Chi ha sottovalutato il no al referendum [di Guido Crainz]
La Repubblica, 27 giugno 2017 . C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No. Eppure – è difficile negarlo – la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro. È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma. Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore – dopo molti anni -, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia. E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella). Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza – oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali – l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni). Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile. È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato. |
È ora, è ora, è ora di cambiare! Il PCI deve governare! Così dicevamo in coro nelle tante manifestazioni negli anni 70. Il PD invece, che io ritengo nonostante tutto l’erede principale del PCI, la maggior parte delle volte si preoccupa più di vincere le elezioni (spesso e volentieri anche senza riuscirci) che di creare le condizioni per cui, in caso di vittoria, si sia in grado di Governare il cambiamento(con la G maiuscola).
Cosa manca? Manca il Partito (anche questo con la P maiuscola). Io penso che nel panorama politico italiano, il PD sia, con tutti i suoi difetti e le sue inadeguatezze, l’unica associazione politica che si possa chiamare Partito, nel senso costituzionale del termine (articolo 49). Non lo ritengo, tuttavia, allo stato attuale, adeguato a gestire un cambiamento sostanziale dello stato di cose presente.
Da dove partire quindi per realizzare una Democrazia migliore di quella che ci ritroviamo adesso? Secondo me, dalla Legge sui partiti politici, in ottemperanza a quanto si dice nell’articolo 49 della Costituzione. Anche per evitare che nascano organizzazioni più o meno a carattere personal padronale, con a capo un leader proprietario (ogni riferimento a Berlusconi e Grillo non è puramente casuale, ma potrei fare anche altri esempi), senza al loro interno una possibilità di partecipazione democratica degna di questo nome.
Questa deve essere la base del cambiamento, la conditio sine qua non. Quei partiti che non avessero una vita interna con regole conformi al dettato costituzionale non dovrebbero poter partecipare alle competizioni elettorali. A nessun livello. Adesso non è così. Attualmente forse solo il PD ha una vita interna con regole grosso modo coerenti con l’articolo 49 della Costituzione.
Voglio dire che il PD va bene così com’è? Assolutamente no! Diciamo che nel panorama politico attuale esso rappresenta forse il meno peggio, se si potesse dire! C’è al suo interno ancora troppa politica politicista. Cosa voglio dire? Ho la sensazione che molti, troppi si occupino di politica non per perseguire i propri ideali, per cambiare in meglio, per tutti, la società ma talvolta solo per perseguire i propri obiettivi individuali, i loro interessi di bottega, si potrebbe dire. Ricordo che nello statuto del PCI, quando mi sono iscritto nel 1975, si affermava che il militante comunista dovesse essere prima di qualsiasi altra cosa un cittadino esemplare. Non potrebbe essere lo stesso anche per il PD? E anche per tutti gli altri partiti, oserei dire? Anche perché non ci dobbiamo limitare a chiedere agli altri (ai politici), ma ciascuno dovrebbe impegnarsi in prima persona, assumendosi delle responsabilità. Siamo tutti politici!
Il problema è quindi, per chi si ritiene progressista: cambiare il PD. Una mano in tal senso la stanno dando forse anche i cittadini elettori. Negli ultimi tre anni il PD ha avuto successo, elettoralmente parlando, alle ultime europee e alle ultime regionali in Sardegna. Nel 2014! Tutti gli altri appuntamenti elettorali li ha persi, o quantomeno non vinti, per dirla con Bersani. Perché? Secondo me manca una linea coesa e coerente. Manca un discorso di prospettiva. Si vive alla giornata. Bisogna tornare a programmare. In tutti i campi. E bisogna soprattutto programmare un piano graduale ma continuo di rientro dal debito pubblico. Si enfatizzano riforme che lasciano per lo più il tempo che trovano: le sedicenti riforme istituzionali (bocciate col referendum dai cittadini elettori), l’altrettanto sedicente buona scuola che non ha inciso, e non incide strutturalmente nel modo e nelle condizioni concrete di fare scuola ma in modo solamente marginale e quindi non basta di certo per cambiamenti davvero qualitativi. Si è utilizzato un modo discutibile per evitare il referendum sui voucher.
Serve anche una legge elettorale che consenta a tutti i cittadini elettori di essere e sentirsi rappresentati e allo stesso tempo a chi vince le elezioni di poter governare. Per me quella più adatta sarebbe quella maggioritaria con doppio turno di collegio, cosiddetta di tipo francese, con l’aggiunta di una piccola quota proporzionale per consentire il diritto di tribuna anche ai piccoli partiti, a quelli veri.
E servirebbe soprattutto anche un’altra cosa: che i cittadini tornassero a partecipare attivamente alla politica. Che non delegassero, più o meno esplicitamente, sempre ad altri. Quest’ultima sarebbe forse la cosa (più) fondamentale.