La sintesi necessaria fra tecnici e politici [di Giuseppe De Rita]
Il Corriere della sera 3 maggio 2017. Oggi c’è bisogno più che mai di conciliare la conoscenza dei fatti con la procedura per decidere su di essi. Sia di esempio la generazione di Alberto Beneduce Fra i responsabili della cosa pubblica torna a serpeggiare, e neppure sottotraccia, la contrapposizione fra «tecnici» e «politici». I primi ritengono di poter riproporre il valore della propria dimensione («quando i problemi sono tecnici….») ed i secondi pensano che comunque bisognerà passare per loro, in quanto ogni decisione è comunque ispirata da opzioni politiche. Era dall’epoca del Governo Monti che tale contrapposizione non entusiasmava più l’opinione pubblica, anche perché la intensa leadership di Renzi ha codificato la supremazia della politica ed ha rassicurato la gente comune, sempre sospettosa verso i «tecnocrati» che sfruttano le proprie competenze per esercitare un proprio potere. Oggi invece la contrapposizione ritorna, anche se in forma meno esplosiva che nel passato. Avremo allora per un po’ di tempo qualche mediatica scaramuccia fra diversificate strategie personali, ma poi tutto si illanguidirà e tecnici e politici navigheranno in parallelo nella palude dei comportamenti quotidiani. E si dimenticherà l’essenziale, cioè che il rapporto fra dimensione tecnica e dimensione politica non può essere banalmente duale, ma ha bisogno di sintesi, di competenze cioè capaci di capire e gestire la profonda complessità (sempre insieme tecnica e politica) dei problemi da affrontare e risolvere. Forse vale la pena ricordare che in Italia «c’era una volta» un gruppo di tecnici-politici capaci di gestire la sintesi fra la conoscenza dei fatti e le procedure per decidere su di essi. È stata la generazione di Beneduce, l’uomo che seppe fare sintesi complessa per addivenire alle epocali decisioni degli anni 30 (riforma bancaria, creazione dell’Iri e dell’Imi, avvio dello Stato sociale); che silenziosamente formò quel gruppo di tecnici-politici che guidò il nostro sviluppo nel secondo dopoguerra (Giordani, Menichella, Saraceno, Mattioli); che ispirò una professionalità tutta orgogliosamente tecnico politica, libera da supremazie accademiche e da tentazioni elettorali (primi fra loro Sergio Paronetto e Giorgio Ceriani Sebregondi, poi Guido Carli, Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato, Nino Andreatta, ed altri che poi preferirono diventare politici a tutto tondo). Se ci si pensa bene, buona parte della migliore classe dirigente degli ultimi ottanta anni è cresciuta sul piano tecnico politico, nell’impegno cioè a presidiare e gestire l’intreccio fra rigore tecnico e discrezionalità politica. Stagione irripetibile? Forse, visto che ogni generazione copre un’epoca e che è inutile indulgere alla nostalgia per un mestiere che è stato parzialmente anche mio; ma non si può non constatare che la scomparsa della figura del «tecnico-politico» ha portato ad una progressiva povertà del dibattito e della dinamica di sviluppo del Paese, ed all’accentuarsi di lontananze anche umane nella nostra classe dirigente. I tecnici in circolazione, pur avendo talvolta ambizioni di sintesi, restano quasi sempre studiosi disciplinari, senza esperienze di dialettica sociopolitica e senza frequentazione dei corridoi ministeriali, relegati a fare da «consiglieri» in una elegante stanza del potere; mentre i politici in circolazione, spesso prigionieri dell’orgoglioso loro primato, vanno per proprio conto, decidendo e/o comandando senza neppure la curiosità di capire, ordinare, orientare, accompagnare i processi reali. Rischiamo allora nel prossimo futuro piccole polemiche espresse in circuiti stretti, ma esse avranno poca sostanza, se non riusciranno a rilanciare quella volontà di fare sintesi che è stata pane quotidiano della generazione precedente e che ancora oggi servirebbe quanto il pane. Non è un deficit di poco conto, ma è verosimile che sia oggi considerato di secondaria importanza.
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