Barca: “Renzi ha fallito. Il cambiamento passa per la società civile” [di Giacomo Russo Spena e Fabrizio Barca]

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MicroMega online, 5 luglio 2017. E’ ancora iscritto al Pd ma il suo impegno politico è altrove. «E’ la mia contraddizione personale» ammette, ridacchiando, Fabrizio Barca il quale, da mesi, trascorre il suo tempo nel capire, ed organizzare, le ragioni dell’associazionismo diffuso nel Paese.

Sì, perché dopo aver fallito nel tentativo di riformare il Pd partendo dai circoli e dalla base del partito – tentativo spazzato via da Renzi e i suoi adepti – Barca intravede, adesso, nella cittadinanza attiva l’unico motore per un cambiamento possibile: “Nella società civile esiste quel giusto mix tra teoria e prassi. E da lì che può rinascere qualcosa“. Non a caso, questo weekend sarà a L’Aquila per il Festival della Partecipazione – promosso e organizzato dal 6 al 9 luglio da ActionAid, Cittadinanzattiva e Slow Food Italia – dove terrà una lectio magistralis su “Disuguaglianze: cittadini organizzati, partiti, Stato”.

In Italia, ma potremmo dire in Europa, cresce la disaffezione nei confronti della politica. Una crisi della rappresentanza forte a tal punto che ormai vota meno di una persona su due, intanto aumenta la disuguaglianza e il potere economico è nelle ferree mani dell’establishment. Viviamo una fase di crisi democratica o di post-democrazia?
«In tutto l’Occidente assistiamo ad un distaccamento tra la gran parte della popolazione e le classi dirigenti. E ciò, attenzione, non è causa delle tendenze epocali degli ultimi anni – il boom economico di Cina e India, le nuove tecnologie o l’emergenza migranti – bensì delle politiche sbagliate adottate per fronteggiare tali tematiche. E’ diverso. Sono stati commessi due errori gravi. Anzitutto l’apertura al made in China, che ha fatto diventare più competitivo il mercato, ha portato vantaggi solo per le classi sociali abbienti mentre le più deboli sono state penalizzate. Di fronte a tale problema bisognava intervenire rafforzando lo Stato sociale, invece si è andati nella direzione opposta e dal 1985 ad oggi si è deciso coscientemente di indebolire il welfare lasciando soli i lavoratori».

Qual è il secondo errore commesso?
«I cittadini sono stati trasformati in votanti/consumatori. Chiamati in causa solo per formare il Parlamento, ogni cinque anni, ma per il resto non vengono coinvolti nella res publica. Assistiamo alla chiusura degli spazi di partecipazione e democrazia quando invece la fase chiederebbe di ampliarli».

Lo scontro ormai è tra popolo vs elite o è una semplice banalizzazione populista?
«Detta così si rasenta l’errore, perché i redditi medi e medio-alti che beneficiano della globalizzazione sono cospicui. Non si tratta di una semplice élite. Preferisco parlare di faglie presenti in seno al popolo, due faglie, secondo me, “di classe“: da un lato gli esclusi, i precari, i lavoratori subordinati; dall’altra le borghesie e l’intellighenzia del Paese. Possiamo pensarle anche in termini di faglie territoriali – da un lato la città, dall’altra la campagna – o allo storico conflitto tra centro e periferia. Il popolo sta da entrambe le parti ma ne esiste uno (maggioritario) perdente e l’altro (minoritario) vincente».

In questa Europa esiste un problema di sovranità perduta?
«Il recupero della sovranità nazionale è un imbroglio di chi vuole sfruttare le faglie per farsi dare pieno mandato, per i propri interessi, scaricando le responsabilità della crisi sociale sulle aperture di mercato e delle frontiere, foraggiando così la guerra tra poveri. Soprattutto le destre populiste hanno assunto tali posizioni; però, com’è nella tradizione del movimento operaio, anche a sinistra sta prendendo piede questa infausta linea del ritorno al nazionalismo. Se ci riflettiamo, durante la Prima guerra mondiale, i socialisti si divisero e una cospicua parte appoggiò l’intervento bellico. La classe operaia – che esiste ancora e nella quale includo il precario o il lavoratore subordinato di Eataly – non si deve far ingannare: la soluzione non passa per la chiusura delle frontiere, ma per una nuova attivazione sociale. In Italia e in Europa».

