Paolo Savona: «Si deve avere più coraggio per cambiare la Sardegna» [di Luca Rojch]
La Nuova Sardegna 29 aprile 2017- L’economista sprona la Regione: «Basta con le politiche assistenzialistiche Non riesco a vedere un progetto coerente. Ora si deve andare controcorrente». Nessuna paura di andare controcorrente. Lo sguardo di Paolo Savona sullo stato di salute dell’economia della Sardegna somiglia a una mannaia nascosta dentro un mazzo di fiori. L’ex ministro ha le idee chiarissime. Le scelte economiche della Regione sono legate troppo a politiche assistenziali. Investire soldi pubblici su aziende che non hanno la forza di stare sul mercato è del tutto inutile. La zona franca così come è concepita non serve a nulla. Brexit e protezionismo Usa emargineranno sempre più la Sardegna. Queste in pillole alcune posizioni del Savona-pensiero. Una scossa e un richiamo a una politica un po’ sonnacchiosa. Con le difficoltà delle grandi industrie nell’isola quale è secondo lei la strada che la Sardegna deve portare avanti per il suo sviluppo economico? «Quello che sta facendo sua sponte, ma non bene: agroindustria (incluso allevamento) e turismo (inclusi scuola-formazione e servizi per la vecchiaia). Tuttavia, occorre che queste attività vengano “messe in rete”, ossia fare parte di un disegno coerente della Regione che crei infrastrutture adeguate, smettendo con lo “svenarsi” per l’assistenza nelle varie forme. Va messa a frutto l’enorme disponibilità di terreni incolti, con una nuova riforma agraria che accetti e invogli l’iniziativa privata. Affinché avvenga, occorre una rivoluzione culturale che non vedo alle porte: meno assistenza e più opportunità». Molti indicano il turismo come via maestra dello sviluppo, ma le presenze di turisti stranieri in Sardegna nel 2015 hanno sfiorato i 6 milioni. In Veneto sono state 42 milioni. «Manca appunto “la rete”, il disegno di che cosa si deve fare e il rafforzamento della cultura dell’accoglienza rispetto a quello del semplice sfruttamento che tanto irrita il turista. L’ampliamento dei servizi alla vecchiaia è una nuova parte rilevante di questo settore». La Sardegna non è mai riuscita a cancellare il gap dell’insularità. Quanto pesa sull’economia? «L’insularità pesa in assenza di un disegno. Tra le infrastrutture necessarie ci sono quelle telematiche, uno strumento non adeguatamente sfruttato. Tempo fa ho scritto che, a causa degli sviluppi dell’informatica, la Sardegna non è più un’isola. Il gap più grave dal punto di vista fisico è nelle infrastrutture di trasporto, per la mancata apertura all’offerta internazionale di questi servizi. Bisogna smetterla di privilegiare l’offerta tradizionale e locale». Si parla di un tentativo di rilancio dell’economia del Sulcis, da Alcoa a Eurallumina, ma senza il sostegno della Regione e del governo sembra impossibile. Secondo lei ha ancora senso che si investano soldi pubblici su imprese che garantiscono posti di lavoro, ma fanno fatica a stare sul mercato? «Non ha nessunissimo senso! Da Presidente del Credito Industriale Sardo mi opposi alla nascita di questa industria in Sardegna. Non poteva sopravvivere. Pretesi da Reviglio, allora presidente dell’Eni, cessionaria dell’alluminio dopo il fallimento dell’Efim, una lettera (simile a una manleva) in cui dichiarava d’essere cosciente che il conto industriale non quadrava e occorreva l’assistenza pubblica. Egli la inviò. Dove è finita? Questi interventi sono improduttivi, vestiti di una falsa socialità, e sono parte di ciò che non va fatto se veramente si vuole muovere verso un’alternativa occupazionale nella direzione da me auspicata». Cosa pensa delle scelte della Regione sulla politica economica?«Penso che indulgano troppo alle istanze assistenziali che provengono dall’elettorato. Capisco che è rischioso andare controcorrente, ma almeno ci devono provare. Per serietà e capacità, l’attuale vertice potrebbe farlo, ma manca la volontà di mettersi in gioco per un obiettivo corretto». La Regione ha fatto un affare ad accollarsi il costo della sanità? 