costituzionali tra GB e Spagna sono differenti e quindi cadrebbe l’ostacolo. Le reazioni britanniche sono state durissime, prima Michael Howard, ex leader dei conservatori che dichiara a SKY: “La premier May entrerebbe in guerra per tenere Gibilterra” poi il ministro britannico della difesa Fallon che minaccia estreme conseguenze.

Vi è anche la potenza dell’anniversario: trentacinque anni fa, in questi giorni, Margaret Thatcher inviò un corpo di spedizione dall’altra parte del mondo per riprendersi le Falkland occupate dall’Argentina dei generali. Per ora solo dure schermaglie verbali nella vicenda più grande della Brexit e della re-definizione della Ue. Resta però che è caduto un tabù. La parola guerra, anche sotto la metafora delle estreme conseguenze, risuona nella bocca di un ministro europeo nei rapporti tra due paesi fino a questo momento alleati ed amici.

L’Unione Europea vive il momento più difficile dei suoi sessant’anni di vita; se nelle presidenziali francesi vincesse l’FN eleggendo la signora Le Pen presidente potrebbe chiudere bottega. Neanche l’area di libero scambio sarebbe certa. Ritornerebbero muri, frontiere e contenziosi territoriali. Due per tutti: il Sϋd Tirol e la frizione tra Ungheria e Romania per la Transilvania, senza contare quelle sulle frontiere esterne tra Polonia e Ucraina per la Galizia, quella tra Bulgaria e Turchia per le aree turcofone bulgare. La costruzione europea ha nemici interni, ma ne anche esterni, e molto potenti.

Trump disprezzandola si rivolge solo alla Germania, Putin che dalla sua scomparsa potrebbe riguadagnare le aree di influenza che furono dell’impero russo. Erdoğan che aspira ad estendere il suo potere sui Balcani ex ottomani. Non è questo lo spazio per ribadire l’insufficienza della Ue che ha privilegiato i capitali ai popoli, dove il cinismo espresso dalle èlite continentali ha raggiunto il massimo con la crisi greca. Nonostante queste colpe terribili, rinunciare ad una Ue farebbe contenti soprattutto i suoi nemici esterni, e quelli interni: la destra nazionalista e quella sinistra réac de gauche, reazionaria, come la definiva le Nouvelle Observateur a proposito delle posizioni di Régis Debray e Max Gallo.

Quest’ultima convinta che i protezionismi e i nazionalismi siano garanzia dei diritti sociali. Paradossalmente chi invece ha tutto l’interesse ad una Ue che superi gli stati nazionali ottocenteschi sono le nazioni senza stato come i sardi, all’interno di una Unione dei popoli potranno raggiungere l’autogoverno dei propri luoghi. Fuori da un quadro simile solo conflitti esterni e repressioni interne. Erdoğan e Putin sono il modello che seduce sempre di più i rinati nazionalismi classici, basta guardare a come in Polonia ed Ungheria seguono quelli insegnamenti.

Ancora una volta l’Europa sembrerebbe in mano ai decisori sonnambuli come lo fu nel 1913-14. Dovremo ricordare questo tempo come la fine della seconda Belle Epoque? Dio non voglia, ma i segni cominciano ad essere troppi.

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