I social media e la morte da esporre [di Antonietta Mazzette]
L’ennesimo caso di suicidio a Sassari dal ponte di Rosello obbliga tutti noi a riflettere su almeno tre aspetti della vicenda. Il primo riguarda il fatto che da quel ponte è facile buttarsi giù. Basta un attimo di sconforto per una qualunque ragione e l’essere umano non ha alcuna possibilità di ripensarci. Eppure, la soluzione di rendere quantomeno difficoltoso il gesto estremo del suicidio da quello specifico luogo è quasi banale. Nessuna amministrazione ha provveduto finora, nonostante i reiterati casi di morte, e se quella in carica vuole distinguersi dalla schiera di amministrazioni che l’hanno preceduta e che si sono susseguite nei decenni, convochi urgentemente un consiglio comunale, deliberi l’innalzamento della barriera di ferro e avvii l’iter dell’affidamento dei lavori, senza indugio. Il secondo aspetto riguarda tutte quelle persone (non so quante fossero e anch’io non voglio sapere chi fossero) che, invece di aiutare i due uomini che hanno tentato inutilmente di salvare la donna, hanno vestito il ruolo di cinici spettatori, riprendendo con i loro cellulari la caduta di un essere umano. In questo comportamento e senza scomodare alcun pensiero psicologico o sociologico, si ravvisano sia uno smarrimento del senso dell’umano, giacché intervenire per salvare una vita fa parte dell’istinto di ognuno di noi, sia una idea volgare della morte da esporre e condividere, come un qualunque fatto sciocco e superficiale della quotidianità. Ai frequentatori dei social media suggerisco di rinviare al mittente e con disdegno il video in questione, mentre gli eccitati produttori del video farebbero bene a vergognarsi e a ripensare al loro comportamento. In merito al fotografare o riprendere con un video la morte, durante una visita ad Auschwitz e davanti alle centinaia di migliaia di scarpe collocate dietro una parete di vetro, ricordo l’indignazione di una guida polacca quando alcuni turisti (italiani per l’appunto) hanno iniziato freneticamente a riempire di foto e video i loro giocattoli tecnologici. La guida con durezza ha detto loro: ogni paio di scarpe qui esposto rappresenta un essere umano e la sua lenta agonia; di fronte alla tragedia della morte bisogna stare in silenzio e fare un passo indietro perché l’unico sentimento ammesso è quello della pietas. Il terzo aspetto riguarda la solitudine che porta una persona a compiere il gesto estremo. Ogni volta che ciò accade, si registra una sconfitta del singolo, ma anche della comunità per non aver saputo costruire gli anticorpi sociali alla disperazione individuale. Con ciò, non voglio riversare delle responsabilità sulla città di Sassari. Sono sempre tante e complesse le ragioni che inducono degli esseri umani a rifiutare la vita, e non sempre è facile dar loro una mano o trovare delle soluzioni, ma vale sempre la pena di tentare di fondare il mondo che ci circonda sul rilancio delle capacità relazionali di cui hanno trattato sociologi come Ash Amin e Zygmunt Bauman, le uniche che consentono di tracciare i caratteri di una buona città. C’è una necessità e una convenienza per tutti ad adottare politiche finalizzate a garantire esistenze di qualità ed emancipazione che aggirino i particolarismi dell’esperienza urbana che generano solo solitudine. Una buona città si traduce in ampliamento dell’abitudine della solidarietà, costruita attorno a differenti dimensioni di comune benessere urbano e di equilibrio tra civiltà urbana e il suo opposto. Va dunque tutto male? No, perché due persone hanno fatto di tutto per salvare quella vita. Non ci sono riuscite e sicuramente si porteranno per sempre nel cuore e nella memoria l’ultimo sguardo di questa donna a loro prima sconosciuta. Ma con il loro comportamento questi due cittadini ci rassicurano perché ci dicono che il senso profondo dell’umano non è scomparso del tutto. |