3.2 miliardi all’anno, oltre la metà della sua finanziaria.«Non è la Regione ad averlo voluto, ma la politica nazionale ad averlo chiesto e l’elettorato sardo ad averlo accettato. La sanità è un’infrastruttura sociale importante, ma deve avere lo scopo di assistere innanzitutto i più bisognosi, mentre oggi rifluisce dovunque e per tutti. Ciò ha impedito la nascita di una seria organizzazione assicurativa di tipo sanitario». Il centro della Sardegna sembra essere la zona più in difficoltà. Un mix di spopolamento, debolezza ed eccessivo frazionamento delle imprese. Costi molto alti di trasporto e materie prime. Si può uscire da quello che sembra un vicolo cieco?«Considero questo uno dei problemi più importanti da affrontare con urgenza, non solo a chiacchiere, come si va facendo. Occorre operare finalizzando le iniziative nel quadro di una strategia sanitaria e scolastico-formativa ampia. Sono fortemente contrario all’accentramento dei servizi sanitari e scolastici-formativi nelle grandi città o nei grandi complessi, già intasati e perciò fonti di inefficienze invece che di risparmi. Accentrerei decentrando questi servizi nelle aree in via di spopolamento. L’iniziativa di offrire gratis o a basso prezzo abitazioni in queste aree mi sembra un’idea che ha già avuto successo all’estero, a condizione che i beneficiari ci vivano per la maggior parte dell’anno (sei mesi almeno) e paghino le tasse locali». La cultura può essere la nuova “industria” su cui potrebbe puntare il Nuorese e più in generale l’isola?«Se piace il termine industria, per me va bene, ma l’idea è avere una “nuova economia”. Ho sempre pensato a Nuoro quando ho avanzato le idee di questa nuova economia. Considero il Nuorese l’area più dotata per un esperimento di rilancio della produzione e dell’occupazione. Ha una dotazione di capitale naturale di enorme importanza, che non ha neanche iniziato a utilizzare. La popolazione del nuorese deve capire i contenuti di questa proposta e organizzarsi per chiedere e attuare “la rete” di infrastrutture adeguate». Il Qatar ha deciso di puntare sull’isola, secondo lei come si possono attirare altri grossi investitori internazionali?«È noto che non mancano le risorse, ma le structure d’accueil culturali e amministrative che le accolgano». Cosa ne pensa dell’idea sulla flat tax di 100mila euro all’anno per i super ricchi? Potrebbe convincere nuovi paperoni a trasferire la residenza fiscale in Sardegna, e in particolare in Costa Smeralda?«La ritengo non facilmente gestibile e socialmente ingiusta. Sono contrario. Meglio offrire la casa da restaurare alle condizioni indicate». Si parla sempre più spesso di zona franca per la Sardegna? È un’utopia o ci sono radici concrete per una sua realizzazione?«È un concetto ormai logoro sul quale i sardi per primi non sono stati capaci di mettersi d’accordo e di organizzare la realizzazione. Non sono le tasse a impedire attualmente lo sviluppo della Sardegna. La mia idea non è cambiata: farei la zona franca riconoscendo l’esonero fiscale solo per l’occupazione creata (ma la nuova legislazione ci va già vicino senza ricorrere alla zona franca)» Brexit e protezionismo Usa che conseguenze avranno per l’economia della Sardegna? «Non solo questi due importanti eventi. Gli andamenti internazionali operano in direzione dell’emarginalizzazione della Sardegna. Perciò i settori che indico come trainanti, essendo legati al territorio e, quindi, in buona parte indipendenti dalla dinamica mondiale, vanno curati in modo particolare. Occorre progettare questo sviluppo partendo dai posti di lavoro da creare nei settori indicati: la domanda che nascerà va seguita nelle sue destinazioni per evitare che essa defluisca all’esterno. Non mi risulta che esista un documento pubblico e/o privato che parta da questi obiettivi e giunga a conclusioni concrete». |
Penso che Paolo Savona abbia complessivamente ragione.
