Architette: si comincia dal nome a “dare una svegliata alla società” [di Silvia Pasqualotto]

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Il Sole24ore 4 Giugno 2017. L’hanno chiamata la battaglia delle architette. Ma Silvia Vitali, promotrice dell’iniziativa assieme alle colleghe Francesca Perani e Mariacristina Brembilla, assicura che non è così: “Abbiamo solo proposto al nostro Ordine (di Bergamo ndr.) di adeguarsi a una buona pratica che era stata promossa dal Comune di Bergamo: quella di declinare al femminile i nomi delle professioni come prescritto da una circolare ministeriale del Dipartimento pari opportunità”.

A Silvia l’idea era sembrata piuttosto normale. Quasi scontata. Ma si è accorta ben presto che le cose non stavano proprio così. Sulla pagina Facebook di ADA Donne Architetto, dove erano state postate varie notizie sulla loro iniziativa, molte colleghe (sì proprio le donne) hanno infatti iniziato ad attaccarle.

C’è chi si è limita a commentare con un: “Che brutto. Svilente”. Chi invece ha rivendicato con orgoglio il proprio titolo al maschile, come le professioniste che hanno scritto: “Architetto me lo sono guadagnata e me lo tengo a denti stretti!”; “Nessuno tocchi il mio timbro per cui ho faticato tanto e per cui ancora fatico. Già è difficile farsi rispettare”; o ancora: “Va bene il linguaggio di genere, ma operando in un contesto prettamente maschile, il sostantivo si presta a facili ironie; ergo, preferisco che si usi la forma antica e neutra di architetto”.

Come a dire che la vera parità è rappresentata dal fatto di potersi fregiare del tanto ambito titolo di “architetto”, visto che essere donna in questo lavoro rappresenta già una forma di discriminazione.

A manifestare scetticismo verso il titolo declinato al femminile sono state soprattutto le colleghe che ricoprono ruoli apicali o che hanno alle spalle un’importante carriera”, rivela Silvia Vitali. Il motivo? C’è chi, come Cecilia Robustelli – docente di linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, e collaboratrice dell’Accademia della Crusca – pensa che le ragioni siano culturali: “Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sono, celatamente, di tipo culturale”.

E questo significa che in molte di noi “è interiorizzato un modello di parità legato all’omologazione all’uomo. Sono gli uomini infatti che occupano la maggior parte delle cariche e dei ruoli di potere. E quindi, inconsapevolmente, si cerca di omologarsi a quel modello”.

Eppure nemmeno per Silvia, Francesca e Mariacristina diventare architette è stata una scelta immediata. “Ci siamo arrivate dopo un percorso iniziato nel 2011 con il gruppo Archidonne. Lì piano, piano abbiamo capito che per cambiare quello che non va nella nostra professione e mettere sotto la lente i problemi delle professioniste bisognava dare un segnale e, soprattutto, iniziare a chiamare le cose con il proprio nome. L’italiano è infatti una lingua viva che riflette e descrive i cambiamenti sociali come è avvenuto, per esempio, con il termine femminicidio, introdotto per descrivere una tragedia che, per essere affrontata nel modo giusto, doveva prima essere riconosciuta da tutti attraverso le parole”, ricorda Mariacristina.

Chiamarsi archittette per Silvia, Francesca, Mariacristina e le altre colleghe che si stanno avvicinando alla loro iniziativa, “non è un fine ma un mezzo per dare una svegliata alla società”. Un modo, quindi, per mettere sotto la lente problemi irrisolti come quello della conciliazione e del suo impatto sulla carriera.

Secondo Francesca, infatti, “in Italia il peso di questo aspetto ricade ancora tutto sulle donne. Sono loro a badare ai figli, e sempre loro a prendersi cura degli anziani. Tutto ciò si traduce in una serie di stop forzati alla carriera che ci penalizzano rispetto ai colleghi maschi”.

Da questo problema dipendono poi, secondo lei, tutti gli altri: “Prendi la disparità salariale (secondo i dati Cresme gli architetti guadagnano il 57% in più rispetto alle colleghe ndr.). È chiaro che siamo pagate meno se lavoriamo meno. Molte di noi non riescono infatti a dare la stessa disponibilità ai clienti perché devono dividersi tra mille impegni. Allo stesso modo fatichiamo a partecipare a riunioni, incontri e seminari che ci aiuterebbero ad avere visibilità e che tuttavia sono organizzati sempre in orari scomodi per chi, ad esempio, deve andare a prendere i figli a scuola”.

Si tratta di difficoltà che, sommate le une alle altre, finiscono per scoraggiare le professioniste, creando così un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

I numeri infatti parlano chiaro. Secondo l’ultima indagine condotta dal Consiglio nazionale degli architetti durante l’evento Studi aperti è emerso che solo 86 degli oltre 624 studi di architettura italiani sono guidati da donne. Non solo. Se si guarda ai dati degli iscritti agli albi professionali, si nota che solo 3 donne laureate su 10 (le studentesse sono attualmente il 50% degli iscritti alle facoltà di architettura) si iscrivono poi all’Albo. “Molte di loro finiscono a fare le insegnanti di storia dell’arte o di disegno tecnico. Alcune vanno a lavorare in aziende di arredamento e una buona parte molla tutto e fa solo la mamma”, rivela Mariacristina che le difficoltà di tenere insieme vita privata e lavoro le vive ogni giorno.

In altri casi, come è successo a Silvia all’inizio della sua carriera, le architette vengono invece delegate a mansioni minori, quasi di segreteria, e tenute lontane dal cantiere. In generale, è per tutte abbastanza difficile inserirsi in un ambiente tradizionalmente maschile – dove la donna viene vista ancora come “l’assistente di qualcun altro” – e riuscire a ottenere incarichi importanti.

E questa assenza al vertice della professione, secondo Francesca, si vede anche nella composizione delle commissioni e delle giurie dei concorsi: “Le donne non sono mai sedute a quei tavoli e questo secondo me è una mancanza grave perché è in quei contesti che le giovani vedono i propri modelli di riferimento. Ma come faccio a immaginare me stessa in certi ruoli se non ci vedo mai nemmeno una donna? Come posso rialzarmi dopo una maternità se non vedo mai nessuna donna che ce l’ha fatta?”.

Eppure – ne sono convinte le tre architette – un mondo del lavoro più inclusivo farebbe bene non solo alle donne ma anche agli uomini. “Donne e uomini che lavorano – spiega Mariacristina – danno vita a una società migliore perché incrociano le proprie abilità e punti di vista. Ma per farlo servono politiche sociali che aiutino le donne, e i genitori in generale, a non dover scegliere tra il lavoro e la carriera. Iniziative come il lavoro agile vanno in questo senso ma c’è ancora tanta strada da fare. E il nostro è solo un primo piccolo passo”.

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