Dall’utopia al possibile [di Marc Augé]
MicroMega 10 aprile 2017. “La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti: l’unica via possibile per frenare una società mondiale ineguale e ignorante, condannata al consumo o all’esclusione e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario”. Proponiamo un capitolo da “Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé – etnologo e scrittore francese di fama mondiale – in questi giorni in libreria per Codice edizioni. ****** Le utopie del diciannovesimo secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima utopia, quella della “fine della Storia” e della società liberale, è messa alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in rapporto agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità. È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo. Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone. Le tecnologie nel campo della comunicazione in teoria permettono ad ogni individuo molteplici possibilità di relazione; i mezzi di trasporto consentono a ciascuno, sempre in teoria, di esplorare il mondo; infine, le reti di distribuzione dilatano a dismisura qualsiasi possibilità di consumo. Sotto un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione tra scienziati e ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria per il progresso della scienza: condividono i propri risultati o lavorano direttamente insieme, come al CERN di Ginevra, che rappresenta un moderno modello di ciò che potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca di base. Questo è il punto essenziale, a partire dal quale si possono sviluppare tutte le nostre aspettative ma anche tutti i nostri timori: lo stretto intreccio tra vita scientifica e vita sociale, tra storia della scienza e storia tout court, e tra progresso scientifico e sviluppo economico. Il ventesimo secolo ha segnato la morte delle utopie, delle «grandi narrazioni» del diciannovesimo, per riprendere l’espressione del filosofo Lyotard [1], che sono sfociate in mostruosità sociali e politiche. È stato anche il secolo delle sperimentazioni, talvolta omicide, della scienza, nel momento in cui le nuove invenzioni modificavano direttamente il corso della storia umana, come nel caso dei diversi armamenti derivati dalla ricerca sull’atomo. Sappiamo che la scienza oggi richiede finanziamenti e che non può progredire se non in paesi ricchi, che la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è relativa, dal momento che la prima necessita degli strumenti tecnologici elaborati dalla seconda: si può dire che mai come oggi storia delle scienze e storia politica siano state così interdipendenti. La crisi che stiamo attraversando sul piano economico e finanziario – evento relativamente recente del quale bisogna imparare a misurare le conseguenze – ha forse cause ancora più profonde che dipendono dalla correlazione tra le due storie. L’utopia liberale a cui pensava Fukuyama, e a cui aveva dato il nome di «fine della Storia»[2], ha già lasciato il posto a un’oligarchia, che domina un pianeta le cui disuguaglianze interne non smettono di aumentare. La domanda posta da Derrida a Fukuyama – la fine della Storia, intesa come l’accordo intellettuale generalizzato sulla forma ottimale di governo degli uomini, è una realtà osservabile o una proiezione di tipo utopistico?[3] – ha trovato risposta. Siamo al centro di un’utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quella dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria. Regimi che non hanno niente di democratico si adattano molto bene al libero mercato; la logica della speculazione finanziaria prevale su quella della produzione e della prosperità sociale. Nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i più fortunati e i più poveri, anche nei paesi emergenti. Ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi. I potenti di questo mondo e di quello che verrà non formano un corpo omogeneo: fanno parte della sfera economica, di quella politica o di quella scientifica, ma insieme costituiscono, obiettivamente, l’ambito all’interno del quale si delinea il futuro del sistema in atto. I consumatori sono il motore di questo sistema: il consumo è fondamentale per il suo funzionamento. L’intero apparato di pubblicità diretta o indiretta li invita a farlo in ogni maniera possibile: l’idea di innovazione teorizzata da Schumpeter sostituisce l’avvenire. L’innovazione tecnologica, oggi, rappresenta a grandi tratti l’idea di un pianeta interconnesso in cui le reti sociali si presentano come punti di contatto, di scambio, di cultura e di informazione. Le reti stesse sono l’ambiente e l’oggetto privilegiato del consumo, poiché la tecnologia che le rende ogni giorno più performanti si materializza sul mercato sotto forma di prodotti sempre più innovativi che non smettono di diffondere e riprodurre la propria immagine. Trova spazio l’idea che tali prodotti siano un fattore di sviluppo delle conoscenze, e la virtuosità di alcuni nel loro utilizzo può in effetti venire a conforto di questa posizione pericolosamente illusoria, dal momento che confonde il fine con i mezzi, il messaggio con i media, la trasmissione con l’acquisizione, la conoscenza con l’identificazione. Gli esclusi, infine, sono tali in termini sia di prosperità economica sia di accesso alla conoscenza. Le realtà della globalizzazione sono dunque assai lontane dagli ideali della planetarizzazione, di una società Terra i cui liberi cittadini, uguali per legge e