La partecipazione civica è la risposta dal basso all’antipolitica?
«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli, perché in questo periodo storico è necessario l’antagonismo, anche duro. C’è un pezzo di popolo che non ha chance di rappresentanza politica pur avendo all’interno intelligenze collettive. Dato che i partiti tradizionali non riescono più a dar voce ai soggetti esclusi, vanno costruiti nuovi luoghi che possano acquistare egemonia culturale e politica nel Paese».

Per mesi ha provato a riformare il partito del Pd, adesso invece parla di centralità della società civile. Ha cambiato idea?
«Siamo in una fase di ricerca. Continuo a pensare che ad un certo punto servirà un partito capace di rappresentare gli esclusi: un soggetto collettivo che riunisca pezzi di classi diversi, cittadini rurali – il 30 per cento della popolazione in Europa – con operai e borghesia illuminata. Quindi ritengo sia ancora fondamentale l’idea di un partito moderno, ma ad oggi non lo intravedo sullo scenario politico. Nel Pd non sono capace di vedere per ora margini di recupero. In questo momento preferisco focalizzare il mio impegno politico nella società civile dove vedo molto impegno e le esperienze migliori».

Crede in forme di democrazia diretta?
Bisogna dare sempre più strumenti di potere alle persone esterne ai Palazzi, ma senza nuove norme non esistono oggi i mezzi per conquistare peso sul campo. Inoltre, penso sia indispensabile un rafforzamento del welfare con agevolazioni su reddito e nuova mobilità.

Matteo Renzi, dopo la recente sconfitta alle amministrative, non sembra in grado di fare autocritica… che ne pensa?
«Quando alle ultime elezioni nella ricca Emilia Romagna scopriamo che ad aver votato è soltanto il 40 per cento degli aventi diritto, significa che siamo di fronte ad un fallimento. Una crisi incredibile della rappresentanza in cui tutti si dovrebbero sentire coinvolti e invece… non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire».

Dando per scontato che non ha sostenuto Renzi alle primarie, ha votato Orlando o Emiliano?
«Ho votato Orlando, perché ho ritrovato in lui un modo di agire giusto. Da ministro, quando è intervenuto sulle carceri non si è messo nelle mani degli “esperti” ma prima ha coinvolto le organizzazioni che da anni lavorano nei penitenziari e con i detenuti. La partecipazione non è un mero strumento per il consenso; bensì serve per capire cosa fare e come legiferare in quel campo. La vera partecipazione consiste nella raccolta di conoscenze».

Che destino intravede per il Pd?
«Non lo so, ci sono tanti Pd nel Pd. Alcune esperienze sono virtuose, penso a Parma, dove hanno perso bene contro Pizzarotti. Ma nel partito purtroppo ci sono pure persone che sono lì soltanto per avere un posto di lavoro. Io, dall’interno, ho provato a cambiare le cose, ma evidentemente non sono riuscito a spostare l’ago della bilancia. C’è un’assenza assoluta di visione ed organizzazione; nel Pd manca una rigenerazione culturale».

Si può considerare ancora un partito di sinistra?
«Su alcuni temi civili lo è. Mi riferisco alla proposta sullo ius soli o alle unioni civili. Diciamo che non è un partito di destra».

Pensa che dal sociale possa nascere un nuovo soggetto politico?
«Manca un’organizzazione complessiva, questo è il vero limite: si rischia che restino mille fiori, non in relazione tra loro. Molte organizzazioni svolgono un lavoro meritorio con competenza e concretezza, ma sono settoriali».

Insomma, non c’è nessuno che possa rappresentare i tanti esclusi e gli indignati del Paese?

«Ho rispetto per chi ha tentato in passato questa via, come per Maurizio Landini. O chi ci prova oggi, penso a Pisapia. Ma temo siano tentativi perdenti. I tempi sono lunghi. I giovani sono restii ad un nuovo soggetto, la disillusione soprattutto a sinistra è troppa. Troppi fallimenti nel recente passato. Non credono più al cambiamento politico, almeno finché il quadro resterà questo. In questo momento guardo con interesse ad alcune campagne come quella dell’Alleanza contro la povertà (Caritas, Acli etc) sul reddito di inclusione sociale. Sono mobilitazioni proficue e dal basso si possono ottenere risultati».

Barca, non si è pentito di aver perso il treno? In molti hanno sognato intorno alla sua figura la nascita di un nuovo centrosinistra. Potesse tornare indietro, rifarebbe ogni singola scelta?
«Non ho rimpianti. Non avevo il potere e gli strumenti per far cambiare rotta al Pd. Adesso vivo una contraddizione personale: il mio impegno è nella cittadinanza attiva, sono convinto che da lì possano nascere proposte politiche interessanti, poi nella democrazia rappresentativa voto Pd per non regalare il Paese a Salvini o Meloni».