Prima di tutto, un nuovo modello di sviluppo. In che senso? Nel senso di svoltare nettamente rispetto a quanto fatto finora. Non più cattedrali nel deserto che lavorano per lo più materie prime di importazione, ma utilizzo prioritario delle risorse locali.
Bisognerebbe di conseguenza ripartire dal settore primario, agricoltura e pesca, e avviare una oculata gestione delle risorse. Lo sfruttamento (già questa parola non è delle più felici) delle risorse deve essere logica e razionale. Non dobbiamo tagliare il ramo su cui siamo seduti. Non dobbiamo fare il passo più lungo della gamba. Non dobbiamo cioè consumare materie prime in misura maggiore a quanto la natura è in grado normalmente, senza forzature, di riprodurre. Un po’ come la rotazione delle colture che si faceva una volta. Bisogna anche naturalmente continuare, migliorandola, nella cultura del riutilizzo e nella produzione quindi di quelle che si chiamano materie seconde.
Lo sviluppo economico andrebbe programmato realizzando una sintesi virtuosa tra risorse disponibili, soddisfazione dei bisogni primari della popolazione, possibilità di collocazione dei prodotti eccedenti sul mercato. Il governo regionale dovrebbe regolare il tutto attraverso una seria programmazione pluriennale e un meccanismo di incentivi e disincentivi.
Per farsi un’idea quanto più possibile precisa sulle risorse disponibili, bisognerebbe prima di tutto incaricare una bella squadra di agronomi (penso siano loro che se ne possano occupare) affinché analizzi le varie tipologie di terreno presenti in Sardegna per stabilire la vocazione produttiva di ciascuno di essi. Una volta che si dovessero avere questi dati, si potrebbero stabilire le coltivazioni pensando prima di tutto alla popolazione residente e in secondo luogo alla produzione per il mercato. Il mercato potrebbe essere costituito prima di tutto dalle strutture turistico-alberghiere (che dovrebbero approvvigionarsi soprattutto con prodotti locali), ma anche dalla collocazione fuori dalla Sardegna, nel resto d’Italia e d’Europa, e nel Mondo.
I prodotti che non si dovesse riuscire a collocare sul mercato così come sono, li si potrebbe destinare alle industrie agroalimentari di trasformazione per farne soprattutto dei prodotti a lunga conservazione, sia per il mercato interno che per quello esterno alla Sardegna.
Che fare per l’approvvigionamento energetico? Anche in questo settore penso che sarebbe necessario svoltare nettamente. Bisognerebbe puntare su una fuoriuscita graduale ma decisa da un uso prevalente di combustibili fossili verso un uso prevalente di energie rinnovabili. Nello stesso senso di quanto detto prima per la terra.
Per il consumo privato dei singoli cittadini, penso che la soluzione più logica e razionale sarebbe l’autoproduzione: mini eolico, solare fotovoltaico, … Simile dovrebbe essere la soluzione per gli edifici pubblici: collocazione di pannelli fotovoltaici sui tetti di scuole, uffici, ospedali, … Oltre alla loro graduale e programmata riqualificazione (o anche ricostruzione, quando necessario) con interventi di efficientamento energetico.
Per le industrie si potrebbero risanare e riqualificare le aree industriali dismesse, che anche in Sardegna non mancano. Lì si potrebbero installare sia le nuove industrie che gli impianti eolici o solari di vario tipo per la produzione di energia elettrica. Si eviterebbe tra l’altro così l’onere di dover trasportare l’energia su grandi distanze.