di fatto, condividono lo spazio nel comune interesse. Il mercato si estende al globo intero, ma i lavoratori sottopagati si trovano da una parte e i consumatori, più o meno fortunati, dall’altra. Indipendentemente dalle disuguaglianze – rafforzate dalla priorità data alla tecnologia e dai cambiamenti che essa comporta in termini di consumo –, il sistema diffonde l’immagine di un mondo in cui tutto è ubiquo e istantaneo, occultando le reali condizioni della nostra esistenza e sovvertendo i fondamenti simbolici su cui poggia l’intera vita sociale. L’illusione di sapere e la perdita di attrazione da parte dei simboli sono conseguenza dello stesso processo tecnologico che contribuisce alle nuove conquiste della ricerca di base. Qualunque tentativo di pensare il futuro deve innanzitutto eliminare questa difficoltà. La portata del fenomeno sarà osservabile contrapponendo il locale al globale e, per esempio, le disuguaglianze sociali che prevalgono nelle grandi metropoli urbane all’immagine di armoniosa fluidità con cui le dipingono i mezzi di comunicazione, o i tempi morti della vita sociale ed economica all’istantaneità della comunicazione. La vita sociale reale ha bisogno del tempo e dello spazio, che sono la materia prima delle relazioni stabilite, pensate e rappresentate tra l’uno e l’altro, tra l’uno e gli altri e tra gli uni e gli altri. Le seguenti tre scale di osservazione non possono essere confuse se non a costo di una illusoria metaforizzazione del reale. Per lungo tempo gli esseri umani hanno popolato l’universo con i loro sogni, i loro miti e i loro dei, dando nomi agli astri o alle costellazioni per poterli sentire più vicini. Oggi prendiamo atto del carattere ambizioso e al contempo marginale di questa impresa. A livello di universo conosciuto (miliardi di sistemi solari nella nostra galassia e miliardi di galassie nel nostro universo), in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si confondono e ci sfuggono, la nostra immaginazione si esaurisce rapidamente, incapace di afferrare l’inconcepibile. Dobbiamo coltivare il nostro orto, diceva Voltaire[4], ossia restare nella misura della storia umana. Su scala planetaria, ci troviamo in una posizione intermedia. Anche se cominciamo a intravedere la possibilità di annettere la “periferia” più vicina (la Luna, Marte), per il nostro modo di vedere la scienza avanza troppo lentamente verso le frontiere dell’ignoto e dell’infinito. Per questo motivo ci stiamo abituando progressivamente al passaggio alla scala planetaria, a cui corrisponde la globalizzazione tecnologica e mediatica. Il pantheon greco ha abbandonato il cielo, ma le “stelle” dei varietà o della politica invadono i nostri schermi. Non proiettiamo più gli dei nel cielo, ma i nuovi idoli internazionali si proiettano nella nostra intimità, e contribuiscono a persuaderci del fatto che, anche per ognuno di noi, le dimensioni spaziali e temporali si siano trasformate radicalmente – il che in parte è vero, e in parte illusorio. L’illusione scompare su scala locale, anche se la moltiplicazione e la miniaturizzazione delle tecnologie tendono a farla insinuare fin nell’intimo dei nostri corpi. Viviamo ancora, ciascuno a suo modo, nella concretezza del tempo e dello spazio: lo dimostrano, per esempio, i dibattiti sull’età del pensionamento o sulla natura dei contratti di lavoro (a tempo determinato o indeterminato), così come sugli ingorghi del traffico. Ciò che ci inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove stiamo andando. Le utopie del diciannovesimo secolo descrivevano il mondo a cui aspiravano. Le grandi religioni sono state, e in alcuni casi sono ancora, animate da un proselitismo che trova la propria origine in un mito fondatore. Da questo punto di vista, il passato fornisce di caso in caso un modello, un punto di riferimento e una modalità di azione. Il mondo che oggi si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia, che si è sviluppato più velocemente di quanto non abbiano fatto le società. Ci affanniamo per adottare i congegni che esso ci impone, e nel complesso abbiamo la sensazione di essere assorbiti da un avvenire a cui non avevamo pensato e che ci dà le vertigini, piuttosto che di essere determinati dal nostro passato. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto, combinato alle crescenti disuguaglianze economiche e agli sconvolgimenti di massa che queste implicano, spiega perché, sotto alcuni aspetti, l’avvenire ci fa paura. Se non siamo più noi ad ambire al futuro, è perché è il futuro, piuttosto, che ambisce a noi. Come reinserirci in quella che per certi aspetti sembra una fuga in avanti? Credo che potremmo tentare di trovare un principio di risposta solo partendo da concetti semplici e chiari. A rischio di dare sembianze dogmatiche a ciò che non pretende di essere altro che una dichiarazione di ambiziosa modestia, riassumerò tale risposta in tre punti: uno relativo al metodo, uno all’oggetto e uno al principio. Il punto riguardante il metodo è, in realtà, qualcosa di più: si tratta di far assurgere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. Si parla talvolta di “scientismo” per condannare le forme eccessive di garanzia e certezza. Tuttavia la scienza non ha niente a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa attraverso l’ipotesi, che non può essere validata se non previa verifica: non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di far arretrare progressivamente, seppur di poco, le frontiere dell’ignoto. Il