Di Beppe Grillo invece ha paura?

«Io non ho paura nemmeno di Salvini e Meloni. Come non ho paura di Donald Trump; quell’elezione dimostra che la borghesia di sinistra o di destra delle città viene sconfitta al voto dalla massa di esclusi che vive nelle periferie e in campagna o fa parte dei ceti meno abbienti. Una logica conseguenza. Ripeto, ci vuole tempo per cambiare le cose, intanto punto a far dialogare le tante esperienze sociali».

Al Festival sulla partecipazione sarà anche moderatore di un dibattito tra Roberta Lombardi (M5s) e Alfio Mastropaolo (professore di Democrazia e Partecipazione Politica all’università di Torino) dal titolo: “Serve il finanziamento pubblico ai partiti?”. Ci sarà da divertirsi?
«Sono orgoglioso che a L’Aquila ci sia un tale dibattito, immaginato dall’Associazione Etica ed economia. Noi abbiamo perso l’abitudine al confronto acceso, ragionevole ed aperto. Si tende sempre a ridicolizzare ed esultare l’avversario parlando a dibattiti senza contradditorio. Si sono ridotti i luoghi di confronto. Il Festival della Partecipazione, in tal senso, va in controtendenza. Abbiamo già sperimentato il formato in tre confronti romani. E ci siamo accorti, rilevando le opinioni prima e dopo il dialogo, che le persone sono pronte a cambiare opinione. E’ questa capacità di cambiare idea o di trovare punti di convergenza che rende la partecipazione uno strumento operativo».

 

One Comment

  1. Giovanni Scano

    Condivido in massima parte le opinioni che esprime Fabrizio Barca in questa intervista. Sono apprezzabili le persone come lui che ragionano con la propria testa e tendono a formarsi delle opinioni personali, meglio ancora quando non conformiste e diverse rispetto al comune, prevalente modo di pensare, sugli aspetti fondamentali della vita sociale e politica del Paese.
    Mi piacerebbe mettere in evidenza l’ultimo (but not the least!) argomento affrontato nell’intervista (e rimasto, mi sembra di capire, senza risposta): la questione del finanziamento pubblico della politica. Non esprime esplicitamente la sua opinione in proposito, ma io penso sia favorevole. Probabilmente / Sicuramente tale modo di vedere non raccoglie il consenso della maggioranza degli italiani. Tuttavia, anch’io sono dell’idea che ciascun cittadino, indipendentemente dai mezzi economici di cui dispone, debba poter avere la possibilità di partecipare in prima persona alla vita politica, sia attiva che passiva (votare ed essere votato), sia a livello nazionale che locale. Sarebbe facile obiettare che in passato, quando una qualche forma di finanziamento c’era, i “politici” non hanno saputo farne buon uso. Quindi meglio che una qualunque forma di finanziamento pubblico ai partiti semplicemente non ci sia.
    Sarebbe come dire che è meglio non usare la macchina in quanto tante persone muoiono o rimangono ferite a causa di incidenti automobilistici.
    Io penso invece che una buona legge sul finanziamento pubblico ai partiti la si potrebbe fare. Magari conseguentemente ad una legge sui partiti politici coerente con l’articolo 49 della Costituzione. Anch’essa necessaria e urgente, per porre rimedio alla situazione attuale. Che non mi pare il massimo della Democrazia, costituzionalmente parlando. E magari, contemporaneamente o a seguire, una legge elettorale almeno decente.
    Dopo aver fatto la legge sui partiti politici, una buona legge sul loro finanziamento pubblico si potrebbe basare sull’entità del consenso avuto, sul numero di voti avuti in cifra assoluta e non in proporzione al numero degli elettori che si sono recati a votare. La cifra del finanziamento potrebbe essere annuale / mensile (forse meglio) sulla base della durata reale della legislatura oppure, a livello locale, delle varie consiliature. Il finanziamento non andrebbe alle liste “civiche” ma solo a quelle di partito. Si eviterebbe così tra l’altro il moltiplicarsi di liste, sia localmente che nazionalmente, che spesso non rappresentano opinioni politiche ma hanno una funzione puramente strumentale.
    Credo che un efficiente e trasparente finanziamento pubblico dei partiti contribuirebbe a migliorare sostanzialmente la qualità della nostra democrazia.

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