fatto che nell’effettiva routine della pratica scientifica questa possa divenire oggetto di quelle critiche intestabili a qualunque pratica sociale che implichi rapporti di potere o di proprietà è tutta un’altra faccenda. Ciò che resta è che la scienza è l’unico settore dell’attività umana in cui si può parlare di progresso cumulativo senza timore di sbagliare. È esattamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzamento della conoscenza, nella misura in cui costituisce una scommessa sull’avvenire sempre rivedibile. Se l’esperimento non le verifica, si ritorna alle ipotesi. Nei paesi comunisti, che pretendevano di essere guidati dal materialismo “scientifico”, l’accusa di revisionismo era considerata molto grave e poteva comportare conseguenze spiacevoli per quanti ne erano oggetto. Al contrario, l’idea che il modello scientifico debba ispirare la politica umana passa attraverso la promozione dell’ipotesi, della verifica e dell’eventuale revisione. A questo proposito è legittimo chiedersi se la conoscenza non sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana, se essa non ne sia l’oggetto stesso e, più in generale, se la questione degli obiettivi non debba essere dominante in tutti i dibattiti politici, economici e sociali. Se si è identificato il peccato originale nella conoscenza, nel desiderio di conoscere, questa convergenza con il mito pagano di Prometeo configura invece un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come fine ultimo della condizione umana si situa certamente al di là dei limiti spaziali e temporali di ogni vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza tra le persone passi attraverso l’accesso alla conoscenza, attraverso l’istruzione. Designando la conoscenza come obiettivo e fine ultimo dell’umanità, si fa riferimento semplicemente all’uguale dignità di tutti gli individui. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per cosa viviamo?, nel senso di “in vista di cosa?”. D’altra parte, l’obiettivo della conoscenza non è in contraddizione con quello, espressamente formulato dall’Illuminismo, della felicità. Questa condizione non può essere definita per ognuno se non come la simultanea coscienza di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di tale coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nel termine fratellanza, che la Repubblica francese ha aggiunto alle due prime parole che costituiscono il suo motto: libertà e uguaglianza. Nessun individuo può pretendere di raggiungere una felicità totale, tanto meno una conoscenza totale. Tuttavia la nozione di sacro, secondo Durkheim, passa attraverso la presa di coscienza retrospettiva e in forma vivace dei momenti eccezionali in cui la coscienza degli altri si era fatta più vivida: Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui scaturiranno nuove formule che serviranno, per un certo tempo, da guida all’umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolarmente i frutti.[5] La definizione durkheimiana di una sorta di sacralità laica ci tornerà utile dal momento che presuppone la tripla dimensione dell’uomo: individuale, culturale e generale. Ognuna di esse può trovare il proprio compimento solo nel rispetto delle altre due. L’avventura umana si svolge singolarmente in ogni coscienza individuale. Tuttavia il necessario riferimento al prossimo, senza il quale non si può costruire alcuna identità individuale, è in larga parte determinato dall’apparato simbolico delle società e delle culture particolari; queste possono essere talmente costrittive da togliere qualunque significato alla nozione di libertà individuale (ed è ad esse che bisogna imputare la storica disuguaglianza tra uomini e donne). La piena coscienza individuale non si realizza, invece, che attraverso quella dell’appartenenza al genere umano, indipendentemente dalle origini e dal sesso. La tripla dimensione dell’essere umano costituisce dunque il principio da cui partire per poter formulare il suo stesso fine, l’effettiva universalità, e per definire l’incerto luogo della sua messa in atto: le società nella loro diversità. Dunque l’obbligatoria constatazione di un indebolimento, se non della scomparsa, dei progetti politici del ventesimo secolo non ci porterà a trarre solo conseguenze negative poiché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite dell’avvenire ci dà forse una reale possibilità di concepire dei cambiamenti, in forza dell’esperienza storica concreta e della pratica e della ricerca fondamentale. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a guardare verso l’avvenire senza proiettarvi le nostre illusioni. Elaborare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: ecco ciò che ci insegna la scienza, ciò che dovrebbe promuovere ogni programma educativo e a cui dovrebbe ispirarsi qualunque riflessione politica. Si delinea così la sola utopia valida per i secoli a venire, le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione appare l’unica possibile via per frenare, se non invertire, il corso dell’utopia nera che oggi sembra in via di realizzazione: quella di una società mondiale ineguale, per la maggior parte ignorante, illetterata o analfabeta, condannata al consumo o all’esclusione, esposta ad ogni forma di proselitismo violento, di regressione ideologica e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario. NOTE 1. JeanFrançois Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2002 (ed. or. La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979). |